di Marco Morana
Gli ingredienti sono sempre quelli: ergastolo (che sia ergastolo!) e certezza della pena. Cambia, invece, la tipologia del populista penale, che assume ora i connotati del politico, ora le vesti del conduttore televisivo o giornalista. Non mancano nemmeno la criminologa, l’amazzone del mattino e il paladino domenicale della giustizia. La cifra comune è però una: nessuno di loro sa di cosa parla. Non hanno mai aperto un manuale di diritto. Altrimenti saprebbero che certezza della pena significa che deve essere specificata quale sia la punizione a cui si va incontro se si commette un reato e non significa, invece, scontare interamente la pena comminata. Saprebbero che una sentenza non è una legge scolpita su pietra e di valore divino, perché esistono norme che riguardano l’esecuzione della pena e la rieducazione del condannato. Però pontificano, stracciandosi le vesti per una giustizia che “in Italia”(così si danno l’aria di esperti di diritto penale comparato) non è “a favore delle vittime ma dei colpevoli”. Come se la giustizia fosse un fatto privato volto a dare sazio alle vittime e non una questione di carattere pubblico. Ma tutto fa brodo e soprattutto share televisivo. E voti. Del resto, la pena che devono scontare gli altri è sempre poca. Salvo poi farsi il giro delle sette chiese per non pagare una multa dei vigili.
Il populista penale te lo ritrovi col ditino pronto sulla tastiera: “Gli hanno dato 30 anni? E pochi sono!”. Perché il populista penale è un tipo tosto per davvero. Uno che non fa sconti a nessuno. Ha sempre corda e sapone a portata di mano. C’è quello che si eccita alla sola visione delle manette. L’immaginario delle sue fantasie sessuali varia dalla magistrata col frustino e stivali in pelle che lo cavalca e lo picchia, infliggendogli umiliazioni, alla poliziotta che lo arresta e ammanettandolo gli sussurra cose sconce all’orecchio. Uno dei siparietti più pregevoli è quello della conduttrice tv che, mano ai fianchi, denuncia la vergogna per uno che doveva stare 30 anni dietro le sbarre e invece, udite, udite, ne ha fatti solo 20. “Uno scandalo: le cose devono cambiare”. E bisogna anche finirla con queste perizie psichiatriche “usate come una scappatoia”. Per non parlare del presentatore eccentrico e simpatico che urla, col faccione dentro l’obiettivo della telecamera. Per lui non è da Paese civile che la vittima o i suoi parenti vedano il colpevole che, una volta fuori dal carcere, se ne va da bel bello in giro per il paese. Occorre un’opzione come su Facebook: bloccare il reo. Cancellarlo per sempre dal consesso dei buoni, dei papabili alla vita eterna. Parecchio gradevole anche l’esperta di reati di sangue che prevede pene massime per tutti. E che non si parli nemmeno per idea di sconti di pena e attenuanti. Immancabile la doverosa premessa sul reo: “Soggetti come questo…”. Giusto per prendere le distanze, non si sa mai. E sta sempre lì, collegata dal suo studio, con gli occhiali da sessuologa terapeuta e una montagna di libri sullo sfondo. Così uno dice: minchia, questa legge tanto.
Insomma, il populismo penale è un fenomeno trasversale. Comune a tutte le estrazioni sociali. L’idea di fondo è che giustizia giusta significhi pene severissime. Il populista penale ha nella sofferenza altrui il proprio feticcio. Mostrare il volto truce, la voglia di forca, la sete di sangue significa autoassolversi e stare dalla parte giusta. Quella degli impeccabili. Tutto ciò nasconde un’idea di fondo rassicurante: il male non è una cosa che riguarda la società, ma solo alcuni soggetti. E’ una visione che non prevede progressi, che non crea un cosmo alternativo. Si ferma alla croce, non c’è redenzione. Vige la convinzione che chi sbaglia è irredimibile. Punto. E’ un cortocircuito logico.
Foto tratta da Avvenire