di Alessio Lattuca
Ciò che accade in questo tempo è una sequenza che appare nelle forme di una serie televisiva, una format che tocca le corde del dramma e si confonde con il grottesco ma, sfortunatamente per il Paese e per i suoi valori fondamentali, non è una finzione. Si tratta, piuttosto, di una triste realtà che ha la dimensione di desolanti beghe, che fomentano le divisioni e le contrapposizioni di cui il Paese non ha bisogno. Ed ha a che fare con una fase di resistenza arcaica al cambiamento in atto, accompagnata dalla disinvoltura con la quale le “patologie” sono vissute, unitamente all’avidità e alla corruzione che affliggono la realtà e offrono aiuto all’ascesa del populismo: tutti elementi che formano un sistema opaco in cui denaro e politica si fondono in un cocktail che può essere pericoloso. Il racconto della diversità padana offre un quadro desolante. Infatti a fronte della retorica dell’eccellenza sanitaria, i cittadini ne hanno toccato con mano l’impoverimento. E’ evidente che la privatizzazione della sanità sia il simbolo di una vita pubblica devastata dalle logiche del puro profitto e subordinata agli affari di pochi. Tutte scelte inadeguate di fronte all’impatto delle crisi globali, delle sfide del cambiamento ambientale e – soprattutto – della pandemia, in seguito a cui il velo è stato sollevato. La privatizzazione della sanità è il simbolo di una vita pubblica, interamente subordinata agli affari di pochi, su cui i partiti locali hanno costruito un enorme potere, alimentato dal Pirellone che finanzia senza battere ciglio autostrade private e avventati comprensori sciistici senza neve.
Al riguardo è fondamentale convincersi – come dimostrano le inchieste in corso in Europa – quanto il valore dei controlli, gli equilibri della giustizia e della stampa libera e non conformista siano indispensabili per rendere evidente la novità di questo tempo e cioè: l’assenza di sanzione morale che pervade la società ed offre una discutibile idea di Paese, una stampa responsabile che possa tentare di invertire la tendenza e rimuovere l’assunto secondo il quale tutto ciò che accade sia normale, che sia fisiologico al sistema. Sebbene negli anni passati se ne avesse il sentore, per la verità anche di più di un sentore, adesso è una certezza! Occorrono responsabilità e coraggio per contrastare la pervicacia, l’insolenza e perfino la protervia dei soliti leghisti diventati notabilato (generato da un malinteso processo del regionalismo caratterizzato da mistificazioni e da gigantesche bugie), che hanno posto in essere un poderoso piano: alla ricerca del consenso, con “base” nella cosiddetta area evoluta del Paese. Ma per affrontare la radicata mistificazione serve, intanto, ricercare ed analizzare le cause e il mastice che hanno saldato l’area fintorazzista ai potentati e comprendere da dove viene tanto cinismo e come faccia a corrompere la testa di certi esseri umani.
E’ importante scandagliare l’abisso e l’arretramento che ristagna in una certa area del Paese: il punto da cui erompe tutto l’egoismo sotterraneo e verificare le dinamiche che attraversano tale società e ricercare le ragioni che registrano un’Italia unita nel 1861, diventata una congrega di ducati, baronie, vescovadi. Nel frammentario corrente dibattito le spiegazioni sociali hanno buon gioco e prevalgono su quelle che, invece, insistono sul ruolo dei fattori economici. Non c’è dubbio che anche cause politico/sociali concorrano a determinare lo sviluppo delle regioni ma le traiettorie dello sviluppo regionale dipendono, innanzitutto, dall’azione di forze economiche che, rendendo più conveniente la localizzazione delle imprese in alcune aree rispetto ad altre ha dato origine a una geografia economica disuguale. E’ fisiologico che il divario abbia origine da diverse concause tra le quali distanza dai mercati se è vero che i costi del trasporto sono le principali forze che, interagendo in modo diverso nelle varie epoche, influenzano la distribuzione delle attività economiche e della popolazione nello spazio geografico. Tuttavia, la geografia economica conosce oggi rapide trasformazioni indotte dalla riallocazione delle imprese, dalla crescita delle regioni dell’Est Europa e dalle pressioni e opportunità legate alla globalizzazione, con cui anche il Sud Italia si deve confrontare. Ma occorrono moderni strumenti seduttivi e risorse a partire dalle infrastrutture, da politiche fiscali dirette a favorire il reinvestimento degli utili d’impresa e aiuti per l’occupazione giovanile e femminile quale la fiscalizzazione degli oneri sociali (per almeno dieci anni e solo per il Mezzogiorno): tutti indispensabili elementi per attrarre investimenti!
Solo così per esempio l’INTEL potrebbe scegliere di investire al Sud, dov’è presente uno sterminato capitale umano, piuttosto che nelle contrade del Nord, come auspicato dal Ministro della Lega, mentre la multinazionale guardava a Catania. È probabile che crisi sociali e caratteriali particolarmente pervasive quali quelle che “affliggono il Nord” siano il frutto avvelenato di un precedente disagio (legato con ogni probabilità alla rapidità dei cambiamenti da una realtà di carattere agrario ad una industriale/terziaria) che ha accelerato il disancoramento della collettività dai riferimenti tradizionali. Elementi, questi, che hanno causato la perdita di valori condivisi quali la tolleranza e la solidarietà. Le recenti affermazioni del Ministro leghista Roberto Calderoli: “Il lavoro di definizione delle decisioni che abbiamo assunto ieri richiederà una settimana, poi spetterà al presidente del Consiglio stabilire l’ordine del giorno ma dovremmo essere pronti”, hanno il sapore del ricatto (sembrerebbe che l’Autonomia differenziata sia una questione di permanenza della Lega nella maggioranza di governo) ed evidenziano come il progetto di Autonomia differenziata modellato in solitudine ( in totale assenza di confronto con gli attori interessati) abbia risvolti di parte, evidentemente equivoci e investirà i settori che rappresentano, comprimendo diritti e libertà in tutte le 23 materie coinvolte, tra cui sanità, lavoro, scuola, beni culturali, ambiente. E’, infatti, falso quanto sostenuto da Calderoli secondo il quale l’Autonomia non favorisca il Nord, quando invece stabilisce che le risorse siano distribuite in base alla “spesa storica” (e in assenza dei LEP, Livelli Essenziali delle Prestazioni), il che significa che si accentueranno le differenze a discapito del Sud, come accaduto con l’operazione del federalismo fiscale nel 2009, che ha causato la “conclamata perdita” per il Sud di oltre 60 miliardi di euro l’anno. Cosa, questa, che ha allargato la ‘forbice’ tra Nord e Sud e non ha consentito uguali diritti ai cittadini meridionali.
Se vogliamo discutere dell’uomo, non penso che abbia il pedigree per occuparsi di temi così sofisticati e complessi che hanno ricadute su milioni di cittadini. Penso invece che il Ministro leghista si muova da fenomeno, da “bandiera”, per attrarre il disperso consenso della sua parte politica, soprattutto sui social dove qualsiasi opinione diventa virale, dove diventa “fico” insultare i meridionali perché non sono proattivi come i nordici, perché non sono abbastanza efficienti e via discorrendo, fino a considerarli responsabili del dilagante fenomeno della povertà. Potrebbe, anche, essere vero e, francamente, niente di tutto questo può giustificare l’atteggiamento e le richieste della Lega. Perché occorrerebbero, invece, politici adeguati all’importanza della “questione in atto” e competenti analisti per ricercare le cause e le argomentazioni davvero qualificate, per confrontarsi con fior di meridionalisti vecchi e nuovi (non paragonabili con gli attori in campo) che da circa 150 anni sono impegnati alla ricerca di cause e soluzioni. Quindi perché prendersela con i meridionali? Proviamo ad azzardare delle opinioni: le critiche al Mezzogiorno sono basate, spesso, su pregiudizi e per alcuni aspetti perfino motivati. In effetti, il ritardo del Sud è roba accertata, tant’è che molte regioni sono ancora nella catalogazione dell’UE Obiettivo 1. E’, comunque, il risultato da un lato, di una cultura sbagliata e, dall’altro, dell’esiguità delle risorse destinate al Mezzogiorno e dell’assenza di infrastrutture materiali e immateriali (compreso il numero rispetto al molto inferiore rispetto al nord, di Università presenti nei vari territori) essenziali per contrastare la povertà educativa. Solo una errata, ambigua convinzione (alla quale concorre un linguaggio artefatto) può fare pensare che le cause della condizione in cui versa il Mezzogiorno siano da addebitare alle sue responsabilità, perfino quella che alimenta la disoccupazione, la differenza di genere, la povertà relativa e quella assoluta. Diciamolo con chiarezza: solo una visione arcaica e strumentalizzata della cultura può far credere a qualcuno che tante generazioni, che si sono avvicendate in 150 anni, siano tutte cresciute “ripiegate” su una posizione passiva e indolente e che sulle ultime generazioni non abbia, per nulla, inciso la globalizzazione! Sono tutte discussioni strumentali per camuffare la realtà perché, di fatto, l’Autonomia differenziata amplierà gli squilibri esistenti e le disparità, con ulteriore impoverimento dei meridionali, che da sempre stentano a difendersi perché sprovvisti di una vera classe dirigente, di risorse e armi adeguate (centri decisionali, sistemi editoriali e giornali a diffusione nazionale, università, banche e relative fondazioni, tink tank), cittadini trattati da “consumatori” che vivono in una sorta di anestesia, viaggiano inseguendo l’illusione ipnotica di uno sviluppo possibile, senza badare ai segni lungo il cammino e solo alla fine e forse troppo tardi si accorgono di tutto il male che il Paese porta dentro di sé.
È evidente che il progetto di Autonomia differenziata sia il punto più basso di un preciso disegno di fare cassa sui poveri, aumentando le disuguaglianze, tradendo la Costituzione, scaraventando senza alternative nella miseria milioni di persone, lavoratrici e lavoratori poveri, precari e sfruttati. Con l’attuazione dell’Autonomia le già rilevanti differenze, i ritardi, le criticità fra territori del Paese verranno di fatto sancite per legge, pur sapendo che se si rafforza solo il Nord e non si aiuta il Sud a crescere (il tasso di crescita e occupazione è il più basso dell’UE), a partire della crescita del capitale umano, posto che, senza crescita, non ci sarà lavoro, non ci sarà redistribuzione e sarà finita per l’intero Paese, che non potrà competere. Basterebbe riflettere sulle dette questioni presenti in elevata quantità nel Mezzogiorno (disoccupazione, mancata crescita del Pil, differenze di genere), tutte previste nelle condizionalità imposte dall’Ue e che hanno reso possibile la straordinaria concessione dei fondi del PNRR: strumenti che mobiliteranno notevoli risorse per l’eliminazione delle disparità, che richiedono impegno progettuale e organizzativo, perché rappresentano una sfida che coinvolge le Istituzioni, ma anche altri attori collettivi, pubblici e privati, cui spetterà il compito di attuare gli interventi contenuti nel programma, adattandone gli obiettivi generali alle specificità territoriali.
Per l’appunto ciò che crea disagio o, peggio, orrore, è la disinvoltura con la quale viene affrontata una questione così sofisticata e importante per oltre 20 milioni di cittadini che vivono nel Sud Italia da un ceto politico che si manifesta privo di competenze e responsabilità, il quale dovrebbe porsi seriamente il problema di concorrere per tenere insieme il Paese, di “fare il punto” sullo stato attuale del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), di occuparsi di cose impegnative quali la ripresa economica, ostacolata dall’aumento dei prezzi di molte materie prime e da difficoltà di approvvigionamento, in un contesto globale di consumi crescenti di materiali. Dovrebbe affrontare questioni di primaria importanza (di cui vi è sempre più la necessità non solo per la sostenibilità ecologica, ma anche per la solidità della ripresa economica e la competitività delle imprese), qual è la transizione verso modelli di produzione e di consumo circolari , dovrebbe occuparsi della valutazione delle performances del Paese e al riguardo osservare se esista una proporzione tra l’aumento delle materie prime e l’indiscriminato aumento delle tariffe. Dovrebbe, intanto, sollecitare il Governo perché richieda, davvero, alle grandi “aziende partecipate” Eni, Snam, Enel la misura dei profitti realizzati con le speculazioni e il pagamento delle tasse sugli extra profitti e, in definitiva, promuovere nuove strategie a sostegno dello sviluppo e, in particolare, dello sviluppo del Mezzogiorno, piuttosto che cedere con facilità al piccolo cabotaggio e alle sirene dell’egoismo. D’altronde un rischio così alto richiede un significativo impegno e rende necessario invitare a intervenire pronunciandosi contro ogni Autonomia: parlamentari, presidenti di Regione, Sindaci e forze politiche che dimostrino da che parte stare della Storia e rendere necessario un rigurgito di orgoglio e un preciso impegno per chiedere il ritiro della bozza di legge Calderoli, dell’art. 143 della Legge di Bilancio e la cancellazione del comma 3 dell’art 116 della Costituzione. È bene, tuttavia, che le contrade del Nord si rendano conto che non tutto è per sempre, che gli egoismi non pagano e che le fratture, le divisioni, gli squilibri, i ritardi non giovano al Paese. E che il “benessere” non basterà se non si investirà in coesione e ricerca per tutti, con uno sguardo diretto alle future generazioni, le quali se non attrezzate adeguatamente costruiranno ville, acquisteranno beni e macchine di lusso ma dilapideranno gli accumuli di ricchezza (come avviene di solito agli eredi delle famiglie ricche) e presto saranno poveri: Sic transit pecunia mundi!
Foto tratta da l’Eco del Sud