di Nota Diplomatica
Per il terzo anno di fila gli Usa affrontano un Inverno di una durezza assolutamente inconsueta. I notiziari riferiscono di 37 vittime a Buffalo, nello Stato di New York, morte per il gelo estremo. Nel Paese, le vittime del freddo sarebbero almeno 60. Sono perdite gravi, ma meno numerose delle 246 persone decedute in Texas per la ‘secolare’ ondata di freddo dell’inverno 2021. Questi eventi sono intensamente imbarazzanti per i climatologi, chiamati a spiegare come la serie di inverni disastrosi negli Usa possa coesistere con il fenomeno del riscaldamento globale, in buona parte una scoperta americana. Il termine “global warming” appare per la prima volta nel 1975, in uno studio di un ricercatore della Columbia University intitolato: “Climatic Change: Are We on the Brink of a Pronounced Global Warming?”. Che il Pianeta si stia riscaldando è fuor di dubbio, malgrado le controversie relative alla qualità dei dati portati a comprova. La questione ora, più che scientifica, è fondamentalmente politica: accettato che il fenomeno esista, che cosa dobbiamo fare? Annunci eclatanti quanto ipotetici abbondano, a partire dal proclamato divieto Ue alla vendita di nuovi automezzi a propulsione convenzionale a partire dal 2035.
È qui che c’entrano i climatologi e il pubblico americano. Gli Usa – e il sistema mediatico che parte da quel Paese – sono il ‘motore’ mondiale della preoccupazione climatica. I media sono spinti solo in parte dalle ideologie della proprietà e dei redattori. Il pubblico presta fede anche ai fatti che sente ‘sulla pelle’: e ormai da qualche anno l’Inverno è maledettamente freddo… E se la gente smettesse di credere al warming, cioè, dopo aver vissuto esperienze personali ‘freddamente’ convincenti? Urge pertanto una spiegazione del fenomeno degli Inverni duri americani che non smentisca la realtà consolidata del riscaldamento planetario o, meglio ancora, che dimostri come sia proprio il riscaldamento la causa di questi inverni terribili.
Non sorprende dunque che improvvisamente rispunta sul Washington Post uno studio una volta considerato ‘screditato’ ma che ora torna comodo, la cui tesi è che il riscaldamento delle zone artiche a nord degli Usa potrebbe forse deviare il flusso dei venti d’alta quota, il cosiddetto ‘jet stream’, spingendo a volte il gelido clima polare verso sud. Nei fatti, le prove scarseggiano, ma è un’ipotesi che al momento ‘serve’. L’episodio richiama, seppure in maniera indiretta, la storia infelice di Al Gore, candidato alla Presidenza Usa contro George W. Bush nel 2000. Dopo la sconfitta, si fece crescere la barba e decise di fare l’eco-warrior, predicando il disastro climatico in arrivo. Ottenne però fortune molto alterne, specialmente perché – almeno secondo la ‘conoscenza comune’- ogni volta che si presentava per tenere una conferenza, immancabilmente veniva accompagnato da una bufera di neve. Iella, non colpa sua, ma lui cambiò carriera, trovando più conveniente fare l’imprenditore televisivo…
Foto tratta da La Sicilia
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