Il boccaccesco matrimonio di Giuseppe Garibaldi con una minorenne un po’ ‘vivace’…

4 febbraio 2017

La storiografia ufficiale non parla di questo strano matrimonio mai consumato dall’ ‘Eroe dei due mondi’. E’ una storia di corna che, in effetti, a scuola, i professori avrebbero qualche difficoltà a illustrare ai ragazzi. Visto che non siamo a scuola – e visto che a noi della storia italiana scritta dagli ‘storici’ per conto dei potenti non ce ne può fregare di meno – ve la raccontiamo noi. Buon divertimento… 

di Ignazio Coppola

Se Giovanni Boccaccio anziché nel 1300 fosse vissuto qualche secolo più avanti avrebbe certamente scritto una versione aggiornata del suo Decamerone con protagonista principale l’ ‘Eroe dei due Mondi’, alias Giuseppe Garibaldi, narrando con dovizia di particolari il matrimonio della stagionata camicia rossa con una giovanissima rampolla della nobiltà lombarda di allora, la marchesina Giuseppina Raimondi.

Chi meglio di Giovanni Boccaccio avrebbe potuto infatti narrare, aggiornando la sua celebre opera narrativa, il matrimonio celebrato esattamente 157 anni fa, nel gennaio del 1860, a Fino Di Mornasco, in provincia di Como in riva all’omonimo lago, tra il biondo ‘condottiero’ del risorgimento e la già citata marchesina, di cui pochi, per il complice silenzio della storiografia ufficiale, conoscono l’esistenza. Ma andiamo alla cronaca rosa-nera di quell’evento che, da lieta, nel breve giro di poche ore (infatti durò il breve spazio di un mattino) si trasformò in tragi-comico. Una vicenda che, in conclusione, finì per coprire di ridicolo il nostro ‘Eroe dei due mondi’.

Correva l’anno 1860 e Garibaldi, da 12 anni vedovo di Anita, a 52 anni suonati si innamora, ai limiti della pedofilia, della appena diciassettenne marchesina Giuseppina Raimondi, alla quale, nonostante i 36 anni di differenza, dichiara in ginocchio tutto il proprio amore, per convincerla al grande passo del matrimonio.

La marchesina, prima esitante, alla fine stranamente acconsente. Il 24 gennaio, da don Filippo Gatti, prevosto vicario, vengono celebrate le nozze nella cappella privata della tenuta della famiglia Raimondi, alla presenza del governatore di Como, Lorenzo Valerio, e del conte Giulio Porro Lambertenghi in qualità di testimoni, nonché di numerosi invitati.

Garibaldi, per nulla presago di quanto sarebbe accaduto di lì a poco, raggiante stringe il braccio della sposina. Ma al momento in cui, dopo il fatidico sì, gli sposi escono dalla chiesa, avviene il colpo di scena. Uno sconosciuto si avvicina a Garibaldi e gli consegna una lettera. Il novello sposo trasecola alla lettura del suo contenuto e chiede spiegazioni a Giuseppina, la quale farfuglia, cercando inutili giustificazioni.

La lettera contiene prove palesi che la marchesina Raimondi, sua moglie da qualche minuto, ha due amanti. Uno di loro è un ufficiale dello stesso Garibaldi, il tenente Luigi Caroli, l’altro è il marchese Rovelli, cugino della ragazza. Tra l’altro, la vigilia delle nozze, la marchesina ha avuto rapporti intimi con Caroli ed è incinta dello stesso Caroli e quella con lui è una tresca nota a tutti tranne che a Garibaldi. Un bel ginepraio. Ce n’è abbastanza perché il nostro “eroe”, cercando di colpire con un ceffone la fedifraga, dopo averle lanciato contro una sedia, la apostrofasse con un duro:

Siete una puttana”.

“Credevo di essermi sacrificata sposando un eroe, ma siete solamente un brutale soldato”, fu la risposta di lei.

La sera stessa, Garibaldi partì per Caprera e cercando, nei mesi successivi, di dimenticare la brutta avventura, si tuffò anima e corpo nell’impresa dei Mille, che iniziò appena quattro mesi dopo ai primi di maggio del 1860.

In definitiva l’Unità d’Italia deve qualcosa alla marchesina Raimondi e, soprattutto, i meridionali e i siciliani devono eterna  “riconoscenza” alla giovanissima rampolla della famiglia Raimondi per essere stati “liberati” da un marito tradito che, toltosi dalla testa il “peso” (e che peso)  di quel matrimonio si dedicò esclusivamente, in nome di Vittorio Emanuele II, alla conquista del Sud.

Sullo scandalo la stampa dell’epoca stese un pietoso velo. Chi rise a crepapelle, a quanto si racconta, fu lo stesso Vittorio Emanuele II, futuro re d’Italia e alle prese con la “bela Rosin”, molto esperto nell’arte amatoria. L’ ‘Eroe dei due mondi’, incassata questa ridicola e pessima figuraccia, con una ragazzina di primo pelo, dovette attendere ben 20 anni prima che il matrimonio con la marchesina Raimondi, rato e mai consumato, venisse con un cavillo giuridico annullato per sposare Francesca Armosino, sua terza moglie, e così legittimare i due figli, Clelia e Manlio, avuti da lei nel frattempo.

Per ottenere l’annullamento, che fu sentenziato il 14 gennaio 1880, due anni prime della sua morte, Garibaldi tentò le umane e divine cose facendo leva sul proprio prestigio e sulla propria autorevolezza dispiegando, nei processi che ne seguirono, a più non posso avvocati e testimoni , ma sopratutto chiedendo, lui di fede più marcatamente repubblicana che monarchica, con una supplica l’autorevole intervento del re Umberto I, nel frattempo succeduto al padre Vittorio Emanuele II, morto il 9 gennaio 1878, affinché risolvesse con un decreto in suo favore l’angoscioso problema.

A tal proposito, tra l’altro, così ebbe a scrivere al re nel settembre del 1879:

“Ed ora l’accordare lo scioglimento di questi matrimoni, per la mutata condizione di cose, e per il nostro diritto pubblico interno, è una delle prerogative della Maestà Vostra (con ciò Garibaldi in buona sostanza chiedeva ad Umberto I sovrano costituzionale di sostituirsi al magistrato,) il matrimonio contratto dal sottoscritto, essendo appunto ratto e non consumato, egli supplica perciò la Maestà Vostra volerne con un suo sovrano decreto accordarne lo scioglimento a datare dal 24 gennaio del 1860. Della Maestà Vostra devotissimo, Caprera 4 settembre 1879  firmato Giuseppe Garibaldi”.

Il processo, malgrado la supplica ad Umberto I, andò avanti anche per l’ostinazione della Marchesa Raimondi a non voler concedere l’annullamento e che suscitò l’inviperita reazione di Garibaldi che certo non si comportò come vedremo da gentiluomo degno di un padre della Patria.

Stizzito dal comportamento della moglie di un giorno, invia, per informare l’opinione pubblica, delle lettere infamanti e denigratorie nei confronti di lei ad alcuni giornali, La Capitale di  Roma e Il Telegrafo di Livorno e i cui direttori Dobelli e Bandi (ex garibaldino) per decenza non le pubblicano. Le lettere contengono della accuse infamanti nei confronti  della Raimondi, ossia quelle di continuare ad avere numerosi amanti antichi e nuovi, una vera e propria ninfomane, aggiungendo la ciliegina sulla torta, ovvero quella che la marchesina sua moglie aveva avuto anche rapporti incestuosi con il padre e per allontanarsi dall’orco paterno aveva chiesto, a suo tempo, al generale di sposarla.

Questa serie di infamie – conclude nelle lettere Garibaldi – mi obbligarono il 24 gennaio del 1860 naturalmente a fuggire da quella casa maledetta”.

Uno sfogo meschino che, per fortuna e decenza, i giornali non pubblicarono. Un atteggiamento non certo consono e degno del decoro di un eroe come Garibaldi che la storiografia risorgimentale ci ha consegnato senza macchia e senza peccato.

A buon fine e per buona pace di Garibaldi il 14 gennaio del 1880 verrà sentenziato dalla seconda sezione promiscua della Corte d’Appello di Roma l’annullamento del matrimonio con la marchesina Raimondi, accogliendo la tesi del matrimonio rato e non consumato prevista dalla legislazione austriaca allora vigente in Lombardia all’epoca delle nozze.

Libera dal vincolo con Garibaldi Giuseppina Riamondi, un anno dopo, sposerà il nobile Lodovico Mancini che la lascerà vedova nel 1913. Giuseppina morirà 5 anni dopo anni il 27 aprile 1918 all’età di settantasette anni. Seppellita nel cimitero di Como, nella sua tomba verrà scritta questa breve epigrafe:

“Amò l’Italia più di se stessa”.

Potremmo a buon diritto aggiungere: “E sicuramente più di Garibaldi”.

 

 

 

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