Alla guerra in Ucraina, alle altre guerre in corso nel mondo, alla guerra che cova nel cuore dell’Europa tra Serbia e Kosovo e ai venti di guerra che spirano a Taiwan si aggiunge in queste ore un’altra guerra: quella per il petrolio. L’Occidente per cercare di mettere in difficoltà la Russia – di fatto vincente su tutta la linea nel conflitto in Ucraina – ha tirato fuori il price cape sul petrolio russo per provare a colpire gli introiti di questo Paese. In pratica, i Paesi del cosiddetto G7, l’Unione europea e l’Australia hanno concordato un prezzo massimo di 60 dollari al barile per il greggio russo trasportato via mare. L’iniziativa, in vigore dal 5 Dicembre, dovrebbe ridurre gli introiti russi. La risposta di Putin non si è fatta attendere e in queste ore il presidente della Russia ha firmato un decreto con il quale, a partire dall’1 Febbraio, blocca le esportazioni di petrolio verso i Paesi che utilizzano il price cap. Da stime ancora da definire, la Russia – che è un grande esportatore di petrolio nel mondo – potrebbe ridurre la produzione del 7%. “Secondo il documento – leggiamo su un canale Telegram – la fornitura di petrolio e prodotti petroliferi russi a persone giuridiche e persone fisiche straniere è vietata se i contratti per tali forniture prevedono l’introduzione di un prezzo massimo”. Chi pensava all’inizio di un processo di pace nella guerra che vede contrapposti non Russia e Ucraina ma Russia e Occidente è servito. In prospettiva, per il 2023, non c’è alcuna pace ma, al contrario, un intensificarsi della guerra che potrebbe allargarsi ad altri fronti, a cominciare da uno scontro sempre più vicino tra Kosovo appoggiato dagli Stati Uniti (e dall’Unione europea?) e la Serbia sostenuta dalla Russia (e dalla Cina?).
Che effetti avranno le due mosse, il price cape sul petrolio russo e la risposta della Russia? Il Ministro delle Finanze russo, Anton Siluanov, dice che il deficit di bilancio del suo Paese potrebbe intaccare il 2% del PIL (Prodotto Interno Lordo) il prossimo anno. Ma è una stima molto pessimista e, in ogni caso, gli effetti si vedranno nei prossimi mesi. La guerra del petrolio che l’Unione europea ha dichiarato alla Russia si inserisce in un contesto inflazionistico. Com’è noto, la Cina ha iniziato a eliminare le restrizioni anti-Covid. Cosa, questa, che ha fatto aumentare i consumi di petrolio nella stessa Cina. E poiché la Cina con il suo miliardo e 400 milioni di abitanti circa è uno dei massimi consumatori di petrolio del mondo, il prezzo del petrolio è schizzato all’insù. Un altro fattore che sta determinando un aumento della domanda di petrolio è l’ondata di gelo che ha colpito gli Stati Uniti d’America. Il freddo che ha colpito l’America ha costretto questo Paese a ridurre la prodizione di petrolio: altro elemento che sta facendo crescere il prezzo del petrolio nel mondo. Ieri mattina, leggiamo in una nota dell’ANSA, “il barile Wti con consegna a Febbraio è stato scambiato a 80,25 dollari con un aumento dello 0,87% mentre il Brent sempre con consegna a Febbraio” è passato “di mano a 84,65 dollari al barile con un aumento dello 0,87%”.
C’è chi parla del prezzo del petrolio a 100 dollari al barile. Anche se Dmitrij Medvedev, vicepresidente del Consiglio di sicurezza della Federazione Russa, preconizza, tra qualche mese, il prezzo del petrolio a 150 dollari al barile. Chi pensava a una riduzione dell’inflazione – comp0lici i pesantissimi innalzamenti dei tassi di interesse ad opera FED (Banca Centrale americana) e della BCE (Banca Centrale Europea) è servito. Con il petrolio a 150 dollari al barile l’inflazione, piuttosto che ridursi, potrebbe continuare ad aumentare. la sensazione è che Cina, Russia e Paesi e, in generale, i Paesi petroliferi del mondo arabo stiano giocando di ‘sponda’ per far schizzare all’insù il prezzo del petrolio. Ricordiamo che i Paesi del Golfo e l’Arabia Saudita non sono più in linea con gli Stati Uniti d’America ma ormai ‘viaggiano’ in sintonia con Cina e Russia. Ad aiutare Russia e Cina ci si mette anche il clima, se è vero che, come già ricordato, l’ondata di gelo ha costretto gli Stati Uniti a ridurre la produzione di petrolio (il Texas è stato costretto a ridurre di un terzo la propria capacità di raffinazione).
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