- I biscotti di San Martino tra Rum e Moscato
- Le osservazioni di Giuseppe Pitrè
- Il finto Anice di Federico II e la Muffoletta
- San Martino e i prodotti della terra
- La Sicilia e le ricorrenze pagane
- La ‘Riffa’ di Palermo per San Martino
- La leggenda dell’Estate di San Martino
di Maddalena Albanese
“Ecco che arriva il vassoio con i dolci… oggi ci saranno anche i biscotti di San Martino, anche quelli con la crema e la marmellata…”.
Il solito fine pranzo domenicale a casa mia, nelle mie memorie infantili, è illuminato dalla presenza di dolcini disposti in bell’ordine sulla solita ‘nguantiera, un vassoio di cartone dorato (che oggi, con termine esterofilo e post moderno chiameremmo “il cabaret di dolci”). Il vassoio, avvolto nella carta da pasticceria scrosciante e rutilante, veniva portato in trionfo a tavola dove veniva aperto ricoprendo tutto il resto della tovaglia e dove attendeva paziente che ogni commensale prendesse una parte del suo contenuto.
Nel periodo di Novembre, anche “solo per rispettare le tradizioni”, qualche frutto di Martorana, qualche mostacciolo, qualche Tetu’ veniva acquistato; poi, intorno all’11 Novembre facevano la loro comparsa, immancabili, i biscotti di San Martino in tutte le loro forme, colori e sapori. C’erano i biscotti classici, a forma di piccolo vulcano, secchi, croccanti con i semi di finocchio, ‘u finocchio ‘ngranatu, da inzuppo nel vino dolce, o nel caffè, o nel latte (a secondo se si era grandi o piccini).
I biscotti di San Martino tra Rum e Moscato
C’erano gli stessi biscotti secchi con i semi di finocchio e ricoperti dal ‘cimino’, ovvero semi di sesamo (figuriamoci se a Palermo il ‘cimino’ non lo mettiamo anche sui dolci). C’erano ancora i biscotti simili ai precedenti per impasto, ma non lasciati seccare al forno, quindi più morbidi, ma asciutti, con uno strato di confettura di cedro (la cedrata) nel mezzo, velati da uno spesso strato di candida glassa zuccherina, decorati da festoni di ghiaccia reale e incoronati dal cioccolatino Nestle’ semicilindrico, al latte o fondente, avvolto nella stagnola o dalla piccola rosellina di ostia di diversi colori. In ultimo, last but (certainly) not least, il biscotto di San Martino, morbido, soffice di bagna al Rum, o al Moscato, straboccante di crema di ricotta punteggiata di gocce di cioccolato: il mitico “Rasco” (chissà da dove veniva questo strano nome, mi chiedevo con domanda distratta e fugace, l’importante era che fosse buono). Quest’ultimo era il nostro prediletto, quello che mamma e papà lasciavano a noi piccoli. La mamma – sempre instancabile lettrice di vite di Santi – ci raccontava la storia di San Martino, cavaliere poco bellicoso e molto generoso, che non aveva esitato a tagliare di netto il proprio mantello per coprire un povero salvandolo da assideramento certo. Papà concludeva dicendoci che, per questo gesto, San Martino aveva meritato da Dio che la terra fosse riscaldata da temperature miti anche in Novembre, lasciandoci così l’estate di San Martino. Ovviamente il palermitano, lungi dal ringraziare il Buon Dio per sì eccellente dono e meditare sulle opportunità di donare una parte dei propri “mantelli” ai poveri, ha trasformato questa festività nell’ ennesima occasione per dare vita a inverecondi “schiticchi”. Peraltro la tradizione di spillare in tale occasione il vino nuovo, a conclusione della vendemmia e della lavorazione del mosto, non apporta certo moderazione alle riunioni familiari ed amicali che si svolgono in questo periodo.
Le osservazioni di Giuseppe Pitrè
Giuseppe Pitrè, il grande studioso di tradizioni popolari della Sicilia, a tal proposito scrive che durante la Festa di San Martino, nell’Ottocento, “non è a dire la baldoria che si fa a pranzo in questo giorno, quando vi sono convitati…si mangia a crepapelle e si sbevazza fino alla sazietà; conseguenza: chiacchierio, vocio, urli, un vero baccano, i cui attori principali sono gli uomini. Così si crede di fare onore al Santo.” (frase di Giuseppe Pitrè citata in Storie silenziose e quasi dimenticate di Sicilia di Giuseppe Oddo). Come per molti “cibi della festa”, il Biscotto di San Martino sembra essere l’evoluzione golosa di alimenti nati nella notte dei tempi in maniera più povera e semplice. Nell’antica cultura greca due ricorrenze festive ricordano la Festa di San Martino, intesa come festa di celebrazione dei frutti della vendemmia, accompagnati da pani rituali. Secondo il Pitrè, le antiche feste a cui rimanda quella di San Martino sono le Antesterie, dette anche Antiche Dionisie, per distinguerle dalle “Grandi Dionisie”, introdotte successivamente a queste, nel VI secolo a. C. Nel primo dei tre giorni delle Antesterie, chiamato “Pitoighia”, “apertura delle giare”, veniva spillato il vino , nel secondo giorno, detto “dei boccali”, “Choes”, si facevano delle gare di bevute. Nel terzo giorno delle stesse festività , detto “giorno delle pentole”, “Chytroi”, si cuoceva il grano in grandi pentole e si preparava un pane chiamato “Panspermia”- tutti i semi – in cui venivano mescolati all’ impasto i semi di tutte le piante conosciute. Questi pani furono successivamente sostituiti, con la cultura cristiana, dai “Kollyba” (pasticcetti), piccoli pani impastati con le mandorle (simbolo delle ossa), con gli arilli della melagrana (simbolo del ritorno alla terra) e con l’uva passa (simbolo del fatto che la morte non è poi così amara). Le Antesterie cadevano nel mese di Antesterione (corrispondente al periodo dei nostri Febbraio e Marzo), unico punto che non si sovrappone alla tradizione della festività di San Martino, ma simili ad esse vi erano le Oscoforie, che invece si svolgevano in Autunno, tra Settembre e i primi giorni di Novembre, nel mese di Pianepsione.
Il finto Anice di Federico II e la Muffoletta
Andando avanti nei secoli troviamo la presenza di piccoli pani-focaccia con semi di cumino selvatico (detto anche “finto anice”), che veniva preparato per i soldati di Federico II. I pani rimandano alla memoria, ormai sbiadita, dei pani rituali di cui abbiamo parlato, ma il nome probabilmente origina dal termine germanico “muffen” (piccola torta). Nella nostra variegata storia rimarrebbe l’imbarazzo della scelta, riguardo all’origine del nome, visto che potrebbe anche derivare dal francese “mouflet” che significa soffice. Ma comunque, per farla breve, questi piccoli pani, la cui origine si perde nei secoli, sono gli antenati della nostra “Muffuletta”. Anche questo è un “pane delle feste”. In diverse località siciliane la Muffuletta è una pane soffice preparato per le festività dei Morti, che si mangia, dopo la notte trascorsa in attesa dei Cari Defunti, piena di ricotta. È ancora un pane della festa dell’Immacolata, in questo caso ripieno di condimenti dolci e salati per interrompere il digiuno dell’Avvento. In ultimo è un pane della festa di San Martino a Trapani, dove viene impastato con i semi di anice e riempiti con condimenti salati, olio, sale, pepe (v. Zerounotv) meglio ancora, con la mortadella, che “lo rende il pasto principale del giorno di San Martino nella vecchia Drepanum” (v. Cuore e Fiamma: le Muffuletta di San Martino. SuPartannalive.it). Nella Valle del Belìce, peraltro, una pagnotta tondeggiante (Muffuletta), impastata con semi di finocchio, è il cibo tipico del giorno di San Martino , condita con olio, formaggio, sale e pepe, accompagnata dal vino nuovo e seguita anche dai Biscotti di San Martino. (citazione di Tonino Cusumano in Storie silenziose e quasi dimenticate di Sicilia di Giuseppe Oddo). Sembra quasi di vedere un unico “file rouge” che, partendo dal Panspermia delle Antesterie e dai pani rituali delle Oscoforie, attraverso la storia delle soffici muffulette arricchite da semi di finto anice, arriva alla Pitta della Festa di San Martino a Palazzo Adriano, o ai biscotti di San Martino con semi di finocchio, più o meno farciti di crema o confetture, della tradizione palermitana. L’impasto è in fondo sempre lo stesso: pasta di pane, più o meno dolcificata e lievitata, cambia solo la cottura. Vedremo dopo queste tradizioni in maniera più dettagliata.
San Martino e i prodotti della terra
Ma perché la Festa di San Martino viene allietata dai prodotti della terra? San Martino, dopo una onorata e gloriosa carriera nell’ordine equestre dell’esercito imperiale, si dedicò alla vita ascetica, vivendo in ambienti rurali estremamente poveri, cercando ai convertire i contadini dal paganesimo ancora persistente, ma alleviando le pene delle loro miserie. Fatto sta che, dopo la morte del Nostro, in suo nome si diede una spinta propulsiva alla trasformazione di vaste aree boschive in terreni di coltura estensiva, soprattutto nel Centro Europa. E di conseguenza San Martino assurse a patrono dei contadini, i quali mai mancavano di invocare San Martino quale propiziatore del buon risultato della semina. “Quale simbolo di abbondanza egli riceve in vari luoghi, tra la fine della Primavera e l’inizio dell’Estate, le primizie dei campi, fave fresche in baccelli, spighe di grano, orzo, ecc. passando per un’aia, quando si batte il grano, o per una vigna in tempo di vendemmia o innanzi ad un granaio quando si immette il raccolto, i contadini salutano invocando San Martino”. (Storie silenziose e quasi dimenticate di Sicilia di Giuseppe Oddo). Peraltro, annualmente, nel periodo della Festa di San Martino si assiste ad una mitigazione del clima, che già per essere Autunno inoltrato tende al freddo, la qualcosa è sempre ben vista dal mondo contadino. Inoltre la vita rurale era scandita dal tempo di San Martino; infatti durante questo periodo si chiudevano i contratti con i contadini e, se non vi era il rinnovo, intere famiglie traslocavano verso altri poderi. Da qui il termine “fare San Martino”, che è rimasto, ancora ai giorni nostri, con l’accezione di “traslocare”.
Da qui il festeggiare il Santo nel periodo della sua morte e sepoltura con le primizie del vino (il vino nuovo), con i prodotti della terra ( i pani impastati con i semi oppure le prime castagne). Nei secoli si è tramandata, quindi, la tradizione di impastare in onore di San Martino delle focacce soffici arricchite da semi di finocchio, o di anice, le già citate “muffulette”. Tradizione ancora mantenuta in varie parti della Sicilia tra cui la Valle del Belìce e Trapani, come abbiamo già visto. Tutt’ora, nel Ragusano e ad Ispica, il giorno di San Martino viene festeggiato con delle crespelle dolci di pasta lievitata impastate con uva passa e noci. Questo non può non evocare le antiche Antesterie, in onore di Dionisio, di cui abbiamo già parlato ed anche le Oscoforie, sempre in onore di Dionisio e di Atena, allocate in Autunno, tra fine Settembre e metà Novembre. In entrambe le suddette festività i cibi rituali erano pani lievitati, più o meno arricchiti da semi di varie piante, frutta secca e uva passa e frutti della vite. Peraltro le Antesterie, o Antiche Dionisie, con il loro terzo giorno non può non tornare alla memoria quando si parla della Festa di San Martino nella cittadina di Palazzo Adriano. In questo giorno a Palazzo Adriano si festeggiano i novelli sposi dell’anno in corso facendo portare loro dai bambini doni alimentari di ogni tipo e grosse pentole, simbolo e augurio di una vita coniugale ricca di beni. Su tutti questi doni troneggia “la Pitta” (foto tratta da Feste e Sagre in Sicilia), una focaccia di grano, la cui superficie è decorata con l’impronta di un timbro in metallo del XV secolo. Un antico timbro, recante i simboli dell’antica origine albanese, tra cui s’impone l’aquila bicipite, portato dagli antenati degli attuali abitanti di Palazzo Adriano, i profughi Albanesi in fuga dalle loro terre dopo l’invasione turca dell’Albania del 1488.
La Sicilia e le ricorrenze pagane
La cultura siciliana ha, come al solito, assimilato alcune antiche ricorrenze pagane, ormai radicate nella memoria e le ha trasformate alla luce della propria cultura e religione cristiana. Nel corso del tempo la Festa di San Martino da rurale si è urbanizzata e gli abitanti delle città hanno trasformato il pane con i semi e la frutta secca in biscotti lievitati arricchiti con semi di finocchio o di anice, seccati in forno per essere utili all’ inzuppo nel vino novello o nel vino dolce, dando vita così al Biscotto di San Martino come lo conosciamo. Il vino dolce è rimasto nella tradizione della festa di San Martino perché era l’omaggio che solitamente i produttori di vino facevano ai loro acquirenti insieme con il vino novello o con le altre forniture dell’anno. Nelle città i ricchi borghesi si potevano permettere di festeggiare San Martino (sostanzialmente “potevano schiticchiare”) in qualsiasi giorno della settimana fosse caduto l’11 novembre. I più poveri (non i poverissimi, quelli non festeggiavano proprio nulla) dovevano aspettare la domenica successiva, rallegrata dal pagamento della “simanata”. Ovviamente qual è la città dove si hanno notizie di biscotti di San Martino arricchiti, decorati e farciti? E’ Palermo! “A Palermo, negli anni Settanta del Novecento, Antonino Uccello segnalava almeno tre tipi di biscotti di San Martino: uno a forma di seno simile a quello che si confeziona a Licata; un altro più piccolo simile ad una pagnottella, detto “Sammartinello”, ed un terzo, ripieno di pasta di mandorla, conserva e pan di Spagna imbevuto di liquore, ricoperto di una colata di zucchero, confettini argentati, cioccolatini, e riccamente decorato con fiori e ciuffetti verdi” (citazione di Antonio Uccello in Storie silenziose e quasi dimenticate di Sicilia di Giuseppe Oddo).
La ‘Riffa’ di Palermo per San Martino
Peraltro a Palermo era presente, ancora almeno negli ultimi decenni del secolo scorso, l’usanza di indire nei quartieri popolari una “riffa” il cui premio erano i dolci di San Martino. Ma a questi la fantasia golosa del palermitano ha aggiunto i “biscotti Rasco”: Sammartinelli più o meno grandi, preparati con il solito impasto, cotti in forno, ma non lasciati seccare. Quando sono già raffreddati, vengono tagliati a metà, imbevuti (affogati) con una bagna al passito o al moscato e farciti in maniera straboccante di crema di ricotta e di gocce di cioccolato. Non è facile ricostruire l’origine del biscotto Rasco. L’ipotesi più plausibile potrebbe essere quella di una muffoletta-biscotto dolce, arricchito dai semi di finocchio e trasformato, negli anni, dalle menti ingegnose e dalle mani operose della monache di clausura dei conventi palermitani nel dolce barocco e ridondante che oggi conosciamo. Una conferma di questo ci potrebbe arrivare da un articolo di Santi Gnoffo pubblicato sul sito Balarm: “Per San Martino, infine, i biscotti di San Martino nelle varianti chini (inzuppati di liquore e farciti con crema di ricotta) o decorati (ricoperti con glassa e confetti e ripieni di conserva), entrambi accompagnati dal vino moscato”. Ma il nome Rasco, da dove viene? Noi non siamo riusciti a trovare una esatta etimologia, l’unica che ci è sembrata più assonante è quella legata all’aggettivo spagnolo “Rasco”, che significa raschiato; infatti i biscotti vanno scavati, raschiati, appunto, della loro mollica per essere farciti. O forse dal nome di un formaggio spagnolo, detto appunto Rasco dalla sua metodica di preparazione, “che prevedeva di rascare ‘a caldaia…. mentre la rimante cagliata veniva lavorata a pasta filata” (v. Rasco su topfooditaly.net). Sembrerebbe quindi che le influenze spagnole del nostro retaggio culturale si siano fatte sentire anche nelle trasformazioni di questo dolce. Quindi, probabilmente, l’evoluzione del biscotto di San Martino semplice in Biscotto Rasco la dobbiamo alla tradizione dolciaria palermitana sviluppatasi tra le mura dei conventi. Ogni Convento , a Palermo, aveva una propria “Piatta”, specialità. Così ci dice il Pitrè: “Ciascun monastero aveva una piatta, un manicaretto che era il suo distintivo. Giacché non pur l’emblema in marmo o in legno sulla porta del monastero formava il blasone di esso, ma anche il dolce speciale solito a a farsi nel monastero medesimo”. Per esempio il Convento di Santa Elisabetta (ubicabile nella cortina di palazzi attualmente occupata dalla Questura Centrale a Piazza della Vittoria) annoverava tra i suoi cavalli di battaglia ‘la Ravazzata con ricotta’; questo non era altro che una piccola pagnottella svuotata della sua mollica, riempita di crema di ricotta e di scaglie di cioccolato, richiusa e fritta. Insomma una variazione sul tema pagnottella dolce ripiena, che non può non richiamare il nostro Sammartino ripieno.
La leggenda dell’Estate di San Martino
“L’estate di San Martino dura tre giorni e un pochinino”. Così recita un adagio popolare. Con tale nome si indica quei giorni di autunno, durante i quali, dopo il primo freddo, abbiamo un periodo caratterizzato da clima transitoriamente più mite. Alcuni siti che si occupano di meteorologia hanno approfondito l’argomento con ricerche ad hoc, ed hanno trovato che “questa particolare fase di tempo stabile è quasi sempre esistita: analisi effettuate sulle mappe bariche dell’ultimo trentennio hanno mostrato che, in questo periodo, sembra avvenire ciclicamente l’espansione dell’anticiclone dalla Spagna verso tutto il Mediterraneo, portando condizioni di alta pressione, alte temperature e bel tempo, proteggendo dalle perturbazioni la maggior parte dell’Europa Centrale ed Occidentale” (v. Meteoweb.eu). Lungi da dissertare su cicloni ed anticicloni, semplicemente ci godiamo il bel tempo, che soprattutto in questo contingente storico sanitario, ci permette anche di tenere le finestre aperte per abbassare la famigerata “carica virale dell’ambiente”! Ma questo periodo dell’anno, graziato dal freddo, da dove ha origine? San Martino de Tour, nato nel 316 circa a Sabaria Sicca, l’odierna città ungherese di Szombathely, ai confini con la Pannonia, è vissuto a Pavia sotto il rigido controllo del padre, tribuno militare nell’ esercito dell’Impero Romano di Occidente. Nel 331, con un editto imperiale, l’esercito reclutò tutti i figli di veterani e quindi anche il Nostro che, mite ed incline più alla vita ascetica, si ritrovò suo malgrado a fare carriera nella vita militare. Inviato presso la Città di Amiens, venne assegnato alla Guardia Imperiale con funzioni di controllo e protezione, lontano dalla ferocia delle guerre. Nel 335, durante un inverno particolarmente rigido e piovoso, il soldato Martino incontrò un povero che intirizziva dal freddo e, senza pensarci due volte, tagliò il proprio caldo mantello in due e gliene cedette metà. Subito dopo la giornata divenne più calda e smise di piovere. Durante la notte Martino vide in sogno Gesù che diceva ai suoi Angeli: “Ecco Martino, il soldato romano che non è battezzato, egli mi ha vestito”. Al risveglio ritrovò il mantello integro. Egli, già catecumeno, si fece battezzare e dopo qualche tempo si congedò dall’esercito dell’imperatore per diventare soldato di Cristo. Questo sogno, cardine della svolta della vita di San Martino, è l’oggetto di un magnifico dipinto del 1608 di Filippo Paladini, conservato nell’Abbazia di San Martino delle Scale a Monreale, intitolato “San Martino e il mendicante”. Un’altra versione della storia ci racconta che il Santo stava tornando a casa da una spedizione e mancavano poco più di tre giorni di viaggio per l’agognato riposo. Era Autunno, un Autunno freddo e piovoso. A cavallo avvolto nel proprio caldo mantello, Martino incontrò un povero, mezzo nudo, quasi moribondo per il freddo. Tagliò il mantello e con metà rivestì il povero. Immediatamente il Signore lo ricompensò facendo sparire le nubi e il freddo… finché Martino e il cavallo non furono entrati nella locanda per la notte. La mattina dopo stesso discorso: freddo, nubi, neve, nonostante tutto Martino riprese la strada e, di nuovo, incontrò un povero. Via anche la la seconda metà del mantello. Subito giornata calda e asciutta, almeno finché il Santo con la sua cavalcatura non rientrarono in albergo. In quel momento, puntuali come un orologio si aprirono le cateratte del cielo. Al terzo giorno uguale copione: freddo, neve, pioggia, mendicante infreddolito, ma niente più mantello. Il nostro soldato di Cristo si leva allora l’abito di lana e lo dà al povero. Subito sole e caldo fino al momento del rientro alla locanda. Poi… freddo, neve e vento come se non ci fosse un domani. Al quarto giorno il nostro Martino aveva solo la camicia sotto l’armatura, poco male! Oramai mancava solo mezza giornata per arrivare a casa. Ma invariabilmente solito tempaccio autunnale e in mezzo ad esso, più infreddolito che mai, un altro mendicante. Che dargli? Rimaneva solo la camicia! Via anche quella! Martino avrà pensato: io ormai sono quasi a casa, lui non sa nemmeno dove ripararsi. Subito dopo sole caldo e tempo bellissimo che diede consolazione e salute al nostro Santo. Appena egli arrivò a casa, a riposarsi, l’Autunno freddo e bigio riprese ormai senza più tregua. (V. Sito cattolico Totustuus).
I Re Merovingi
Il vero mantello di Martino è invece diventato parte della collezione di sante reliquie dei re Merovingi dei Franchi. I Re Merovingi scelsero San Martino anche con Santo Patrono del Regno dei Franchi. Una curiosità: il sostantivo “cappella” venne utilizzato per indicare con il termine di “cappellani” coloro che avevano il compito di conservare il mantello di San Martino. Da questo, il sostantivo fu esteso ad indicare l’Oratorio Reale e poi rimase nel significato che oggi consociamo. Il nostro Martino rimase al servizio dell’Imperatore ancora per venti anni, arrivando al grado di ufficiale in uno dei corpi scelti della guardia imperiale, poi si congedò dall’esercito per dei contrasti occorsi tra lui e l’allora Cesare della Gallie, Giuliano l’apostata. A quarant’anni divenne Monaco e trascorse al seconda parte della vita a combattere il paganesimo che ancora allignava nella vita del popolo, soprattutto quello rurale e le eresie che già serpeggiavano tra i cristiani. Ma tanto era inflessibile contro il peccato di paganesimo e di eresia, tanto era misericordioso e accogliente con coloro che ne erano le vittime. La sua accoglienza si manifestava anche nei confronti dei poveri, innumerevoli nell’Alto Medio Evo soprattutto nelle campagne e dei quali cercava di migliorare la condizioni di vita. Visse in eremitaggio, avendo per qualche tempo come compagno di penitenza Sant’Ilario di Poitier. Ricordiamo, che per i loro meriti, entrambi vengono venerati come Santi da tutte le chiese che onorano il culto dei Santi. Divenne Vescovo di Tour nel 371 a furor di popolo. A Tour costruì successivamente il Monastero di Marmoutier. Si spense in odore di santità l’8 novembre del 397, mentre i funerali furono celebrati l’11 dello stesso mese con una raccolta di popolo immensa. Egli fu quindi ufficiale dell’esercito, eremita, monaco, esorcista (sembra anche), fondatore di comunità di monaci, di monasteri, propagatore della Fede Cristiana. Viaggiò come pastore soprattutto nelle aree rurali, operò miracoli, si racconta che ebbe a risuscitare tre defunti (uno dei suoi titoli era “Trium mortorum suscitator”), riservò per se solo preghiere e penitenze, dandosi completamente al popolo, non più come nella giovinezza privandosi di una parte dei propri averi, ma esaurendo se stesso completamente sull’altare dell’amore a Dio ed ai fratelli in Unione al Cristo. E in qualità di difensore dei dogmi cristiani si trovò a condividere pensiero e amicizia con Sant’Ambrogio, tanto da meritare di essere raffigurato nel “mosaico dei quattro Dottori della Chiesa” insieme a San Gregorio Magno, Sant’Agostino e Sant’Ambrogio nella Basilica di Santa Maria Assunta a Torcello (tratto da Wikipedia). Ecco perché oltre che la Beatitudine nell’Alto dei Cieli ha meritato anche di essere venerato come Santo da tutte le Chiese che onorano il Culto dei Santi. Il giorno della sua tumulazione l’innumerevole folla che lo accompagnò al sepolcro era diventata un fiume di fiaccole e candele. Questo evento è stato tramandato ancora ai nostri giorni dalla “processione delle lanterne”, “Lanternenumzug”, propria non solo delle aree cattoliche dei Paesi Germanici, dell’Austria, dell’Alto Adige, ma anche di quelle cristiane protestanti delle zone germaniche, a dimostrazione della stima e dell’effetto che la grandezza del suo ricordo suscita ancora oggi in tutta l’Europa Centrale (v. Raccontidifata.com). Il suo richiamo spirituale fece sì che gli venissero dedicate numerose chiese in Europa ed una Basilica a Tour, meta di pellegrinaggi. Ma tale richiamo spirituale segnò anche la causa della distruzione della Basilica e delle spoglie del Santo. Queste vennero date alle fiamme dagli Ugonotti nel 1562, e la Basilica saccheggiata. Il colpo definitivo venne inferto alla Basilica durante la Rivoluzione Francese, quando l’orda iconoclasta dei rivoluzionari inferociti la distrusse completamente.
Le oche e il tacchino di San Martino
Come nelle aree rurali e urbane dell’Italia il cibo votivo di San Martino è rappresentato da pani e biscotti impastati con i semi, così nelle aree franco-tedesche il cibo tipico di questa ricorrenza è l’oca. La povera oca ci va di mezzo perché, quando San Martino veniva cercato per mare e per terra dal popolo che lo voleva nominare vescovo, il Santo, attratto solo dalla vita eremitica, cercò rifugio in una stalla dove dormivano delle oche. Queste cominciando a starnazzare impaurite rivelarono il nascondiglio di Martino al popolo festante (v. Raccontidifata.com). Le oche non potevano immaginare che la “festa”, nei secoli avvenire, l’avrebbero proprio fatta ai loro discendenti con la scusa di rendere onore a San Martino. Non erano, come si può vedere, “oche sicule”: quelle, mute, avrebbero pensato “netti vitti e nenti sacciu”. E se la sarebbero fatta franca.
Nei Paesi del Nord e del Centro Europa l’oca, farcita di mele, di artemisia, di castagne, di miele è la cena della Festa di San Martino. Addirittura in Boemia le ossa delle oche erano un tempo usate come presagio per la stagione invernale: se fossero state di colore nero, l’Inverno sarebbe stato freddo e piovoso, se fossero state bianche l’inverno sarebbe stato mite. La Festa di San Martino è l’ultima prima dell’inizio dalla penitenza del periodo dell’Avvento, quindi ci si concedeva qualcosa in più e, peraltro, l’oca o il tacchino sono sempre stati considerati il ”maiale dei poveri”. Nella nostra tradizione latina l’oca è stata sostituita dal tacchino. Nel 1882 scriveva Enrico Onufrio che mai il tacchino dovesse mancare sulla tavola dei festeggiamenti per l’11 Novembre insieme al Biscotto di San Martino ed al vino dolce in cui inzupparlo. Alla resa dei conti San Martino ci ha regalato un’Estate aggiuntiva, dei pani trasformati in dolci, il primo vino dell’anno (meritandosi tra l’altro il titolo di protettori dei bevitori-sicuramente delle loro anime, ma certamente non delle loro gozzoviglie), ma non dimentichiamo che egli per sé non ha trattenuto nulla. Ci ha lasciato soprattutto un messaggio: dividiamo il nostro con chi non ha nulla. Questo non toglie che ci possiamo godere magari una piccola guantierina di dolci, giusto per conservare la tradizione.
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