19 febbraio 1937. Solo i bastoni e le spranghe di ferro non bastavano. Anche trafiggere la gente con la baionetta non era sufficiente. Più che altro perché era faticoso e non troppo efficace. Allora si pensò che si facesse prima con la benzina: cosparsa sulle capanne, bastava poi lanciare una bomba a mano per ottenere il massimo risultato, cioè sterminare quante più persone possibile. Per tre giorni di seguito ci fu un massacro senza precedenti. Ma chi erano questi feroci e sanguinari aguzzini? Italiani. Non solo soldati, ma moltissimi civili, persone “normali”, all’improvviso scatenate in una vergognosa “caccia al moro”. I soldati, dal canto loro, erano impegnati in una più scientifica e organizzata operazione di rappresaglia: 4000 persone furono arrestate e rinchiuse in improvvisati campi di concentramento, dove si susseguirono per giorni esecuzioni sommarie di notabili, religiosi, intellettuali. Un massacro. Ma perché? Cosa era successo?
Era successo che Badoglio prima, e Graziani poi, avevano decisamente esagerato in Etiopia. Conquistata Addis Abeba nel maggio del 1936, per ordine esplicito di Mussolini tutti i ribelli dovevano essere “passati per le armi”. Seguì quindi un lungo periodo di terrore con esecuzioni sommarie, incendi di interi villaggi, deportazioni di comunità, ma anche e soprattutto l’utilizzo sistematico di iprite, un gas tossico, proibito dalla Convenzione di Ginevra. E sempre in violazione alla Convenzione di Ginevra, i soldati fatti prigionieri furono tutti uccisi. In questo clima di terrore e sopraffazione, però, c’era anche chi voleva almeno provare a resistere. Facevano quello che da noi faranno pochi anni dopo i partigiani contro i nazisti. Solo che in Etiopia i nazisti eravamo noi. Così il 19 febbraio 1937, i due giovani studenti Abraham Debotch e Mogus Asghedom si introdussero nel palazzo del viceré per lanciare bombe contro Graziani e le autorità italiane. Ci furono 7 morti e una cinquantina di feriti, tra cui lo stesso Graziani. I due attentatori furono uccisi nei giorni successivi.
Ecco, era successo questo. Un atto di resistenza armata che diede il via a una rappresaglia mostruosa contro i civili inermi, un truce sfogo ai più bassi istinti di soldati e civili, che per “vendicare” l’attentato letteralmente impazzirono per tre lunghi giorni di sangue, morte e distruzione ai danni di uomini, donne, bambini.
Tutto questo succedeva nel 1937, ma fino a pochissimi anni fa da noi non solo non se ne parlava, ma si continuava a negare. Solo nel 1996 con l’apertura degli archivi il governo italiano ha ammesso l’impiego di gas tossici, e qui anche Indro Montanelli che aveva sempre negato, si scusò pubblicamente sulle colonne del Corriere della Sera. Nel 2006 è stata proposta l’istituzione del “Giorno della memoria in ricordo delle vittime africane durante l’occupazione coloniale italiana”. Ma poi purtroppo questa benemerita iniziativa è naufragata nel mare delle buone intenzioni.
Però il 19 febbraio, Yekatit 12, secondo il calendario etiope, in Etiopia è il Giorno della Memoria: il ricordo della strage di Addis Abeba è diventato infatti il simbolo di tutte le atrocità commesse da parte dell’Italia fascista. Sarebbe bello in questi giorni leggere su tutti i nostri giornali un ricordo, una riflessione, delle scuse, ma ne dubito (anche se sarei felice di essere smentita). Perché è un ricordo scomodo. Perché ci vergogniamo. Perché abbiamo sempre altro di cui occuparci. Ma, è fondamentale fare i conti con la nostra storia più raccapricciante. Perché la favola di Italiani brava gente è una favola, consolatoria, autoassolutoria, ma solo una favola. Nulla di più.
Tratto dalla pagina Facebook 🦋La farfalla della gentilezza🦋
(Per chi vuole approfondire: Angelo Del Boca, Italiani brava gente, Neri Pozza, 2005, ricco di testimonianze e documenti di quegli anni bui)
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