Ben tre verdetti non sono ancora stati sufficienti per chiarire come e perché è morto il giovane Stefano Cucchi, una vicenda che rimane, fino ad oggi, una pagine nera dell’Italia, delle sue forze dell’ordine e della Giustizia
Tre verdetti non sono stati sufficienti a spiegare come e perché morì Stefano Cucchi una settimana dopo essere stato arrestato. Ci vorrà un altro processo. Che tristezza!
L’ottimo zio Vincenzo, se lo accompagnavo in una passeggiata, quando passava davanti ad una caserma, guardando i piantoni davanti alla porta soleva dire: “Li hanno messi lì per non fare entrare la logica”.
Purtroppo, col passare degli anni, mi sono reso conto che la cosa è ben più grave: sono lì per non fare uscire qualche scomoda verità. Qualunque cosa succeda dentro quei “limiti invalicabili”, non solo caserme, non solo commissariati o stazioni di carabinieri, a privati cittadini, troppo spesso non ha un colpevole, ma è dovuto al caso, è stata una fatale coincidenza, è stato frutto di provocazione etc .. etc..
Un po’ come quando un agente, inseguendo un sospettato tenendo la pistola in pugno (perché poi), inciampa, cade, e dalla pistola parte accidentalmente un colpo che, per una serie di incredibili circostanze sfortunate, colpisce a morte l’inseguito.
I difensori dell’ordine pubblico fanno quadrato, tendono solidalmente i muscoli, dalla truppa ai graduati, dagli investigatori ai procuratori, dai medici legali agli avvocati di Stato.
Il messaggio è forte e chiaro: le forze dell’ordine non si toccano, hanno sempre ragione e la giustizia se la amministrano nel loro foro interno. Guai a chi, dall’esterno, cercasse la verità. Chi lo farà sarà bollato come provocatore, anti italiano, rompicoglioni e chi più ne ha più ne metta.
Che cosa ci azzecchi tutto questo con la democrazia reale è presto detto. Nulla, proprio nulla. C’è da pensare che lo Stato, la sua coesione, la sua tenuta complessiva, si reggano esclusivamente su di loro; che, se venisse a mancare la fiducia in loro, la nazione si sfalderebbe. Del resto, gli stessi giornalisti non si sono mai azzardati, loro che si gloriano di essere i guardiani della democrazia, di affrontare il tema dei guasti nelle e delle forze dell’ordine in un’indagine approfondita, in quelli che una volta nel vero giornalismo si chiamavano reportage. Eppure tutti sanno bene che i danni che può fare un poliziotto o un carabiniere corrotto sono incalcolabili ( e ne abbiamo avuto prova).
“Pericolosissima è l’ingiustizia munita di armi”, tuonava Aristotele (questo per dire quanto è antico il fenomeno). Ho preso spunto per questa riflessione proprio dalla sentenza sul povero Stefano Cucchi e dalle puntuali assicurazioni che giustizia sarà fatta. Belle parole. Sono le stesse assicurazioni che abbiamo già sentito per il caso Scieri e i tanti altri, una ghiacciata moltitudine di morti senza pace e senza tomba, i cui familiari e avvocati vengono sballottati qua e là e la cui dignità viene calpestata e vilipesa, probabilmente per difendere qualche tirannello manesco e senza onore che ha approfittato del suo status per dare sfogo alle sue frustrazioni e disonorare la divisa.
Il nostro, non mi spavento a dirlo ma piuttosto me ne vergogno, è un Paese parafascista, in cui se qualcuno si permette di levare la voce contro un comportamento palesemente violento di componenti delle forze dell’ordine scatena le oche in Campidoglio: tutte le forze politiche, a cominciare dall’estrema destra (ed è comprensibile, la stupidità vi pesca a piene mani), alla sinistra (che fu di lotta e che ora è solo di governo), è un coro univoco di elogi, di distinguo, di “l’esercito non si tocca, i carabinieri nemmeno, la polizia poi… guai a delegittimare”.
E chi li voleva toccare? Si è soltanto stigmatizzato il comportamento di un carabiniere, un poliziotto, un soldato e si è chiesto l’accertamento della verità. E’ terrorismo? E’ antipatriottismo?
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