Sono passati 55 anni dal terremoto nella Valle del Belìce. In genere si legge sempre che il terremoto avvenne nella notte tra il 14 e il 15 Gennaio del 1968. In realtà, quella notte, si ebbero le scosse più forti: la prima alle 2 e 33, la seconda, ancora più forte, alle 3 e 01. Ma il terremoto aveva cominciato a manifestarsi alle 13 e 28 del 14 Gennaio con una prima scossa che provocò danni a Montevago, Gibellina, Salaparuta e Poggioreale. La seconda scossa arrivò alle 14 e 15. La terza terza scossa arrivò alle 16 e 48 provocando danni gravi a Gibellina, Partanna, Poggioreale, Salaparuta, Salemi, Santa Ninfa, Vita, Menfi, Montevago, Santa Margherita di Belice. In quegli anni questa zona della Sicilia non era considerata come sismica. In ogni caso i terremoti che si erano manifestati il 14 Gennaio avrebbero dovuto allertare la popolazione di queste cittadine del Palermitano, del Trapanese e dell’Agrigentino. Quella notte ci fu chi non rientrò a casa per dormire: e fece la scelta giusta. Chi rientrò a casa per dormire passò una notte d’interno e, in alcuni casi, ci lasciò la vita. Sul numero dei morti e di feriti mancò la chiarezza, anche molti giorni dopo il sisma. Le ore successive alle prime scosse di terremoto e i ritardi nei primi soccorsi raccontano che le autorità e l’informazione non brillavano. I danni provocati dal terremoto ci dicono, poi, che nei centri colpiti dal sisma molte delle abitazioni si sbriciolavano, mentre le strade di alcuni centri, dopo le scosse di terremoto, erano impraticabili. Nella storia di questo terremoto c’è la scossa del 25 Gennaio, molto forte, che finì di distruggere Salaparuta, Montevago e Gibellina.
La mattina del 15 Gennaio, a livello nazionale, non c’era contezza della gravità dei fatti che erano avvenuti. La televisione diede la notizia con il telegiornale delle 13 e 30. La diede storpiando il nome del fiume che, da Belìce diventò Belice con l’accento sulla prima e. All’inizio della giornata del 15 Gennaio la notizia venne sottovalutata. Man mano che passavano le ore si cominciò a capire che la situazione era grave, se è vero che arrivavano notizie frammentarie che raccontavano di paesi che erano stati praticamente inghiottiti dal sisma, come Montevago e Gibellina. I soccorsi scattarono con ritardo. I soccorritori, in alcuni centri, incontrarono difficoltà enormi, perché il terremoto aveva distrutto anche le strade di accesso. Una confusione italiana dominava sovrana nei luoghi colpiti dal terremoto a 24 ore dal sisma. Quando, dopo 48 ore, si capì che la situazione era grave, cominciò la mobilitazione. Vigili del Fuoco, Croce Rossa, Carabinieri, Esercito. Nelle zone rase al suolo dal terremoto arrivarono il presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat, e il Ministro degli Interni, Paolo Emilio Taviani. Ci furono morti anche fra i soccorritori: sette agenti di Polizia, un carabiniere e quattro Vigili del Fuoco. I feriti venivano portati negli ospedali dei centri vicini. L’ospedale di Sciacca – cittadina dell’Agrigentino dove il terremoto aveva provocato danni e paura tra la popolazione – fece un grande lavoro. Wikipedia riporta un passo dell’intervista realizzata dal Corriere della Sera al professore Giuseppe Ferrara, primario di Chirurgia all’ospedale di Sciacca: “Stavamo operando, il pavimento ci ballava sotto i piedi. Sentivo accanto a me la suora assistente che recitava le sue preghiere mentre mi porgeva i ferri, attenta e precisa come sempre […] Eravamo in sala chirurgica dalle 8 del mattino. Non c’era un momento di sosta fra un intervento e l’altro. Finito di operare un ferito ne arrivava subito un altro, qualche volte ce ne portavano due insieme e non c’era tempo da perdere perché quasi tutti erano in fin di vita. Però li abbiamo salvati e ora stanno bene […] Uno solo di tutti quelli che abbiamo operato è morto. Aveva perso le gambe ed ambedue le arterie erano recise […] Gli altri, senza una gamba, senza un braccio, li abbiamo tutti salvati. L’intervento più difficile fu una trapanazione del cranio: era una bambina di quattro anni che i vigili avevano trovato a Gibellina, fra le braccia della madre morta. Ci guardammo sconsolati: ce l’avremmo fatta? Andò bene. Adesso migliora giorno per giorno”.
Ancora Wikipedia: “Tra i 14 centri colpiti dal sisma vi furono paesi che rimasero completamente distrutti: Gibellina, Poggioreale, Salaparuta e Montevago. I paesi di Santa Margherita di Belice, Santa Ninfa, Partanna e Salemi ebbero dall’80 al 70% di edifici distrutti o danneggiati gravemente[3]. Altri paesi che hanno subito danni ingenti sono: Calatafimi Segesta, Camporeale, Castellammare del Golfo, Chiusa Sclafani, Contessa Entellina, Menfi, Sambuca di Sicilia, Sciacca, Vita”. Alcune scosse erano state forti. Ma moltissime abitazioni si sbriciolavano perché erano costruire in tufo. Nel 1968 lo Stato in Sicilia, quando c’era da intervenire per prestare aiuto, non c’era; e non c’era nemmeno la Regione siciliana, con Assemblea regionale siciliana e Governo regionale, intenti allora ai soliti giochi di potere, come del resto avviene ancora oggi. Nel 1968 le abitazioni di questi paesi erano abitate, in molti casi, da vecchi donne e bambini, perché gli uomini erano emigrati nel Nord Italia e all’estero. Oggi, oltre agli emigrati tradizionali, ci sono anche i giovani laureati che vanno via dalla nostra Isola. Per cersi versi la situazione sociale è peggiorata anche senza il terremoto. Con il terremoto del 1968 comincia la triste avventura delle baracche con i tetti in eternit che rimarranno abitate – dove più dove meno – per quasi 40 anni. Chi scrive è originario di Sciacca e ricorda la baraccopoli realizzata in contrada Stazzone (a ‘u Strazzunu, per gli sciacchitani) che rimase tale fino ai primi anni ’80. Anzi a Sciacca andò bene, se è vero che in certi paesi le ultime baracche legate al terremoto del 1968 sono state eliminate nel 2006.
Un capitolo a parte merita la ricostruzione dei paesi della Valle del Belìce, dove la disinformazione e il razzismo anti-siciliano sono stati pressoché totali. Ancora negli anni ’90 del secolo passato c’era la formula degli “eterni terremotati del Belìce”. La lettura dei fatti era che i siciliani si rubavano i soldi della ricostruzione. La verità è completamente diversa. In proporzione, per i terremotati del Friuli Venezia Giulia lo Stato ha speso una somma pari a tre volte alla somma spesa nel Belìce. Ma questo dato veniva e viene ancora oggi nascosto. Doveva prevalere la tesi – falsa – che i siciliani si ‘mangiavano’ i soldi della ricostruzione. Insomma, siciliani ladri e mafiosi. Dire che la mafia non ha messo le mani sui fondi della ricostruzione dei paesi del Belìce è sbagliato. La mafia era anche lì. Ma la ricostruzione dei paesi della Valle del Belìce è stata gestita da un ufficio che faceva capo al Ministero dei lavori pubblici: l’Ispettorato per la ricostruzione dei paesi della Valle del Belìce che, ancora alla fine degli anni ’80 del secolo passato, aveva sede a Palermo, a due passi da Piazza Croci. I ritardi non mancarono, soprattutto da parte dello Stato e della burocrazia. Ancora Wikipedia: “Gli anni che seguirono il terremoto furono costellati da appalti, buone intenzioni, proclami, stanziamenti. Fatto sta che ancora oggi non tutto è stato ricostruito; e tornano così attualissime le lotte che Danilo Dolci intraprese a favore della popolazione e contro il malaffare politico-mafioso. Leggendario l’impegno da lui profuso, le frasi scritte sui muri dei ruderi, quali: ‘La burocrazia uccide più del terremoto'” (foto sopra). La Regione siciliana ha fatto qualcosa? A metà anni ’70 sì, con un’inchiesta amministrativa voluta dall’allora presidente della Regione, il democristiano Angelo Bonfiglio. Dove venivano fuori sì responsabilità siciliane, ma anche dello Stato. Due Sindaci vanni ricordati: Ludovico Corrao, primo cittadino di Gibellina, che ha il merito di aver rilanciato questa cittadina sul piano culturale (basti pensare al Cretto di Burri e alle Orestiadi); e Vito Bellafiore che da sindaco di Santa Ninfa e da senatore si è impegnato per la ricostruzione di tutti i paesi della Valle del Belìce, denunciando in tutte le sedi la disinformazione e le ingiustizie. Entrambi erano esponenti del vecchio Pci (anche se Corrao era di origini politiche cattoliche e democristiane). Allora il Pci era un grande partito e non il vuoto politico a perdere dei suoi eredi di oggi. Chi scrive ricorda ancora un piano per il rilancio economico della Valle del Belìce commissionato in Piemonte. Come se in Sicilia non c’erano università! Anomalia che, chi scrive, segnalò in un articolo pubblicato dal quotidiano L’Ora. Questi sono i fatti. Se vi raccontiamo che ancora oggi, dopo 55 anni, ci sono paesi di questa valle che aspettano ancora il completamento dei fondi per la ricostruzione non ci crederete.