Entrambi vengono quindi usati nella terapia post-chirurgica (adiuvante), trasformando la cura di questo tumore. Prima dell’introduzione di trastuzumab emtansine (TDM-1), infatti, la terapia adiuvante era uguale per tutte le donne. Oggi, invece, le pazienti con un tumore a maggiore rischio di ricaduta che sono state sottoposte a terapia prima della chirurgia (neoadiuvante) con residuo di malattia possono essere trattate in maniera specifica con trastuzumab emtansine (TDM-1), con una riduzione del 50% del rischio di recidiva o decesso rispetto allo standard attuale. Una rivoluzione riconosciuta anche dall’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA), che ha conferito l’innovatività a trastuzumab emtansine (TDM-1) per la sua efficacia nel prevenire le ricadute nelle pazienti HER2+ ad alto rischio.
L’introduzione di pertuzumab nella terapia adiuvante evolve anche la terapia delle pazienti che non sono state sottoposte a terapia neoadiuvante ma hanno ricevuto la chirurgia al momento della diagnosi: l’aggiunta del nuovo farmaco alla cura attualmente in uso (trastuzumab + chemioterapia) allunga il tempo libero dalla malattia invasiva.
Il nuovo algoritmo terapeutico permette di individuare le pazienti a maggiore rischio di sviluppare metastasi e quindi di offrire loro un trattamento specifico, in grado di migliorarne la prognosi. “Il nuovo algoritmo prevede l’effettuazione della terapia neoadiuvante nella maggioranza delle pazienti con tumore HER2 positivo in modo da capire fin da subito se il tumore è sensibile e, quindi, se regredisce come effetto del trattamento effettuato prima della chirurgia. In pratica, dopo il trattamento neo-adiuvante, il tumore può regredire completamente oppure può persistere un residuo tumorale. Nelle pazienti in cui persiste un residuo tumorale il rischio di sviluppare metastasi successivamente è più alto rispetto alle pazienti nelle quali il tumore non regredisce completamente – spiega Lucia Del Mastro, professore di Oncologia Università di Genova e coordinatrice della Breast Unit dell’IRCCS Ospedale Policlinico San Martino di Genova -. In queste pazienti ad alto rischio al posto della terapia con trastuzumab è oggi possibile somministrare un altro farmaco: trastuzumab emtansine (TDM-1), un anticorpo monoclonale coniugato, formulato per portare con sè, direttamente alle cellule tumorali, molecole di un chemioterapico, in grado di ridurre in maniera molto rilevante il rischio di sviluppare metastasi”.
L’obiettivo nel trattamento del cancro al seno in stadio precoce è fornire alle pazienti le migliori possibilità di cura. Purtroppo, nonostante le terapie esistenti, ci sono ancora molte pazienti che vanno incontro a una recidiva della malattia. Lo studio KATHERINE ha coinvolto proprio pazienti che dopo il trattamento neoadiuvante non avevano raggiunto una risposta patologica completa, pazienti quindi a maggior rischio di ricaduta. I risultati del trial, che ha confrontato la monoterapia a base di trastuzumab emtansine (TDM-1) con quella a base di trastuzumab, ha mostrato una riduzione del 50% del rischio di recidiva o di decesso nelle pazienti in trattamento con T-DM1, un beneficio che rimane consistente in tutti i sottogruppi di pazienti.
“Questi risultati dimostrano quanto sia importante garantire a tutte le pazienti candidabili la terapia neoadiuvante, che oggi tuttavia viene valutata solo in pochi casi, perchè sappiamo che sulla base della risposta ottenuta possiamo offrire una terapia personalizzata – specifica ancora Del Mastro -. Ma anche per le donne che non hanno ricevuto la terapia neoadiuvante e sono considerate ad alto rischio perchè presentano un coinvolgimento dei linfonodi, la pratica clinica è cambiata grazie ai risultati dello studio APHINITY”. Il trial ha dimostrato, infatti, che aggiungere un altro farmaco anti-HER2, pertuzumab, alla terapia standard con trastuzumab, riduce il rischio di recidiva o di decesso del 28%.
Si ridisegna così, all’insegna della maggior efficacia e precisione, il percorso di cura del tumore alla mammella HER2 positivo in stadio precoce. Un percorso complesso, lungo il quale le pazienti devono essere accompagnate da un’èquipe multidisciplinare, come quella garantita all’interno delle Breast Unit: è dimostrato, infatti, che la sopravvivenza delle pazienti seguite all’interno dei Centri di Senologia Multidisciplinari ha un incremento del 18% rispetto a quelle seguite in centri non specializzati. “Il trattamento del tumore al seno è cambiato molto negli ultimi anni: oggi ciascun caso viene discusso collegialmente per stabilire, insieme a tutta l’èquipe multidisciplinare della Breast Unit, quale sia la strategia che può dare più benefici – sottolinea Viviana Enrica Galimberti, Direttore della divisione di Senologia Chirurgica dell’Istituto Europeo di Oncologia di Milano -. Le decisioni vengono prese anche sulla base dell’esame istologico e il ruolo dell’anatomo-patologo è indispensabile per poter personalizzare ogni fase della cura, chirurgia compresa. Il lavoro di squadra è quindi imprescindibile”.
La disponibilità delle due nuove molecole stabilisce quindi una nuova e importante tappa del percorso terapeutico: la valutazione della risposta patologica completa, un esame eseguito dall’anatomopatologo, che permette di capire se esiste ancora un residuo di malattia e quindi consente di indirizzare la paziente alla terapia più adatta per il suo caso. “Valutare in modo accurato l’entità della risposta patologica diventa un passaggio fondamentale nella cura del tumore al seno HER2+ in stadio precoce, non solo per predire la prognosi – conclude Caterina Marchiò, professore associato di Anatomia Patologica, Università degli Studi di Torino, Anatomia Patologica FPO-IRCCS Candiolo -. Il fatto che il nostro lavoro sia diventato così centrale nel percorso di cura, prima, durante e dopo la chirurgia, dimostra quanto il trattamento di questa patologia sia realmente sempre più personalizzato grazie al contributo di diverse discipline”.
(ITALPRESS).
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