Il 30 agosto del 1868, grazie ai traditori ai quali i piemontesi ricorrevano a man bassa per combattere i patrioti del Sud che si opponevano all’invasione sabauda (traditori e piemontesi erano fatti della stessa pasta), veniva uccisa Michelina De Cesare, grande donna, grande guerriera del Mezzogiorno che, per otto anni, aveva fatto vedere i sorci versi ai militari criminali di casa Savoia. Onore alla sua memoria!
Oggi ricordiamo l’anniversario dell’uccisione di Michelina De Cesare, una patriota del Sud che non si è mi piegata alla prepotenza degli invasori piemontesi. La storia scritta dai vincitori – cioè dagli ‘italiani’ – la descrive come una brigantessa. In realtà, i veri briganti erano i Savoia che, grazie agli inglesi, alla massoneria e alle mafie (soprattutto la mafia in Sicilia e la camorra a Napoli), si sono presi prima la Sicilia con la pagliacciata dell’impresa dei Mille e poi il resto del Sud.
Il Sud, soprattutto nei primi anni della ‘presunta’ unificazione italiana, non si è mai arreso agli invasori: perché i piemontesi sono stati solo degli invasori e degli oppressori, criminali e assassini. Il Sud non si è arreso e anzi ha dato vita a una vera e propria guerra civile che gli “scrittori salariati”, come li definiva Antonio Gramsci, hanno chiamato “brigantaggio”.
Ma era solo una guerra civile contro gli oppressori.
Michelina De Cesare era una patriota del Sud che, per otto lunghi anni, ha combattuto la “buona battaglia” contro gli invasori assassini che se la prendevano, soprattutto, con la povera gente. Quando si consumavano gli eccidi dei Savoia ai danni delle genti del Sud non c’era ancora il Partito Socialista, che nascerà nel 1892. A parte qualche anarchico, nessuno difendeva i patrioti del Sud.
Michelina De Cesare veniva da una famiglia povera di Caspoli, una frazione di Mignano Monte Lungo, nella provincia di Terra di Lavoro, oggi provincia di Caserta, dove era nata il 28 ottobre del 1841. Dopo gli stenti vissuti da bambina ha conosciuto e capito il modo infame con il quale i piemontesi, in combutta con i peggiori delinquenti della Campania dell’epoca, si erano giocati il Regno delle Due Sicilie.
La sua infanzia, come già ricordato, non era stata facile. Gli atti raccontano di piccoli furti e abigeati nella zona di Caspoli. Nel 1861, a vent’anni, sposa Rocco Zenga, che passerà a miglior vita un anno dopo. Siamo già nel 1862 e in tanti hanno già capito che i piemontesi si sono presi il Sud per depredarlo.
Michelina conosce Francesco Guerra, ex soldato borbonico che si era dato alla macchia unendosi alla banda di Rafaniello, fino a diventarne il capo quando lo stesso Rafaniello muore. Attenzione: in quegli anni, nel Sud, per i giovani contadini o poveri darsi alla macchia era quasi una necessità: come succede, del resto, oggi, anche allora non era facile trovare lavoro, perché i piemontesi avevano iniziato a derubare sistematicamente il Sud.
Astiosi, invidiosi e biliosi, i piemontesi erano perfettamente coscienti della propria inferiorità a tutti i livelli rispetto ai meridionali: ricordiamoci che, prima del 1860, l’emigrazione esisteva nel Nord, mentre nessuno emigrava dal Regno delle Due Sicilie, che era molto più ricco del Regno di Sardegna, come puntualizzerà Francesco Saverio Nitti:
“Ciò che è certo è che il Regno di Napoli era nel 1857 non solo il più reputato d’Italia per la sua solidità finanziaria – e ne fan prova i corsi della rendita – ma anche quello che, fra i maggiori Stati, si trovava in migliori condizioni. Scarso il debito, le imposte non gravose e bene ammortizzate, semplicità grande in tutti i servizi fiscali e della tesoreria dello Stato. Era proprio il contrario del Regno di Sardegna, ove le imposte avevano raggiunto limiti elevatissimi, dove il regime fiscale rappresentava una serie di sovrapposizioni continue fatte senza criterio; con un debito pubblico enorme, su cui pendeva lo spettro del fallimento. Bisogna, a questo punto, riconoscere che, senza l’unificazione dei vari Stati, il Regno di Sardegna per l’abuso delle spese e per la povertà delle sue risorse era necessariamente condannato al fallimento”.
Per non parlare dei primati economici e culturali del regno delle Due Sicilia segnalate da Gennaro De Crescenzo.
Michelina diviene la compagna di Francesco Guerra, vivendo con lui in clandestinità, da patriota del Sud, aiutati dalla popolazione che detestava i Savoia e i suoi sgherri assassini.
Michelina De Cesare diviene una splendida donna guerriera e per otto anni dà filo da torcere ai briganti piemontesi che si erano impossessati del Sud Italia. Si muove armata di tutto punto e combatte in prima linea. In combattimento è una vera ‘leonessa’.
A differenza dei briganti piemontesi, che contavano soltanto sulla superiorità numerica e sulla delazione che utilizzavano a man bassa.
Sin dalle prima battute, lo Stato italiano dimostrava di essere corrotto – caratteristica che non ha mai perduto – e pronto a servirsi dei traditori: quello che, alla fine, si continua in parte a fare ancora oggi.
I patrioti del Sud combattevano a viso aperto, utilizzando la tattica della guerriglia: azioni veloci effettuate da piccoli gruppi che, una volta terminato l’attacco, si disperdevano di qua e di là, per ritrovarsi poi in punti prestabiliti.
Erano dei grandi combattenti, i patrioti del Sud: e se, alla fine, hanno perso la guerra di liberazione del Mezzogiorno contro gli oppressori italiani (che, peraltro, tali sono rimasti fino ad oggi), ciò è avvenuto perché gli invasori erano numericamente più numerosi, meglio armati e con una capacità di corruzione enorme.
La delazione a pagamento era la normalità, a cui si è poi aggiunta l’alleanza con le mafie locali che, spesso, consegnavano i patrioti del Sud ai briganti piemontesi in cambio dell’impunità: cosa, questa, che succederà in Sicilia nel secondo dopoguerra, quando la mafia consegnerà allo Stato italiano (anche se “Stato” è una parola grossa…) tutti i briganti di quegli anni, compreso Salvatore Giuliano.
Le cronache – di parte – raccontano che la banda della quale Michelina era una delle figure più autorevoli compiva “assalti, grassazioni, ruberie e sequestri”. La verità non è questa: “assalti, grassazioni, ruberie e sequestri” venivano riservati ai traditori: cioè ai meridionali ‘ascari’ che si erano venduti agli italiani. Mentre con la vera popolazione del Sud – quella che era rimasta fedele al Borbone e alla Chiesa cattolica, le bande di patrioti impegnati nella Resistenza contro i piemontesi andavano d’amore e d’accordo.
La verità è che fino a quanto sono stati ad armi pari, i piemontesi, nel Sud post ‘presunta unificazione’, le hanno prese di santa ragione. Ed è proprio perché avevano sempre la peggio che, a un certo punto, decidono di ricorrere a metodi che non è esagerato definire nazisti per piegare la resistenza dei veri meridionali.
“Nel 1868 – leggiamo su Wikipedia – fu inviato in quelle zone il generale Emilio Pallavicini di Priola con pieni poteri per dare una stretta decisiva alla lotta contro il brigantaggio. All’azione armata il Pallavicini seppe efficacemente aggiungere le ricompense per le delazioni e le spiate, e fu proprio una spia che fece sorprendere nel sonno Michelina e il suo uomo. La donna venne prima ferita dal medico del Battaglione mentre tentava di fuggire, per poi essere finita da un gruppo di soldati”.
Purtroppo anche Wikipedia chiama “brigantaggio” la resistenza dei meridionali. Non è colpa di questo meritorio sito d’informazione, ma della storia sbagliata che ancora oggi accompagna le cronache di quegli anni.
Molto bello il racconto che leggiamo in un articolo ricordato da Flickr:
“A proposito della sua fine, questa è “…la descrizione dell’accaduto che ne fa Gelli, il quale però si sofferma sul ruolo di Michelina Di Cesare nell’ultimo combattimento: “[…] la banda accerchiata da reparti del 27° Fanteria e da Carabinieri sul Monte Morrone, al comando di quell’anima dannata della Michelina tenne testa all’attacco e solo si disperse quando, colpito da una palla, penetratagli nel cervello dallo zigomo destro, il capobanda Guerra cadde riverso e, poco dopo, accanto al corpo suo e a quello del brigante Tulipano, a cui una fucilata aveva asportato metà della testa, cadde anche la Michelina. La rea donna aveva combattuto come una leonessa. Colpita al capo, la femmina morì digrignando i denti per la rabbia di essere stata vinta e non per l’orrore dei misfatti compiuti. Il giorno appresso i cadaveri dei briganti caduti e di Michelina vennero esposti nella piazza di Mignano, guardati da soldati armati. Si vuole che il generale Pallavicini, felice per il risultato ottenuto, alla loro vista avesse esclamato: “Ecco i merli, li abbiamo presi”. Il corpo di Michelina fu denudato, in segno di estremo oltraggio, e fotografato. Nello scempio fissato dall’immagine impietosa non si intravede, però, la rabbia per la personale sconfitta descritta dal Gelli: vi è impresso, semmai, il marchio indelebile della sofferenza, del dolore e dei patimenti di un popolo; vi è registrato tutto ciò, sol che si voglia “leggere” la foto con animo pacato e mente sgombra da preconcetti. Forse anche per questo le immagini di Michelina, da viva prima e da morta poi, sono diventate l’emblema del brigantaggio meridionale: in esse si colgono fierezza e dolore, i sentimenti distintivi di un popolo oppresso, sentimenti che ritornano – anche oggi – nei versi e nelle canzoni di autori meridionali….”.
Chiudiamo con un passaggio della recensione al libro “Brigantesse” di Valentino Romano:
“Nella storia del Sud c’è una tragedia dimenticata: le donne che si opposero, le donne dei “briganti”. La storiografia risorgimentalista le ha bollate come “drude”, donnacce, occupandosene quando si trattava di soddisfare la grossolana curiosità dei lettori di romanzi popolari. Ma chi si accosta oggi alle brigantesse con obiettività d’intenti non può che scorgervi la sofferenza dell’altra metà del cielo dell’intera popolazione meridionale. Ci furono donne che insorsero in armi, affiancando i loro uomini, altre li seguirono nella latitanza, altre ancora li fiancheggiarono in tutti i modi, fornendo loro l’essenziale per la vita alla macchia… il ribellismo contadino meridionale fu un’autentica rivolta popolare, alla quale non si sottrassero le donne che, anzi, vi parteciparono in massa. È sembrato giusto sottrarle all’oblio in cui erano state confinate e restituirle alla memoria collettiva, per quello che sono veramente state: donne testimoni e, insieme, protagoniste di un’epoca, che reagirono alla violenza dell’invasione piemontese“.
La storia negata: prima del 1860 il Sud era più ricco del Centro Nord Italia
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