“Il brigantaggio fu anche il primo e determinante banco di prova delle narrazioni, infarcite di pregiudizi, che gli italiani del Nord costruirono sugli italiani del Sud. Ne furono strumento le fotografie propagandistiche scattate dopo le azioni militari. Tutti i fotografi erano autorizzati dagli ufficiali. Fu molto attivo, per esempio, Emanuele Russi, che scattò centinaia e centinaia di immagini. I soggetti erano uomini e donne catturati, o uccisi. I cadaveri venivano sorretti dai soldati per dare l’illusione che fossero ancora in vita. Immagini lugubri, spente, più macabre delle teste mozzate o dei corpi senza vita abbandonati in bella vista come monito a ridosso dei paesi. Dietro ogni immagine, Russi annotava con scrupolo le generalità del brigante, la località e la data del conflitto, unendovi anche qualche suo commento illustrativo. Su una foto, scriveva: ‘I segni neri al volto sono baionette di sangue’. Con Russi, furono impegnati nella stessa attività altri fotografi autorizzati come Ferdinando Caparelli di Caserta, Giuseppe Chiariotti di Benevento, Raffaele Del Pozzo di Salerno. E poi molti altri rimasti anonimi. Quelle immagini, vendute come cartoline o cartes de visite, venivano acquistate a prezzi elevati a Torino, la capitale. Guardando quei volti di ‘bruti e barbari”’, la borghesia e l’aristocrazia piemontese rafforzavano sempre più le loro convinzioni sul rozzo meridionale da civilizzare, che sapeva solo macchiarsi di violenze e omicidi. Divennero uno spettacolo, una forma di racconto da ammirare a piacimento, il corpo senza vita di Ninco Nanco dopo la sua misteriosa uccisione, lo scempio sul cadavere del capo brigante Vincenzo Palmieri, i volti seviziati di Giuseppe Leone e Domenico Savastano. E poi le donne dei briganti, chiuse nei loro costumi e indecifrabili nei loro sguardi, nelle foto più richieste”.