Questo articolo, che ricostruisce lo scenario in cui maturò l’omicidio di Mauro Rostagno da parte dei mafiosi, è stato scritto tre anni fa per ‘Nientedipersonale.com’. Ma riteniamo che sia ancora valido per ricordare un protagonista della vita politica e sociale dell’Italia e della Sicilia, dalla fine degli anni ’60 del secolo passato fino al giorno del suo assassinio
Per tanti anni la sua morte è stata un mistero. O quasi. Perché, in realtà, il 26 settembre 1988 – giorno in cui, a pochi passi dalla comunità Saman, a Valderice, in contrada Lenzi, venne ucciso Mauro Rostagno – si parlò subito di mafia. Un delitto avvenuto in una provincia siciliana – Trapani – da sempre condizionata dalla presenza della mafia. Qui, dopo tante esperienze politiche e umane, Mauro Rostagno viveva con la sua famiglia. Ma gli inquirenti, vuoi per i depistaggi, vuoi per la complessità del personaggio e della sua storia, hanno impiegato anni per collegare questo delitto a Cosa nostra. Alla fine il collegamento è venuto fuori. E, precisamente, dal 15 maggio del 2014, quando, per il delitto Rostagno, sono stati condannati all’ergastolo il killer Vito Mazzara ed il boss trapanese, Vincenzo Virga.
Oggi si conosce anche la verità processuale relativa all’omicidio di un esponente storico della sinistra marxista libertaria del nostro Paese. Le ragioni che avrebbero portato i mafiosi a uccidere uno dei fondatori di Lotta Continua sono illustrate nelle tremila pagine di motivazioni della sentenza scritta dal Presidente della Corte d’Assise di Trapani, Angelo Pellino, e dal giudice a latere, Samuele Corso.
“L’omicidio di Mauro Rostagno – scrivono i giudici – volto a stroncare una voce libera e indipendente, che denunziava il malaffare, ed esortava i cittadini trapanesi a liberarsi della tirannia del potere mafioso, era un monito per chiunque volesse seguirne l’esempio o raccoglierne l’appello, soprattutto in un area come quella del Trapanese dove un ammaestramento del genere poteva impressionare molti”.
A confermare il movente e le responsabilità del capomafia, Vincenzo Virga, e del killer, Vito Mazzara, sono alcuni collaboratori di Giustizia, detti altrimenti pentiti di mafia. E c’è anche un’impronta genetica ritrovata su un fucile.
“Le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia – scrivono i giudici – dopo una doverosa scrematura di quelli meno affidabili, convergono su una duplice indicazione: l’omicidio fu deciso dai vertici di Cosa nostra trapanese o comunque con il loro assenso e dopo che fu vanamente esperito il tentativo di indurre il giornalista a più miti consigli con pressioni e minacce per interposta persona. Bisognava mettere a tacere per sempre quella voce che, come un tarlo, insidiava e minava la sicurezza degli affari e le trame collusive delle cosche con altri ambienti di potere”.
Il potere delle parole fa da sempre paura alla mafia. Cosa nostra vive e prospera anche grazie ai silenzi. Quel silenzio che dieci anni prima (maggio 1978), a Cinisi, Peppino Impastato – anche lui militante della sinistra libertaria – si rifiutava di rispettare, prendendosi gioco, dai microfoni di Radio Aut, della mafia e del capo mafia della zona di quegli anni: don Tano Badalamenti. Volendola cercare, qualche similitudine tra i delitti Impastato e Rostagno c’è: in comune i due avevano la passione politica e la militanza nella già citata sinistra libertaria. E il coraggio nel denunciare il malaffare. Altri elementi che accomunano questi due delitti sono i depistaggi ad opera di ‘pezzi’ dello Stato italiano e, soprattutto, la mafia, che li ha eliminati entrambi.
La mafia e i settori ‘deviati’ dello Stato. Di rapporti tra Servizi segreti e criminalità organizzata parlano i giudici nelle motivazioni della sentenza:
“La torsione nelle finalità istituzionali degli apparati di intelligence che si consuma proprio in quegli anni e che ha a Trapani, con la costituzione dell’ultimo Cas nella storia di Gladio, un suo epicentro, crea un terreno propizio all’instaurazione di sordidi legami tra alcuni esponenti dei Servizi e ambienti della criminalità organizzata locale. Ne scaturisce una rete di relazioni pericolose, fatte di intese e scambi di favori reciproci e protezioni. Un’organizzazione criminale che detiene un controllo capillare del territorio può essere fonte della merce più preziosa per un apparato di intelligence, le informazioni; ma può servire anche per operazioni coperte, ovvero per offrire copertura a traffici indicibili da tenere al riparo da sguardi indiscreti. Traffici che coinvolgono pezzi di apparati militari e di sicurezza dello Stato, all’insaputa dei vertici militari e istituzionali o dei responsabili politici”.
Rostagno era un personaggio scomodo. Impegnato nella comunità Saman di Valderice nell’attività di recupero di tossicodipendenti, non disdegnava l’impegno sociale in una provincia siciliana, quella trapanese, dove la mafia era presente e forte già nel 1830, come testimoniato dall’allora Procuratore del Re, Pietro Calà Ulloa.
Rostagno collaborava con una tv locale affrontando temi scottanti: mafia e traffico di droga e di armi. Lo faceva con la naturalezza di chi ha sempre lottato contro le ingiustizie. Per lui, uomo dalla vita avventurosa e tribolata, ma sempre al servizio di un’idea: la società da cambiare in meglio, la lotta alla mafia era normale. Una normalità che l’Italia criminale, che in Sicilia prende il nome di mafia – una mafia ‘impastata’ di massoneria e Servizi segreti deviati – non poteva consentire. E infatti non gliel’hanno consentito. Ammazzandolo e poi provando a depistare le indagini, cercando, poi, di gettare discredito persino sui suoi familiari.
Rostagno era piemontese di Torino, classe 1942. Gioventù scombinata, la sua, si direbbe oggi. Lascia a metà il liceo per andare in Germania e in Inghilterra. Poi in Francia, da dove viene espulso. Nel frattempo si diploma e si iscrive alla facoltà di Sociologia di Trento. Siamo nella seconda metà degli anni ’60 del secolo passato. Insomma arriva in tempo per il 1968, la stagione delle grandi rivolte sociali e dell’ ‘Immaginazione al potere’. I suoi amici e compagni si chiamano Marco Boato, Mara Cagol, Renato Curcio, Marianella Pirzio Biroli.
Sono gli anni di poco precedenti alla lotta armata, ovvero gli anni delle Brigate Rosse. Rostagno, pacifista fino al midollo, non sarà con loro. Marxista libertario e non violento, contrario alla lotta armata e ad ogni altra forma di violenza, fonda il movimento Lotta Continua insieme con Adriano Sofri, Marco Boato, Enrico Deaglio, Guido Viale. Corre l’anno 1969.
Un anno dopo si laurea in Sociologia e arriva a Palermo, dove rimane fino al 1975 come assistente alla cattedra di Sociologia. Di fatto è il leader di Lotta Continua. Alle elezioni politiche del 1976 si candida alla Camera dei deputati nella lista di Democrazia Proletaria sfiorando l’elezione.
L’anno successivo – 1977 – va a Milano e fonda un locale che diventerà famoso: il Macondo, nome tratto dal celebre romanzo Cent’anni di solitudine, di Gabriel Garcìa Màrquez. Ma dura poco, perché l’anno dopo le autorità lo chiudono per spaccio di droga (anche allora, come oggi, le autorità italiane pensavano di risolvere il problema della droga chiudendo i locali: certe forme di dabbenaggine italiche sono intramontabili).
Dopo la chiusura del Macondo se ne va in India insieme con la compagna Elisabetta ‘Chicca’ Roveri e con la loro figlia, Maddalena. Lì si unisce agli Arancioni di Osho. Nel 1981 ritorna in Sicilia e si stabilisce a Lenzi, una contrada di Valderice, nel Trapanese. Qui, insieme con la sua compagna e con Francesco Cardella, un giornalista nativo di Trapani noto per le sue battaglie libertarie (dopo aver lavorato al quotidiano palermitano Telestar, nei primi anni ’60, Cardella ha fondato il quotidiano Ora, il settimanale ABC e la rivista erotica Le Ore), ma anche per certe storie controverse (coinvolto, secondo gli inquirenti, in un traffico di armi con la Somalia) fonda la comunità Saman, che nasce come una comune Arancione legata ad Osho. Successivamente la Saman diventa una comunità terapeutica per il recupero di tossicodipendenti.brigate-rosse
Alla comunità Saman è molto vicino l’allora segretario nazionale del Psi, Bettino Craxi (che, in realtà, è più vicino a Cardella che a Rostagno). L’ormai ex leader di Lotta Continua non ha certo perso la sua voglia di indagare tra le pieghe della società: e indagando tra il malaffare della provincia di Trapani era quasi automatico incontrare la mafia.
Rostagno, in particolare, segue il processo per l’omicidio di Vito Lipari, assassinato dalla mafia il 13 agosto del 1980. Lipari, dirigente del Consorzio per l’area di sviluppo industriale di Trapani, era vicino al ‘partito degli esattori’ di Salemi, Nino e Ignazio Salvo. Il ‘partito degli esattori’ della Sicilia, in quegli anni, non era altro che una corrente della DC capeggiata dall’allora Ministro della Difesa, Attilio Ruffini. Per la cronaca, Vito Lipari era stato candidato nella Dc, nelle elezioni politiche del 1979, arrivando primo dei non eletti.
Sull’omicidio Lipari si scontrano due tesi. C’è chi sostiene che Lipari, che era stato sindaco di Castelvetrano nella metà degli anni ’70 ed era tornato a fare il sindaco un paio di mesi prima del suo assassinio, si era impegnato a fare luce sulla sofferta ricostruzione dei paesi della Valle del Belìce colpiti dal terremoto del 1968. Secondo altri viene invece ammazzato perché, da esponente della ‘vecchia Sicilia’ dei cugini-esattori, Nino e Ignazio Salvo, si era rifiutato di cedere potere a alla mafia corleonese.
Qualche ora dopo l’omicidio – che avviene il 13 agosto del 1980 – le forze dell’ordine fermano quattro uomini. Tra questi, Nitto Santapaola, boss della mafia catanese, e Mariano Agate, boss del Trapanese. Ma non verranno trattenuti su indicazione di un alto esponente delle forze dell’ordine di Catania. Condannati in primo grado, sono stati assolti in Cassazione nel 1993.
L’interesse di Mauro Rostagno per il delitto Lipari è importante perché, con molta probabilità, dava molto fastidio alla nuova mafia che, piano piano, andava sostituendosi alla vecchia mafia.
Nelle ore subito successive al delitto Rostagno, le tesi degli investigatori, come spesso è avvenuto in Sicilia, non coincidono. Il capo della squadra mobile di Trapani, Calogero Germanà, dava per scontata la pista mafiosa. Anche Craxi e Claudio Martelli parlano subito di delitto di mafia.
I Carabinieri, con il maggiore Nazareno Montanti, ipotizzavano invece un delitto commesso da dilettanti. Insomma, non mancarono veleni e polemiche. Illuminanti sono le parole del pubblico ministero, Gaetano Paci:
“Le prime indagini sull’omicidio di Mauro Rostagno condotte dai Carabinieri del Reparto Operativo di Trapani furono scandite da troppe anomalie. In quest’aula abbiamo dovuto inevitabilmente processare certi atteggiamenti delle forze dell’ordine, ma anche di questo palazzo di giustizia, e in generale della città di Trapani. Perché troppe sono state le insufficienze investigative, le omissioni, le sottovalutazioni. Ma anche orientamenti di pensiero di taluni rappresentanti istituzionali dell’epoca naturalmente adesivi verso la presenza mafiosa”.
Insomma, non sarebbero mancati i depistaggi. E anche le piste alternative a quella mafiosa. Qualcuno ricordava che Rostagno, poco prima di essere ucciso, aveva ricevuto una comunicazione giudiziaria relativa alle indagini sull’omicidio del commissario di Polizia, Luigi Calabresi: vicenda controversa conclusa in modo molto ‘italiano’ con la responsabilità (in verità più politica che giudiziaria) addossata a Lotta Continua. Storia poco credibile per Lotta Continua e totalmente incredibile per un uomo come Rostagno, come ricordato, non violento per scelta di vita.
Nel 1996 la Procura della Repubblica di Trapani mette da parte la mafia e ipotizza che il delitto Rostagno possa essere maturato all’interno della comunità Saman di Valderice. Cardella, che viene indicato come mandante, fuggirà in Nicaragua. Gli inquirenti chiamano in causa anche la compagna di Rostagno, Chicca Roveri, accusata di favoreggiamento. Le proteste, verso questa pista scelta dagli inquirenti, sono vibranti. I vertici del Psi sono molto polemici con la magistratura. Che risponde accusando Craxi e Martelli di voler depistare le indagini.
Un anno dopo l’inchiesta sul delitto Rostagno passa alla Direzione distrettuale antimafia di Palermo. La pista ‘interna’ alla Saman cade. E si ritorna a Cosa nostra. Alcuni personaggi di spicco della mafia siciliana, diventati collaboratori di Giustizia, raccontano quello che sanno. Tra questi spicca Vincenzo Sinacori, esponente della mafia di Mazara del Vallo. Sinacori ricollega il delitto alle denunce contro la mafia di Rostagno: cioè quello che tutti – tranne alcuni inquirenti – hanno sempre pensato.
Stando a quanto emerso dalle indagini (e a quanto si legge su Wikipedia), sarebbe stato Francesco Messina Denaro – padre di Matteo Messina Denaro – a dare incarico a Vincenzo Virga, capo della cosca di Trapani, di fare uccidere Rostagno. Le dichiarazioni di Sinacori sono state confermate da altri due collaboratori di Giustizia di ‘peso’: Angelo Siino e Giovanni Brusca.
Siino, in particolare, parla di un anno cruciale per la Sicilia: il 1979. E’ l’anno in cui il banchiere siciliano Michele Sindona, allora già inseguito dalle Polizie di mezzo mondo, arriva in Sicilia. Per la precisione, ad agosto. Siino conferma una tesi non nuova: e cioè che Sindona era arrivato in Sicilia per organizzare una sorta di piano o golpe separatista che avrebbe coinvolto la mafia e la massoneria.
La storia di questo golpe mancato (mancato perché, a quanto pare, i mafiosi preferirono restare ‘alleati’ dello Stato italiano, o forse dei politici dell’epoca che Sindona tentava di ricattare con la storia un po’ rocambolesca di questo golpe) è importante, perché Rostagno, alcuni mesi prima di essere assassinato, diceva di essere venuto a conoscenza di alcuni viaggi fatti da Licio Gelli in Sicilia. Licio Gelli era il capo della loggia P2 e allora era un uomo molto potente.
Oltre alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, gli inquirenti hanno anche acquisito i risultati di una perizia balistica dalla quale viene fuori che Rostagno è stato ucciso con lo stesso fucile utilizzato per ammazzare, nel 1995, il poliziotto Giuseppe Montalto e per compiere altri omicidi. Da qui le accuse a Virga e Mazzara.
Davano fastidio quegli editoriali su Rtc così come il suo lavoro d’inchiesta “sommerso”, come rivelato da alcuni suoi appunti, sulla massoneria deviata ed il “Circolo Scontrino” di Trapani. Ed è proprio questo uno degli aspetti gravi che fa presagire come la morte di Rostagno fosse “comoda” anche per altri poteri.
Per i giudici, proprio quel lavoro d’inchiesta del sociologo torinese “attesta la profondità e l’acutezza del suo sforzo di approfondimento e di studio del fenomeno mafioso come concrezione violenta di un sistema di potere di cui egli indagava, con metodo scientifico e da sociologo qual era le radici strutturali, ma senza trascurare l’immersione nell’attualità e nella concretezza del fenomeno criminale. E con questa profondità visiva che gli veniva dal possesso degli strumenti e delle attitudini di studioso, egli stava approfondendo una sua personale ricerca dei retroscena dei più eclatanti delitti che avevano insanguinato la provincia trapanese negli ultimi anni, nella convinzione che vi fosse un filo che li legava gli uni agli altri, rimontando indietro fino alla strage di via Carini, all’omicidio del prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa, intravedendo nell’omicidio Lipari un delitto di rilevanza strategica, rivelatore di una competizione in atto con una nuova mafia che contendeva con crescente successo alla vecchia guardia l’egemonia”.
Tra i lavori svolti da Rostagno, vengono evidenziate nelle tremila pagine le “autonome inchieste giornalistiche che miravano a varcare la soglia di autentici santuari del potere locale come era all’epoca la rete di circuiti massonici che faceva capo al Centro studi Antonio Scontrino a Trapani”.
“Su questo versante – continua la motivazione della sentenza – Rostagno poteva essere una minaccia, dopo che aveva scoperto gli strani traffici che avvenivano a ridosso della pista di un vecchio aeroporto militare ufficialmente in disuso alle porte di Trapani”.
Parlando dei “sordidi legami tra alcuni esponenti dei Servizi e ambienti della criminalità organizzata locale” i giudici affrontano una questione chiave:
“Se Cosa Nostra sapeva che i servizi segreti, certamente annidati anche all’interno degli apparati che, in ipotesi, avrebbero dovuto attuare la paventata risposta repressiva dello Stato, da tempo ‘attenzionavano’ Rostagno non come personalità da proteggere, ma come target, cioè come obiettivo ostile da sorvegliare… Se davvero tutto ciò era a conoscenza dei capi mafia locali – e non era difficile saperlo, considerato il sistema di vasi comunicanti che permetteva la circolazione di informazioni nei diversi ambienti collegati da quel sistema – allora non occorre immaginare chissà quali indicibili accordi collusivi per concludere che i vertici dell’organizzazione mafiosa ben potevano presumere di poter contare, se non su un’attiva complicità, quanto meno su una proficua acquiescenza degli apparati repressivi e di sicurezza dello Stato, ove si fossero determinati a mettere in atto il proposito di sopprimere Rostagno”.
Il Presidente Pellino si spinge anche oltre:
“Tale acquiescenza, unita all’interesse dei servizi a non bruciare rapporti di collaborazione e di scambio già avviati, poteva anche lasciar prevedere interventi utili ad addomesticare le indagini, evitando che si andasse a fondo sulla pista mafiosa. Naturalmente una simile ricostruzione, in mancanza di elementi certi in ordine all’effettiva instaurazione di proficui rapporti di collaborazione tra Cosa nostra e alcuni settori degli apparati di sicurezza, sarebbe solo ipotetica e congetturale. Se non fosse per il fatto che, come vedremo, i depistaggi vi furono davvero. E se per qualcuno può concedersi che sia stato involontario e inconsapevole, per altri aspetti e momenti appare assai più difficile negarne la volontarietà, o dubitarne”.
Proprio i depistaggi condotti sul caso vengono affrontati con accuratezza. Viene messo in evidenza come, quando ancora il corpo di Rostagno era riverso sul volante della sua Fiat Duna, scattarono subito “colpevoli ritardi e inspiegabili omissioni” da parte di chi doveva indagare. Secondo la Corte, vi è stata “la soppressione o dispersione di reperti, la manipolazione delle prove e reiterai atti di oggettivo depistaggio”. E’ cosa nota che, dalla sede di Rtc, scomparve la videocassetta su cui Rostagno aveva scritto:
“Non toccare”.
Lì, probabilmente, c’era il suo ultimo scoop: la registrazione con le riprese del presunto traffico d’armi nei pressi della pista d’atterraggio di Kinisia. Scomparsi anche le lettere che Rostagno si scambiava con il fondatore delle Brigate Rosse, Renato Curcio, e il memoriale sull’omicidio del commissario Luigi Calabresi. Per non parlare della sparizione del proiettile calibro 38 estratto dal corpo di Rostagno durante l’autopsia.
Tra i documenti svaniti nel nulla c’è anche una relazione degli 007 del centro Scorpione, una delle 5 basi della VII divisione del Sismi, da cui dipendeva ‘Gladio’, che riguardava il centro Saman. I giudici si soffermano anche sulle piste alternative: per esempio, la tesi che dietro l’omicidio Rostagno ci potesse essere una questione ‘corna’. O la tesi di un delitto maturato all’interno della comunità Saman. Tutte tesi definite inconsistenti (o forse tentativi di depistaggio).
Alla fine, come già ricordato, l’unica pista risultata credibile è stata quella mafiosa.
“L’indagine sul movente dell’omicidio che ha impegnato larga parte dell’istruzione dibattimentale – scrive Pellino – ha consentito di misurare tutta l’inconsistenza delle piste alternative a quella mafiosa, che pure sono state esplorate, senza preconcetti. Di contro, a partire proprio da una ricognizione dei contenuti salienti del lavoro giornalistico della vittima, di talune sue inchieste in particolare, ma del suo stesso modo di concepire e soprattutto di praticare il giornalismo e l’informazione come terreno di elezione di una ritrovata passione per l’impegno civile, è emerso come Cosa nostra avesse più di un motivo, e uno più valido dell’altro, dal suo punto di vista, per volere la morte di Rostagno. E il bisogno di mettere a tacere per sempre quella voce che come un tarlo insidiava e minava la sicurezza degli affari (illeciti) e le trame collusive delle cosche mafiose”.
“Il suo sforzo – continuano i giudici – di ridisegnare la mappa degli organigrammi del potere mafioso e di individuare le figure emergenti che potevano avere preso il posto degli esponenti della vecchia guardia di Cosa nostra, decimati da arresti, ma ancora di più dai colpi messi a segno dalle cosche antagoniste che nuovo slancio traevano dalla loro capacità di inserirsi nella gestione del narcotraffico o in altre redditizie attività”.
Per arrivare a queste conclusioni – con la mafia che, lo ribadiamo, si ‘respirava’ già nelle prime ore dopo il delitto Rostagno – ci sono voluti 27 anni. Alla fine – anche se questo oggi conta poco – tutti quelli che il 26 settembre del 1988 indicavano la mafia come protagonista di questi delitto (e tra questi anche Craxi e Martelli) hanno avuto ragione. Resta l’amarezza per le tante ingiustizie e per i tentativi di depistaggio. E restano dieci testimoni, con identità accertata, che avrebbero dichiarato il falso. Tanto per ricordarci che siamo in Italia…
Foto tratta da itacanotizie.it
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