La notizia più importante? Semplice: come ci ricorda Santa Teresa D’Avila, non dobbiamo dimenticare che San Giuseppe era il capo della Sacra Famiglia e, in quanto tale, Gesù stesso gli obbediva. Quindi quando San Giuseppe chiede una cosa al figlio, Gesù obbedisce. Rivolgersi a San Giuseppe conviene. Poi ci sono anche i dolci, che in Sicilia abbondano
di Maddalena Albanese
La Festività di San Giuseppe è particolarmente sentita in Sicilia. Il nome Giuseppe, insieme a quello di Salvatore e di Maria, è uno dei più diffusi nella nostra Isola.
Il giorno di San Giuseppe, fino al 1977, è stato festività di precetto per la Chiesa Cattolica ed era segnato in rosso nel Calendario, perché si rispettava il riposo e si andava a partecipare alla Santa Messa per onorare un così grande Santo.
Ancora oggi, nel Calendario liturgico Cattolico, il giorno di San Giuseppe è Solennità ed i paramenti del Celebrante sono bianchi, anche se tale ricorrenza cade sempre durante la Quaresima.
San Giuseppe era il Capo della Sacra Famiglia, è il Santo a cui Nostro Signore obbediva da Figlio durante la Sua vita terrena. Santa Teresa di Avila, infatti, insiste sulla devozione a San Giuseppe, perché diceva che, come Nostro Signore gli era obbediente e rispettoso durante la Sua vita terrena, così anche adesso, in Cielo, Egli non opporrà rifiuto ad alcuna sua richiesta (noi comunque Gli dobbiamo chiedere cose buone e giuste, non magari di fare cadere calcinacci in testa a qualcuno che ci sta antipatico!).
Si racconta che i devoti di San Giuseppe un po’ in difficoltà ad entrare in Paradiso attraverso la porta vengano tirati su, con una corda, attraverso una finestra, da San Giuseppe stesso…
San Giuseppe è il Santo noto per silenzio, mitezza, umiltà, giustizia, amore del servizio di Dio e del prossimo con il lavoro quotidiano: lavoro che insegna al Figlio di Dio, affinché, come Uomo, risponda alla legge:
“Ti guadagnerai di che vivere con il lavoro della tua fronte”.
E’ l’uomo che ha dovuto tutto abbandonare, senza preavviso, una notte, dopo l’avviso dell’Angelo, per salvare il Redentore e Sua Madre e che, senza niente, ha dovuto tutto ricostruire in un Paese estraneo e lontano. Anche per tutto questo è il Santo dei poveri, degli ultimi, dei diseredati.
La festa di San Giuseppe cade a ridosso dell’Equinozio di Primavera e si ritiene che sia la trasposizione e la purificazione della festività del Capodanno pagano e del culto di Liber Pater-Dionisio che cadeva nel periodo corrispondente al 17-19 marzo (spesso le festività pagane sono state inglobate e trasformate dalla tradizione cristiana).
Tale festività era celebrata con canti, danze e banchetti, in cui si mangiava un pane propiziatorio fatto di farina, olio, uova e cacio grattugiato chiamato “Liba” o in cui venivano offerte ai passanti delle focacce di farina olio e miele.
Peraltro è anche il periodo dell’anno in cui l’inverno lascia in posto alla primavera, alla rinascita della terra e dei suoi frutti, non ultimo il grano che comincia e germogliare fecondo di semi. E’ il momento del mito di Demetra a cui è restituita la figlia Persefone, segregata negli inferi, che comunica la propria gioia con la ripresa del ciclo della vita.
In circa 80 paesi e cittadine della Sicilia vi sono altrettante versioni della cosiddetta “Tavolata”: un vero e proprio altare su cui vengono stese le tovaglie più pregiate e vengono disposti limoni e arance, cibo in abbondanza e “I Pani di San Giuseppe”. Si tratta di pani di farina di frumento, acqua (poca, così il pane dura più a lungo), olio e lievito, prodotti nelle forme più svariate: gli attrezzi del falegname (il lavoro di San Giuseppe), i chiodi, la corona di spine e la croce (la morte di Gesù), il Sole, la Luna e le Stelle (i simboli di Maria Santissima).
Al centro della “Tavolata” troneggia una raffigurazione del Santo o della Sacra Famiglia.
A queste tavolate vengono invitati i concittadini meno abbienti, spesso un uomo una donna ed un bambino (a rappresentare la Sacra Famiglia), ma comunque tutti sono chiamati a prendere parte alla tavolata dove il cibo è stato benedetto e quindi a condividere un momento di fraternità (dopo magari si ricomincerà a non salutarsi…).
Non descriverò le varie usanze delle “Tavolate” più rinomate (alcune per tutte: Salemi, Leonforte, Santa Croce Camarina, Gela etc). Ognuna di queste città si distingue per caratteristiche particolari.
Ad esempio, a Balestrate circa un mese prima del 19 marzo gli abitanti costruiscono, nei locali di casa propria, un altare a San Giuseppe, dove i sacerdoti vanno a celebrare la Santa Messa. Quest’atto di devozione è compiuto come “ex voto” per grazia ricevuta. Il giorno di San Giuseppe, invece, vengono allestiti nelle case private i banchetti per accogliere le famiglie meno abbienti.
Preferisco citare invece una particolarità indicata da Gaetano Basile e segnalata nel libro “Dolcezze di Sicilia” di Salvatore Farina. La Festività di San Giuseppe è stata collocata nel periodo della “Festa della Capanne” di origine ebraica (la festa che commemora la traversata del deserto da parte del popolo ebreo). D’altronde, gli altri dolci tipici della Festa di San Giuseppe, i “taralli”, hanno stranamente una preparazione simile a quella dei Bagel (dolce di origine ebraica): entrambi vengono impastati, ridotti nella forma definitiva, sottoposti a bollitura e poi cotti in forno, per essere, in ultimo, variamente glassati.
E la “sfincia” (nella foto sopra a destra, tratta da ricetteperbambini.crescebene) dei nostri giorni da dove arriva? Last but not least! La “sfincia” è un magnifico dolce fatto di pasta soffice e ricoperto di sovrabbondante crema di ricotta arricchita da un tripudio di gocce di cioccolato e decorata da stelle filanti e coriandoli di frutta candita. È il caso di dire “nomina consequentia rerum: infatti il nome “sfincia” origina da termini simili, già usati per definire dolci di siffatta consistenza, presenti nella lingua greca, nella lingua romana ed in quella araba e che significano tutti “spugna”.
L’origine del dolce in questione la troviamo, verosimilmente, nei pani fritti fatti di farina, olio e miele offerti durante le festività pagane di Primavera. O, anche, in pani simili – bene augurali – utilizzati durante le festività pagane del Solstizio di Inverno (secondo quanto descritto dal celebre gastronomo e studioso di storia e cultura siciliana Pino Correnti).
I Pani di san Giuseppe e le “sfinci” traggono origine, con varie modifiche, dalla stessa unica focaccia fatta di farina e acqua e poi cotta.
La prima volta che questi dolci tipici vengono chiamati “sfinci” – e chi li vendeva veniva chiamato “u’ sfinciaru” – data XIV secolo. Delle sfince, poi, si trova testimonianza anche ne “La storia dei Musulmani in Sicilia” di Michele Amari (XIX secolo): “sono rimasti arabi di nome e di fatto i camangiari. De’ camangiari vanno notate le paste fermentate e fritte che in Sicilia par che in Barberia, si chiamano “sfinci”, dal latino ‘spongia’ “ (cit. da Associazione Italiana Food Blogger). Quindi forse dall’arabo “Isfang” (spugna)? Così, o dalla porta (i romani), o dalla finestra (gli Arabi), in Sicilia dovevano pur entrare questi dolci, e noi siciliani ci siamo rassegnati a mangiarli!
E le Monache di clausura siciliane? Non ci hanno messo del loro? Ma certo!
La “sfincia” nella sua golosa forma attuale è stata elaborata dalla Clarisse del Convento di San Francesco alle stimmate (non pensate di andarlo a cercare, perché è stato annientato dalla sbancamento voluto post unità di Italia per costruire il teatro Massimo). E poi hanno completato l’opera i pasticcieri palermitani con le loro ricette magistrali (di queste ne ho una molto particolare, ma magari ve la dirò un’altra volta).
E adesso che abbiamo ripassato tante cose sui pani votivi e sulle “sfinci”? Beh, dobbiamo proprio andarli a mangiare (magari dopo avere partecipato anche noi con un’offerta alle tavolate per i poveri). Tutto in onore di San Giuseppe!
Foto tratta da lasiciliainrete.it
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