Oggi non abbiamo nulla da festeggiare, manca, infatti il festeggiato: il lavoro. Celebriamo questa giornata riportando alcune parti di una interessantissima analisi di Umberto Santino sui misteri della strage di Portella della Ginestra del primo Maggio del 1947. Lo scenario politico italiano e internazionale. La “democrazia bloccata”. Il “doppio Stato”. Il “criptogoverno”. Il potere ufficiale che viene dalle elezioni e quello effettivo…
La strage di Portella, la democrazia bloccata e il doppio stato
di Umberto Santino
tratto da www.centroimpastato.com
Democrazia bloccata, sovranità limitata, costituzione formale e costituzione materiale, poteri occulti o potere invisibile, doppio Stato: sono termini che hanno attraversato il dibattito degli ultimi anni, in seguito alle stragi che hanno insanguinato il nostro paese, da piazza Fontana in poi, e all’emergere di fenomeni come la loggia massonica P2, i cosiddetti servizi segreti deviati, le rivelazioni su Gladio del novembre 1990.
La democrazia italiana è stata definita «democrazia bloccata», cioè formalmente aperta ma di fatto sbarrata ad ogni possibilità di ricambio, e la spiegazione è stata ricondotta agli equilibri bipolari nati dai negoziati di Yalta. Con la spartizione del mondo in due aree sottoposte al dominio diretto o all’influenza delle grandi potenze, l’Italia si sarebbe trovata a esercitare una «sovranità limitata»: il limite sarebbe rappresentato dall’invalicabilità del confine tracciato dai vincitori della seconda guerra mondiale quando al nostro paese era stata assegnata una collocazione all’interno dello schieramento occidentale. L’accesso a posizioni di potere delle sinistre, in particolare del Pci, avrebbe significato abbandonare quello schieramento e oltrepassare quel limite.
Che i condizionamenti internazionali abbiano avuto un peso rilevante nell’elaborazione delle politiche nazionali, è indiscutibile, ma non fino al punto, come si afferma esplicitamente o si lascia intendere, di annullare o ridurre drasticamente la responsabilità dei ceti politici e delle classi dominanti nazionali. A mio avviso, più che di un’imposizione dall’esterno si è trattato di un matrimonio consensuale, nel senso che interessi geopolitici e interessi di classe coincidevano perfettamente.
Le espressioni «costituzione formale» e «costituzione materiale» indicano la contraddizione tra diritto e politica, tra norma scritta e prassi concreta, e mentre la prima designa il testo istitutivo di un sistema democratico tra i più avanzati del mondo, qual è quello nato in Italia dalla Resistenza antifascista e dall’Assemblea costituente, la seconda fa riferimento a un testo non scritto, ma ugualmente cogente, le cui prescrizioni sono funzionali al mantenimento di un sistema di potere compatibile con l’ordine internazionale.
Affrontando il problema dell’attivazione di forme di potere occulto, Norberto Bobbio, nell’articolo La democrazia e il potere invisibile, pubblicato nel 1980 e ripubblicato successivamente nel volume Il futuro della democrazia, parlava di «criptogoverno», indicando con questo termine «l’insieme delle azioni compiute da forze politiche eversive che agiscono nell’ombra in collegamento coi servizi segreti, o con una parte di essi, o per lo meno da questi non ostacolati» (….)
Il testo di Bobbio stimola alcune domande di fondo: il potere che ricorre al delitto e alle stragi è un potere invisibile o visibilissimo, occulto o occultato? Le forze politiche che vi fanno ricorso sono eversive o conservatrici? Il fine che si propongono è la destabilizzazione o la stabilizzazione? L’attuazione di attività delittuose costituisce una deviazione o è organicamente inscritta in un sistema di potere precluso al mutamento ed è pienamente funzionale alla sua perpetuazione? Siamo di fronte a un anti-stato oppure allo Stato reale, denudato nella sua vera natura di forma del potere delle classi dominanti che ricorrono a qualsiasi mezzo (compresi il delitto e la strage) pur di non essere spodestate? L‘arcanum è imprevisto e imprevedibile o è la reiterazione, prevista e prevedibile, di un vecchio copione?
Se si pensa che lo stragismo è indissolubilmente coniugato con il depistaggio e con l’impunità spesso anche degli esecutori, sempre dei mandanti, la risposta a queste domande non sarà difficile. Ma se piazza Fontana è il prototipo delle stragi più recenti, il modello è più antico, rimonta proprio a Portella della Ginestra.
Il tema del «doppio Stato» compare nel dibattito italiano con un articolo di Franco De Felice, Doppia lealtà e doppio Stato, del 1989. (…)Il doppio Stato è «un’unica realtà in cui convivono una sfera, potenzialmente illimitata, caratterizzata dalla discrezionalità e dalla eccezionalità definita dal potere politico secondo il proprio criterio di opportunità; ed un’altra sfera, della normalità, in cui la certezza del diritto è funzionale alla garanzia di conservazione e sviluppo dei rapporti sociali capitalistici»
In Italia si forma una democrazia parlamentare pluralista ma essa è l’unico paese industriale europeo in cui l’opposizione, cioè il movimento operaio social-comunista, è vista come antagonista strategico, il «nemico», che si muove al di fuori dei confini tracciati dal Patto atlantico, e quindi non può andare al governo, e pertanto la democrazia non ha alternativa, è aperta per la costituzione formale ma bloccata per quella materiale.
In base a questo approccio, il doppio Stato che si è configurato in Italia non è un fatto contingente, non scaturisce da un uso improprio, deviato, dei poteri pubblici, da un complotto o da una guerra interna di fazioni, ma ha carattere strutturale, in «collegamento con la doppia lealtà e con l’ assedio reciproco» (ibidem, p. 534). La categoria gramsciana dell’«assedio reciproco», tipico della «guerra di posizione», si riproduce nel contesto dell’alternativa bloccata e del conflitto permanente tra forze politiche strategicamente antagoniste.
Condivido la tesi di De Felice secondo cui la teorizzazione del doppio Stato riesce a cogliere le dinamiche attivatesi nel secondo dopoguerra nel nostro paese più di quanto lo facciano le analisi fondate sul potere invisibile e le interpretazioni dei delitti politici e delle stragi come deviazioni eversive.
Mi chiedo se e fino a che punto le categorie prima richiamate valgano per Portella. A mio avviso la strage di Portella è l’atto di nascita di un modello, la prova generale di un copione (che prevede l’uso della violenza illegale come risorsa ineliminabile per sbarrare alle opposizioni l’accesso al governo) che sarà ripreso, con soggetti e in contesti parzialmente diversi ma fondamentalmente assimilabili (il «nemico» è sempre quello: il pericolo comunista), ogniqualvolta la normale dialettica politica non riesce a governare gli squilibri. Le sinistre non sono fuorilegge, non si possono mettere fuorilegge perché ciò significherebbe la guerra civile, ma dal 1947 in poi sono fuorigioco e Portella rappresenta il via a questa estromissione, con tutti i mezzi, delle sinistre dalla possibilità di accesso a posizioni di potere.
A Portella, e da Portella in poi, democrazia bloccata e doppio Stato sono il frutto dell’interazione tra due processi: l’istituzionalizzazione della violenza criminale (banditismo e mafia) e la criminalizzazione delle istituzioni (cioè l’uso di modalità criminali da parte di soggetti istituzionali), per cui si configura una simbiosi dinamica tra criminalità istituzionalizzata e istituzioni criminali che permarrà, con i necessari adattamenti, per tutto il corso della «prima Repubblica».
La strage di Portella e la democrazia bloccata
Il risultato delle elezioni regionali siciliane del 20 aprile 1947 costituì un fatto allarmante, a livello regionale ma pure nazionale e internazionale. Riporto alcuni dati. Il Blocco del Popolo conquistò 29 seggi, la Democrazia cristiana ne ebbe 19, il Blocco demoqualunquista 14, il Partito nazionale monarchico 9, il Movimento indipendentista siciliano 8, il Partito repubblicano 4, il Partito socialista lavoratori italiani 4, l’Unione democratica nazionale 2, l’Uomo qualunque 1. Fu una svolta rispetto alle elezioni precedenti. Il 2 giugno 1946 al referendum istituzionale in Sicilia c’era stata una vittoria netta della monarchia con 1.292.100 voti, contro i 705.949 voti per la repubblica, e alle elezioni per l’Assemblea costituente la Dc aveva avuto il 33,62 per cento dei voti, l’Unione democratica nazionale (una coalizione di liberali e demolaburisti) il 13,55, il Psiup il 12,25, l’Uomo qualunque il 9,70, il Mis l’8,71, il Pci il 7,91. Quindi la maggioranza schiacciante era del blocco conservatore. Alle elezioni amministrative, che si svolsero in marzo e tra ottobre e novembre, la Dc da sola aveva avuto la maggioranza in 30 comuni e assieme ai partiti di destra in altri 13 comuni. I partiti di destra si affermarono in 33 comuni. Socialisti e comunisti conquistarono 20 comuni e assieme ad altri ebbero la maggioranza in altri 13.
Il successo elettorale delle sinistre alle elezioni del 20 aprile ’47 si spiega con l’unità dello schieramento, con un maggiore ruolo nelle città, ma soprattutto con la crescita del movimento contadino. Si può formare una maggioranza con al centro le forze di sinistra. Il problema è cosa farà la Dc.
1.1. De Gasperi e il «quarto partito»
A livello nazionale erano cominciate le grandi manovre che porteranno alla rottura della coalizione antifascista. De Gasperi nella seduta del consiglio dei ministri del 30 aprile ’47, dieci giorni dopo le elezioni regionali siciliane, fa una dichiarazione che riporto per esteso così come venne trascritta dall’allora ministro Emilio Sereni. De Gasperi annuncia che è sua intenzione cambiare la struttura del governo, formatosi nel febbraio dello stesso anno e composto da democristiani, comunisti e socialisti e così motiva la sua decisione:
«È innegabile che noi disponiamo di una forte maggioranza nell’Assemblea; ed è pure innegabile (…) che nel complesso i Partiti che partecipano al Governo riscuotono un crescente numero di suffragi dal corpo elettorale. Ma i voti non sono tutto. Possiamo godere, sì, della fiducia della grande maggioranza degli elettori, ma le leve di comando decisive in un momento economico così grave non sono in mano né degli elettori né del Governo. Il partito della Democrazia cristiana, il Partito comunista, il Partito socialista, certo, sono forti, riscuotono la fiducia di milioni e di milioni di elettori. Ma non sono questi elettori che decidono ed orientano le campagne della stampa indipendente, che presenta in forma scandalistica o comunque ostile ogni sforzo che il Governo fa per superare le difficoltà del momento. Non sono i nostri milioni di elettori che possono fornire allo Stato i miliardi e la potenza economica necessaria a dominare la situazione. Oltre ai nostri Partiti, vi è in Italia un quarto Partito, che può non avere molti elettori, ma che è capace di paralizzare e di rendere vano ogni nostro sforzo, organizzando il sabotaggio del prestito e la fuga dei capitali, l’aumento dei prezzi o le campagne scandalistiche. L’esperienza mi ha convinto che non si governa oggi l’Italia senza attrarre nella nuova formazione di Governo, in una forma o nell’altra, i rappresentanti di questo quarto Partito, del partito di coloro che dispongono del denaro e della forza economica» (Sereni 1948-1980, pp. 26 s.).
De Gasperi distingue tra governo formale e comando effettivo: c’è un potere ufficiale fondato sulle elezioni, sulla maggioranza espressa dagli elettori, uguali di fronte alla legge e nella manifestazione della loro volontà tramite il voto, sulla fiducia ai partiti democratici, sul governo formato da questi partiti, e c’è un potere ben più forte, di minoranze ricche e dotate dei mezzi per ostacolare e annullare l’azione del governo, se esso non coincide con i suoi interessi.
Se il governo non coincide con il quarto partito, non è il governo del quarto partito, esso non ha un potere effettivo, non è in grado di esercitare il suo potere formale; ma l’inserimento nel governo del quarto partito richiede l’estromissione dei due partiti di sinistra, anche se ciò è in aperto contrasto con la volontà dell’elettorato.
Il problema da allora sarà spostare l’elettorato in modo da avallare la scelta a favore del quarto partito, da renderne possibile l’inserimento, e a ciò serviranno le elezioni del 18 aprile 1948, ma per arrivare a quel risultato elettorale bisognerà compiere una serie di manovre che possono anche configurarsi – De Gasperi non lo dice e si guarda bene dal dirlo, ma è quello che è avvenuto e si è guardato bene dall’impedire che avvenisse – come azioni di forza e di violenza.
De Gasperi esegue gli ordini degli USA comunicatigli durante la visita nel mese di gennaio? Per sua bocca quel 30 aprile parla la sovranità limitata? Ho già detto prima che queste spiegazioni tengono fino a un certo punto, mettono tutto sul conto delle scelte internazionali che ovviamente hanno avuto il loro peso, ma il quarto partito di cui parla De Gasperi è il grande capitale italiano e gli interessi geopolitici non confliggono con gli interessi di classe degli strati dominanti, sono perfettamente coniugabili.
1.2. Le indagini sulla strage di Portella: dalla mafia alla banda Giuliano
La decisione di cambiar pagina dando vita a un nuovo governo è già presa il 30 aprile e il primo maggio c’è la strage di Portella. Non sono coincidenze fortuite. Con la strage prende la parola il «quarto partito» siciliano, formato da agrari e mafiosi, e il suo «voto», a differenza di quello delle regionali del 20 aprile, preme nella stessa direzione annunciata da De Gasperi: estromettere le sinistre dal governo nazionale, non consentire loro di formare il governo regionale.
Com’è noto, subito dopo la strage, non solo le sinistre parlarono di mafia, di agrari e forze conservatrici. La «Voce della Sicilia» (VdS) nell’edizione straordinaria del 2 maggio titolava: A Piana della Ginestra baroni e mafia contro il popolo, ma anche il comandante della Legione dei carabinieri di Palermo telegrafava: «Vuolsi trattarsi organizzazione mandanti più centri appoggiati maffia at sfondo politico con assoldamento fuori legge» e un secondo telegramma diceva: «Confermasi che azione terroristica devesi attribuire elementi reazionari in combutta con mafia comuni Piana Albanesi, S. Giuseppe Jato et S. Cipirrello» (in Santino 1997, p. 153).
Le indagini prendono subito una pista ben precisa. Vengono fermate immediatamente 74 persone, nei giorni successivi i fermati arriveranno a 120, tra cui capimafia locali e professionisti. Il «Giornale di Sicilia» (GdS) del 5 maggio titola: Alcuni professionisti tra i 120 fermati per l’eccidio di Portella (nello stesso numero c’è un’intervista a Lucky Luciano, che si definisce e viene presentato come un perseguitato).
Successivamente sono arrestati come autori materiali della strage di Portella i capimafia Giuseppe Troia, Salvatore Romano, Elia Marino, Pietro Gricoli: sono stati riconosciuti da alcuni giovani (GdS 19 maggio 1947) e farebbero parte della «cricca liberal-uccù» (Uomo qualunque; VdS 20 maggio 1947).
Ma il giorno stesso della strage l’ispettore Messana aveva indicato come responsabile la banda Giuliano e Li Causi gli aveva chiesto come facesse ad avere quella certezza, mentre tutti parlavano di mafia. Il 2 maggio, nel dibattito all’Assemblea costituente, il ministro degli interni Scelba dichiara che la strage non è un fatto politico, ma di semplice delinquenza. (…)
il 22 giugno c’è il colpo di scena. Quel giorno il «Giornale di Sicilia» titola: A Portella ha sparato Giuliano. Come si ricorderà, lo stesso giorno ci sono gli attentati alle camere del lavoro e alle sezioni dei partiti di sinistra, compiuti dai banditi e in alcuni paesi (Cinisi e Monreale) dai mafiosi. I capimafia arrestati per la strage di Portella vengono rilasciati e Giuliano diventa l’unico responsabile: era proprio quello che ci voleva per il canovaccio ordito dall’ispettore Messana e dal ministro Scelba. Messana ha imbeccato Scelba, oppure Scelba Messana? O, come è più credibile, il ministro e l’ispettore agivano in perfetta sintonia, animati da un comune sentire?
Giuliano alle elezioni regionali aveva fatto votare per Varvaro, che a Montelepre aveva avuto 1.521 voti, mentre il Blocco del Popolo ne aveva avuto solo 70. Il bandito non conosceva bene la situazione, non sapeva che al congresso di Taormina del febbraio ’47 c’era stata la scissione e che il Misdr di Varvaro era vicino alle sinistre? Lo sapeva, ma hanno prevalso i rapporti personali? Varvaro era suo avvocato, era il candidato locale più conosciuto e quindi non si sentiva di non appoggiarlo? Ma come mai dieci giorni dopo avere fatto votare per il separatista scissionista, simpatizzante per le sinistre, compie il massacro di Portella?
Un ruolo decisivo nella dinamica che porta alla strage viene attribuito alla lettera fatta pervenire dalla madre al bandito tramite il cognato Pasquale Sciortino, dopo la cui lettura Giuliano, secondo la testimonianza di Giovanni Genovese, avrebbe annunciato: «È giunta l’ora della nostra liberazione» e che bisognava andare a sparare ai comunisti a Portella della Ginestra.
La lettera, stando alle testimonianze della madre del bandito e alla sua stessa ammissione nel secondo memoriale fatto pervenire alla corte di Viterbo, proveniva dall’America ed essendo stata distrutta subito dopo la lettura non sapremo mai cosa ci fosse scritto esattamente. Possiamo ipotizzare che il suo contenuto fosse così sintetizzabile: per poter contare su un futuro diverso dal prevedibile carcere a vita per i suoi innumerevoli delitti, lui e i suoi debbono rendere un servizio: sparare sui rossi. Così, o solo così, Giuliano e la sua banda potranno «liberarsi».
Un avvocato della difesa al processo di Viterbo dichiarava che «la banda Giuliano, operando contro i comunisti a Portella della Ginestra e, nei vari paesi della provincia di Palermo, contro le sedi del partito comunista, operò come poteva operare un plotone di polizia». La sentenza annota che lo stesso concetto era stato «enunciato dal capo della mafia di Borgetto, Domenico Albano, il quale riportò in dibattimento una considerazione fatta dall’autorevole capo della mafia di Monreale, Ignazio Miceli, secondo cui Giuliano non era un bandito, ma capo di uno squadrone di polizia. (…) Ciò dipese dalla carenza dello Stato che in quel momento si notò in Sicilia» (in Santino 1997, pp. 191 s.).
Il senso di questo discorso è chiarissimo: Giuliano, uccidendo i comunisti, fa quello che la polizia di Stato, nella concezione dei mafiosi e degli agrari, dovrebbe fare e non fa: reprimere con tutti i mezzi le sinistre. Quegli atti criminosi vogliono essere un messaggio rivolto alle istituzioni perché siano, o tornino ad essere, i baluardi degli interessi forti contro gli assalti dei comunisti. Scelba ha capito perfettamente e tutta la Dc ha accolto positivamente quel messaggio.
Varvaro, deponendo alla Commissione antimafia nel gennaio 1971, dirà che i voti nella zona in cui operava la banda Giuliano nelle elezioni successive andranno in gran parte a Bernardo Mattarella e che l’uccisione, nel luglio del 1949, di Leonardo Renda, dirigente democristiano di Alcamo e compare di Mattarella, sarebbe il pagamento di una cambiale scaduta (in Cooperativa Scrittori, a cura di, 1973, II, p. 1724). Giuliano chiedeva, a suo modo, che la Dc mantenesse le promesse. Quelle promesse erano cominciate nei giorni di Portella della Ginestra?
Contestualmente con l’operazione che porta ad addossare tutto a Giuliano e a scagionare mafiosi (nonostante le molte testimonianze), agrari (nonostante l’evidenza del gioco degli interessi) e forze politiche conservatrici (nonostante che i nomi di alcuni loro esponenti siano circolati ampiamente, dopo la strage e successivamente) si svolge la manovra che porterà alla rottura della Dc con le sinistre e all’alleanza con le destre.
L’iniziativa di formare il governo regionale è presa dalla Dc (non c’era nessuna regola, ma c’era da attendersi che assumesse l’iniziativa il partito di maggioranza, cioè il Blocco del Popolo).
qui la versione integrale dell’articolo
qui sotto, invece, l’articolo in cui si ricorda l’appello dello storico, Giuseppe Cassarubea, rivolto al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella per l’apertura degli archivi di Stato:
Portella della Ginestra: un ricordo di Cassarubea e del suo appello contro gli archivi segreti
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