“No, non andrò a diecimila miglia da casa per aiutare a bruciare e assassinare un’altra nazione povera solo per conservare la dominazione dei padroni bianchi sui popoli di pelle scura in tutto il mondo. (…) Nessun vietcong mi ha mai chiamato negro. Non mi hanno mai linciato, non mi hanno mai attaccato con i cani, non mi hanno mai privato della mia nazionalità, stuprato o ucciso mia madre e mio padre. Sparargli per cosa? Come posso sparare a quelle povere persone? Allora portatemi in galera”. Il 28 aprile 1967, Cassius Clay, ormai diventato Muhammad Ali, pronunciava un no che gli sarebbe costato molto caro.
No alla guerra, no a uccidere innocenti, no alla violenza.
Si dichiarò obiettore di coscienza e rifiutò l’arruolamento. Per questo, gli fu tolto il titolo di campione del mondo dei pesi massimi. Non solo: fu condannato a cinque anni di prigione e a diecimila dollari di multa. In carcere poi non ci andò, ma per quasi quattro anni non poté più salire su un ring, mettendo così a rischio la sua straordinaria carriera, proprio mentre era all’apice del successo.
Aveva solo 25 anni, ma le idee chiarissime: “Mi hanno avvertito che prendere questa posizione metterà a rischio il mio prestigio e potrebbe farmi perdere milioni di dollari che guadagnerei come campione di boxe. Ma non disonorerò la mia religione, la mia gente e me stesso per diventare uno strumento per la riduzione in schiavitù di coloro che stanno combattendo per la giustizia, la libertà e l’uguaglianza per sé”.
Con questo suo no, Muhammad Alì Campione fece la scelta che la sua coscienza gli imponeva, dimostrando al mondo di non essere solo un campione dello sport, ma anche un campione di umanità che lottava per la pace e per i diritti civili.
(Ci sono tantissimi libri su Muhammad Alì ma poiché certe storie fa bene sentirle già da piccoli, vi segnalo il libro di Davide Morosinotto, Muhammad Alì, il più grande, 2018, EL).
Tratto dalla Pagina Facebook 🦋La farfalla della gentilezza🦋
Foto tratta da Il Riformista