di Maddalena Albanese
“Bellissimo questo Tabernacolo!”. Così pensavo alcuni anni fa davanti al Tabernacolo in lapislazzuli, dove è posto il Santissimo, che si trova a destra dell’altare maggiore della nostra Cattedrale. “Tanto simile a quello della ‘Cappella del Borremans’ della Curia”. Ero già nell’età di osservare ciò che vedevo, ma ancora non conoscevo anche solo quel poco che conosco adesso di storia dell’arte e di storia di Palermo. Dicono che la conoscenza sia sofferenza: mai stato più vero questo
Certo, come sempre avviene, i venti culturali servivano molto più prosaicamente a nascondere le tempeste economiche, in questo caso della nuova Casa Regnante italiana, i Savoia, che cercava fondi a destra e a manca per colmare i giganteschi ‘buchi’ finanziari delle proprie banche. In tale ottica infatti dobbiamo vedere i vari processi di esproprio dei beni ecclesiastici, le cui vendite servivano per rimpinguare le disastrate ‘casse’ savoiarde. Proprio da queste vendite sono nati alcuni titoli nobiliari posticci con annesse proprietà, non ultimo, ad esempio, il titolo di Duca di Verdura. Nella migliore delle ipotesi gli acquirenti dei titoli erano ricchi commercianti, nella peggiore erano dei parvenus affacciatisi da poco alla ribalta della “buona società”, in virtù di denari raccogliticci, frutto a volte anche delle recenti scorribande legate alla conquista del Sud, quella stessa conquista spacciata per la tanto agognata Unità di Italia. Così, chi si voleva dare una “ripulita”, acquistava i beni ecclesiastici espropriati a mano bassa e messi in vendita dall’esimia Casa Regnante, infiocchettati da un titolo nobiliare inventato alla bell’è meglio. Oplà!, savoiardi più ricchi e nuovi italiani tirati a lucido, a discapito di una ricchezza, non ultimo culturale, retaggio di una storia secolare, frantumata in modo scellerato per soddisfare le prosaiche esigenze di un gruppo di oppressori travestiti da liberatori.
Il Monastero di San Francesco alle Stimmate, nella fattispecie, era nato nel 1602 ad opera di Fabrizio Branciforte, Principe di Butera, primo titolo del Regno, grande di Spagna, e della sua consorte, per accogliere una loro figlia, che era già suora di clausura e che apparteneva ad un altro monastero, il Monastero della Pietà. Questo era sito vicino le mura sud-est di Palermo ed inglobava l’attuale Palazzo Abatellis. L’ironia della sorte o, se vogliamo in maniera più filosofica, un ricorso storico, condusse, poi, tutte le figlie del Monastero delle Stimmate a rifugiarsi proprio presso questo stesso il Monastero della Pietà, quando vennero scacciate dalla loro proprietà dopo il 1866, l’anno della Rivolta del Sette e Mezzo. Infatti durante questa rivolta il Monastero venne tramutato in fortino dai
La chiesa del complesso monastico era, secondo le descrizioni pervenuteci, un gioiello del Barocco e del Rococò palermitano con tele e affreschi del Borremans e del Duhrer, con stucchi del Serpotta, con suppellettili in legno e in pietre dure (tra le quali il tabernacolo in lapislazzuli di cui sopra) di pregevole fattura artigianale siciliana. Quasi subito dopo la sua costruzione e l’approvazione pontificia, il Monastero di San Francesco alle Stimmate cominciò ad essere chiamato “il Monastero delle Dame”, soprattutto a motivo dell’operato della prima madre badessa, Suor Girolama Marino, che stabilì che le suore non dovessero essere più di cinquanta e che dovevano sempre essere scelte nella più pura (leggasi facoltosa) aristocrazia palermitana. Divenne così punto di incontro, non solo religioso, ma anche mondano della nostra lussuosa aristocrazia nelle festività religiose, quando era opportuno mostrarsi devoti senza comunque perdere l’occasione di mantenere le giuste alleanze sociali.
In un’area vicina era presente il monastero di regola teatina intitolato all’Immacolata Concezione con la chiesa di San Giuliano ed inoltre, lì vicino, era anche presente la Chiesa di Sant’Agata, costruita, quest’ultima, secondo la tradizione, sulla casa di proprietà della famiglia della Santa ed in cui la stessa venne arrestata per essere tradotta a Catania dove sarebbe stata martirizzata. La prima delle due chiese, costruita in stile barocco, era associata al monastero di regola teatina dell’Immacolata Concezione, ed era andata a sostituire la precedente piccola chiesa di San Giuliano appartenuta all’omonima confraternita a metà del XIV secolo, edificio rimasto poi inglobato nel fabbricato del monastero. La chiesa barocca presentava un impianto e cupola ellittica, splendida e altissima, dalla cui lanterna si accedeva al belvedere protetto da una ringhiera in ferro. Questo permetteva alle pie donne di vedere, senza infrangere la clausura, tutta la Conca d’Oro dalle colline al mare insieme al tappeto di tetti del centro storico di Palermo. Il magnifico belvedere venne perfino aperto al pubblico nel 1756 per fare ammirare anche ai palermitani questo panorama veramente unico. La chiesa di San Giuliano era coeva alla costruzione dell’Oratorio del Santissimo Salvatore ed era stata ideata ed abbellita nei decori della facciata dallo stesso insigne architetto, Paolo Amato. Conteneva al suo interno due opere funerarie in onore di insigni prelati siciliani, arricchite da sculture di Ignazio Marabitti. Almeno queste si sono salvate e sono allocate in una parte del transetto della chiesa di San Domenico. Purtroppo possiamo solo fare riferimento agli storici dell’arte, non potendo ormai più godere di tanta bellezza.
Altre vittime illustri dell’erigendo Teatro Massimo furono la Chiesa di Sant’Agata, la Chiesa di Santa Marta, e il Monastero di San Vito, costruzione questa che oggi troveremmo al posto della Caserma dei Carabinieri. Allora si potrebbe dire: “Eh! Ma un Teatro degno di Palermo ci voleva!” Sicuramente. Anche i Borboni ci avevano pensato ed avevano individuato un’area adatta allo scopo vicino Piazza Marina ed avevano pensato di intitolarlo a Ferdinando II. Cambiati i regnanti, cambia la sede ed il titolo: quale posto migliore di quell’area fine via Maqueda, che si trovava al centro di Palermo, che permetteva di abbattere in un colpo solo tre simboli dell’oscurantismo religioso, di rastrellare e vendere un po’ di opere d’arte e di fare cassa (non guasta mai!) dietro la scusa di eliminare vecchi ed inutili edifici! Tutto solo per fare posto alla nuova luce della ragione umana e dei suoi più nobili frutti: la Civiltà e la Cultura. Peccato che in nome della Civiltà, come purtroppo spesso capita, si compì, anche in questo caso, un atto di esecranda inciviltà: tutte le tombe delle suore, che avevano ricetto nelle cripte dei monasteri che erano state le loro case da vive, con i loro resti mortali, vennero scavate, svuotate e gettate tra i rifiuti insieme al materiale di risulta dei cantieri edilizi.
Tra queste tombe, purtroppo per i costruttori, c’era quella della nostra Suor Girolama Marino, prima Badessa delle Clarisse, che si rivelò da morta, come da viva,
Come possiamo notare a Palermo è sempre la stessa storia. Era chiamata la “città delle trecento moschee” e Federico II, dietro apparenti motivazioni religiose, le distrusse tutte. Si racconta che pianse una notte intera prima di dare un tale ordine, ma la simpatia per la cultura musulmana non lo fece minimamente deviare della propria linea politica. A fine XIX secolo resisteva ancora una splendida tenuta chiamata il Firriato di Villafranca e venne rasa al suolo per ottenere l’area dedicata all’Esposizione Universale del 1901, per tracciare la prima tranche di Via Libertà e per operare la lucrosa lottizzazione da cui nacque il quartiere che si trova tra la stessa Via Libertà e Via Marchese di Villabianca. A cavallo della fine del XIX secolo e l’inizio del XX tutto il quartiere della Conceria venne sventrato e raso al suolo per fare posto alla Via Roma, prevista nel Piano Giarrusso “come un coltello che doveva tagliare la città” dalla Stazione Centrale fino alle prime zone di espansione nord (piazza Sturzo). Il piano Giarrusso prevedeva due “coltelli”: uno, quello che abbiamo visto, che tagliava i mandamenti Castellammare e Kalsa, con una strada parallela alla via Maqueda. Un altro, sempre parallelo alla Via Maqueda, che avrebbe dovuto tagliare i mandamenti Palazzo Reale e Monte di Pietà.
Questa seconda strada (per fortuna!) non venne mai realizzata.
Negli anni Sessanta del XX secolo, in pochi giorni vennero atterrati, nel cosiddetto “sacco di Palermo”, i villini in stile liberty della via Libertà per fare posto alle smanie palazzinare di Ciancimino & Co e per permettere a vari privati cittadini di vendere i loro beni, non ancora sotto tutela, di trasformare tutta la zona di Via Libertà in area edificabile e di guadagnarci denaro sonante. Anche Villino Deliella fu una delle vittime illustri di questa strage ed anche in questo caso con la connivenza dell’ultimo dei proprietari. Venne abbattuto in fretta e furia in pochi giorni grazie alla complicità di una decisione del Consiglio comunale, presa appena in tempo, prima che maturassero i tempi per porre Villino Deliella sotto tutela dell’assessorato regionale ai Beni Culturali. I lavori di smantellamento furono iniziati il pomeriggio stesso della seduta del Consiglio. E dove c’era lo splendido Villino Deliella, adesso possiamo ammirare un ampio parcheggio con lavaggio auto annesso, di pregevole e desolante fattura post moderna.
Ora tutti ci indigniamo per questi eventi della storia recente e non, ci scriviamo libri, articoli alla memoria. Ma ci indigniamo sempre per il passato, non facciamo mai nulla per tutelare ciò che ancora abbiamo: abbiamo permesso che venisse devastata piazza Castelnuovo, abbattendo dei miti e centenari alberi che chiedevano solo di fare ombra e dare un certo tono alla città, per costruire un passante o un anello ferroviario o giù di lì. E adesso, non ci sono più quei magnifici alberi che
Comunque siamo sicuri che, quando sarà troppo tardi, qualcuno su Via Libertà scriverà l’ennesimo libro alla memoria…
Foto di prima pagina tratta da Pinteres