di Nota Diplomatica
È in corso in molti Paesi un dibattito sul “reddito universale di base”. Il discorso italiano varia, di poco, per l’interessante sostituzione della parola “universale” con l’espressione “di cittadinanza”, forse per venire incontro alla xenofobia “light” del momento. Il problema politico è ovvio e noto. La proposta, comunque la si giri, è di togliere del reddito ai contribuenti produttivi per darlo a chi per definizione non è in condizioni di produrre. Ciò corrisponde a un’idea della giustizia sociale, ma spostare risorse limitate verso impieghi meno produttivi riduce anziché accrescere la ricchezza complessiva nazionale. Il contrasto è probabilmente irrisolvibile perché entrambe le parti hanno ragione. Permettere a una fetta della popolazione di stare nella miseria in mezzo alla prosperità degli altri non è solo ingiusto, è socialmente pericoloso. Al tempo stesso, si teme che il reddito base, garantito in ogni circostanza, possa ridurre la motivazione al lavoro perché, come osservò Cesare Pavese: “lavorare stanca”…
Il riconoscimento che le due visioni, entrambe valide, non siano conciliabili ha stimolato nei Paesi anglosassoni una ricerca di alternative al reddito garantito dalla quale irrompe ora la proposta di sostituirlo con massicci investimenti sulla “mobilità di base” universale e gratuita. I vantaggi sono molti, a partire dall’impatto economico dei progetti infrastrutturali. Il trasporto pubblico gratuito riduce l’inquinamento e non crea sperequazioni tra i beneficiari, pur rafforzando maggiormente i meno abbienti. Ampliando il raggio di movimento, rende accessibili posti di lavoro che prima non erano “in zona”. Incoraggerebbe dunque l’impiego, anziché rendere più sopportabile farne a meno. Già oggi riuscire a far pagare il biglietto sui mezzi pubblici è un’impresa difficile e costosa. L’ATM di
Milano, il gestore della Metropolitana e dei mezzi pubblici di superficie, spenderà nei prossimi mesi oltre €2milioni in sole tre stazioni (su un totale di 113) della rete sotterranea per installare nuovi tornelli alti che non possano essere saltati dai “furbetti” che non timbrano. Pesa anche un aspetto di politica pratica nei Paesi che esaminano l’ipotesi. La necessità di accomodare visioni forti e anche fortemente contrastanti tende a generare compromessi insoddisfacenti, infelici e
costosi – del tipo “va bene, facciamo, ma almeno lo facciamo male” – con, per esempio, la distribuzione di mancette modeste attraverso procedure lente, complesse e in qualche modo “punitive”. La proposta, di gusto sessantottesco, di rendere gratuito il trasporto – urbano e, in là, anche interurbano – ha trovato nuova vita soprattutto con il riconoscimento che l’Occidente sia arrivato al “peak car”, cioè, al crollo nell’utilizzo delle auto private.
Il metro “VKT” – Vehicle Kilometres Traveled – scende da tempo in Australia, Belgio, Francia, Germania, Islanda, Giappone, Nuova Zelanda, Svezia, Regno Unito e Stati Uniti. La tendenza pare destinata a durare: in Germania il numero dei giovani che chiedono la patente è crollato del 28% nell’ultimo decennio, in Inghilterra è giù di quasi il 40% in due decenni. Il ricorso all’allargamento dei trasporti come una risposta ai problemi sociali ed economici ha anche un antecedente nobile, la costruzione delle grandi vie consolari che fecero la fortuna dell’Impero romano, dando mobilità alla popolazione e al commercio, nonché alle centurie delle legioni…