A cura della Redazione RAE (Rete Attivisti Equità)
Tra le iniziative messe in campo l’anno scorso per il 25 Aprile, l’ANPI ha voluto che vi fosse, causa pandemia, almeno un evento dal vivo, “Strade di Liberazione”, invitandoci a deporre, nel rispetto delle norme anti-Covid, un fiore sotto le targhe che ricordano i partigiani nei diversi Comuni italiani. Un’iniziativa semplice per cui, i cittadini, nei tanti Comuni del Centro-Nord, che hanno aderito all’appello dell’ANPI non hanno avuto che l’imbarazzo della scelta. Non è stato, purtroppo, così ovunque in questo Paese. Soprattutto al Sud, privo, in larga parte, di questa memoria. Chi in Calabria, ad esempio, avesse voluto onorare la memoria di Rocco Marra da Sant’Alessio in Aspromonte non ha potuto deporre un fiore su una targa perché quell’amministrazione comunale non ha mai pensato di dedicargliene una. Una storia della Resistenza nel Mezzogiorno, in effetti, non è stata mai scritta. Di tutto quanto avvenne dal 1943 sotto la linea di Montecassino, si ricordano soltanto le quattro eroiche giornate di Napoli della fine di settembre. Eppure nel periodo dell’occupazione tedesca, in Campania, Sicilia, Puglia, Lucania e Abruzzo si verificarono numerosi episodi spontanei di resistenza militare e civile ai fascisti ed ai tedeschi. Pochi sanno della battaglia di Barletta o delle insurrezioni di Matera, di Scafati, di Teramo e di Lanciano, che videro la partecipazione di larghi strati della popolazione. Solo di recente alcuni studiosi (Gloria Chianese, Aldo De Jaco) stanno tentando di colmare questo vuoto storiografico, mettendo in discussione la vulgata ufficiale che contrappone “il vento del Nord” all’immobilismo del Sud.
I primi episodi di “Resistenza” si erano registrati nel ’42, nelle campagne della Calabria, del Cilento, della Lucania e del Foggiano, sotto la forma – inquadrata storicamente da politici (Aldo Moro) e da studiosi (Gallerano, Santarelli) – delle ribellioni contro le violenze squadriste. Si trattò di movimenti che assunsero maggiore consistenza dopo lo sbarco alleato in Sicilia (10 luglio 1943), e che ebbero un prevalente carattere di lotta sociale, anche se non mancarono i contadini che attaccarono i tedeschi in ritirata, recuperando le armi lasciate sul campo dall’esercito italiano. I casi di eccidi di civili o di militari da parte dei tedeschi furono assai numerosi, in ogni parte del Sud. Il primo eccidio si verificò il 12 agosto del ’43, a Castiglione di Sicilia, dove i nazisti in ritirata massacrarono sedici persone e ne ferirono venti. A differenza che per le stragi tedesche nel Centro-Nord, che nel dopoguerra sono state oggetto di indagini giudiziarie e di commemorazioni ufficiali, nel Mezzogiorno invece vi è stato un generale processo di rimozione della memoria di questi episodi criminali. L’opposizione al nemico da parte dei meridionali nacque “in primo luogo come reazione al terrore tedesco”, e fu “strettamente connessa agli eccidi” e all’atteggiamento tracotante dell’esercito occupante. Fu questo il caso anche delle quattro giornate di Napoli, che iniziarono il 27-28 settembre come reazione ai rastrellamenti operati dalle SS (con l’internamento di 18.000 persone) e all’ordine di sgomberare tutta l’area occidentale cittadina. Ma la rivolta partenopea, che costò la vita a 562 napoletani, non deve essere considerata un fatto isolato. Essa fu preceduta e seguita da un insieme di veri e propri momenti insurrezionali aventi carattere popolare: impugnarono le armi contro i tedeschi gli abitanti di Matera (21 settembre), di Teramo (25-28 settembre), di Ascoli Satriano (26 settembre), di Nola (26-29 settembre), di Scafati (28 settembre), di SerraCapriola (1 ottobre), di Acerra (1 ottobre), di Santa Maria Capua Vetere (5-6 ottobre), di Lanciano (5 ottobre). A Maschito, un paese in provincia di Potenza, la popolazione si ribellò contro la guerra e la monarchia costituendo addirittura una “repubblica”.
Il contributo del Mezzogiorno alla guerra di Liberazione non fu limitato alle rivolte popolari. Migliaia furono i meridionali che militarono nelle formazioni partigiane sulle Alpi e sugli Appennini. Purtroppo non esistono stime precise al riguardo, ma nell’immediato dopoguerra lo storico piemontese Augusto Monti arrivò ad affermare che “le formazioni partigiane che, militarmente organizzate, agirono contro i tedeschi e i loro alleati, sui monti che fan ghirlanda alla pianura del Po (…) furono almeno per un quaranta per cento costituite di ‘uomini del Mezzogiorno'”. Al di là dell’aspetto strettamente “storiografico” partigiani sono stati gli uomini e le donne che in tutte le maniere fecero Resistenza, in armi o con dinamiche di supporto e assistenziali, al dominio ideologico e militare che i nazifascisti volevano continuare ad imporre all’Italia dopo gli anni catastrofici della guerra scatenata in nome della “razza eletta”. Quindi, l’immagine di un Mezzogiorno conservatore e filofascista, è chiaro, non corrisponde a realtà. Il lavoro di recupero della memoria degli episodi di resistenza meridionale compiuto negli ultimi anni colloca il Sud nel contesto nazionale e fa della guerra di Liberazione un valore nazionale nel senso pieno del termine. Sarebbe comunque oggi doveroso far luce su questo frammento di verità dimenticata, riportando a galla, simbolicamente, tutti quei caduti ancora non codificati che morirono due volte, la prima perché fucilati, trucidati, impiccati o martoriati; la seconda perché dimenticati. É quindi innegabile, oggi, che tanti furono i meridionali che, in svariati modi, contribuirono alla liberazione del Paese ed alla costruzione delle basi della Repubblica. La lista sarebbe molto lunga, ma possiamo, anzi dobbiamo, sicuramente ricordarne alcuni a titolo di esempio ed in nome di tutti quegli altri di cui si è persa memoria.
Mario Alicata (Reggio Calabria). Tra gli esponenti più attivi dell’organizzazione comunista romana. Nei mesi dell’occupazione nazista, Mario Alicata curò l’edizione clandestina del giornale del suo partito il PCI. Dopo la Liberazione, entrato nel Comitato centrale del PCI, diresse dapprima La Voce di Napoli e poi la redazione romana de l’Unità. Nel 1945 fu assessore nella Giunta del CLN del Comune di Roma e, nel 1946, fu consigliere comunale a Napoli e membro del direttivo di quella Federazione comunista. Divenuto segretario regionale del PCI campano, fu in prima fila nella battaglia per la rinascita del Mezzogiorno e alla testa delle lotte contadine per l’occupazione delle terre. Condirettore de La Voce del Mezzogiorno, Alicata fu anche membro del Comitato nazionale per la rinascita dell’Italia meridionale. Nel 1952 fu sindaco di Melissa (Crotone) e nel 1954 fondò, con Giorgio Amendola, Cronache meridionali.
Ignazio Buttitta (Bagheria- Palermo) poeta dialettale e cantastorie. Trasferitosi a Milano, unì l’impegno letterario ad una fortunata attività commerciale sino a che, allo scoppio della guerra, non si trasferì a Cologno Monzese per entrare nella Resistenza. Partigiano nelle “Matteotti”, il poeta siciliano fu arrestato dai repubblichini nel marzo del 1945. Riuscito ad evitare la condanna a morte, Buttitta, dopo la Liberazione tornò in Sicilia.
Pompeo Colajanni (Caltanissetta). Ufficiale di cavalleria durante la seconda guerra mondiale, subito dopo l’8 settembre del 1943 organizzò in Val Po, presso Borgo San Dalmazzo, con i suoi soldati, altri ufficiali e civili, una delle prime bande partigiane (il distaccamento “Pisacane”), da cui si sarebbero poi sviluppate, brigate, divisioni e raggruppamenti di divisioni. Assume come nome di battaglia quello di un medico socialista, Nicola Barbato, fondatore dei Fasci siciliani e perseguitato per le sue battaglie in difesa dei diritti dei lavoratori. Il nome di “Barbato”, divenuto comandante della VIII Zona (Monferrato) e vicecomandante del Comando militare regionale piemontese, divenne presto leggendario per le imprese delle formazioni al suo comando e per la competenza militare. Nell’approssimarsi dell’insurrezione generale, Colajanni, che intanto aveva liberato Chieri, ebbe il compito di liberare Torino, coordinando le formazioni Garibaldi, GL, Matteotti e Autonome. Memorabile, in questa circostanza, l’incontro tra “Barbato” e il capitano Schmidt, dei servizi di sicurezza tedeschi che, in nome dell’ambasciatore Von Rahn, voleva trattare una tregua. “Ho poteri per combattere o per accettare la vostra resa senza condizioni”, disse “Barbato”; “Faremo
fare a Torino la stessa fine di Varsavia” replicò Schmidt. Il mattino del 28 aprile Torino era completamente liberata e Colajanni veniva designato vicequestore. Pochi mesi dopo “Barbato” era sottosegretario alla Difesa nel governo Parri e lo fu anche nel primo governo De Gasperi.
Armando Grimaldi (Catania). Tra i liberatori della città di Genova. Col nome di battaglia di “Nando” aveva combattuto contro i nazifascisti in Garfagnana, meritando una medaglia al valore per il contributo dato alla Resistenza. ”Nando” ha avuto un ruolo di primo piano anche nella liberazione della città di Genova, dove un’intera Divisione nazista al comando del generale Meinhold si arrese ai suoi partigiani all’alba del 26 aprile 1945.
Franca Scaramellino (Vico Equense- Napoli). Nel 1943 segue il marito, funzionario, ad Aosta, entrando successivamente a far parte della 87 Brigata partigiana con il compito di fornire notizie alle formazioni ed aiutando i singoli partigiani. Scoperta, nell’agosto del 1944, viene arrestata e quindi deportata in Germania. Internata a Ravensbruck. Durante l’internamento lavora per un periodo presso il campo di Hennigsdorf e poi in una fabbrica di munizioni vicino a Berlino. Nel novembre 1944, stremata nel fisico e incapace di lavorare, viene riportata a Ravensbruck. Sopravviverà al lager e riuscirà a tornare in Italia nell’agosto del 1945.
Girolamo Valenti (Valguarnera Caropepe-Enna). Nel 1911 si era trasferito negli Stati Uniti, cominciando lì a scrivere per i giornali stampati in lingua italiana per i nostri emigrati. Allo scoppio del Secondo conflitto mondiale il giornalista collaborò con l’OSS (Office of Strategic Services) per creare in Italia una rete di appoggio tra le forze partigiane e gli Alleati.
Don Paolo Liggeri (Augusta-Siracusa). Nel settembre del ’43, dopo i bombardamenti che avevano colpito Milano, dove era stato anni prima ordinato sacerdote, don Liggeri organizza, in via Mercalli, un centro di assistenza sociale chiamato “La casa” per assistere coloro che avevano avuto distrutta la propria abitazione; a questo, si aggiunse anche l’ospitalità offerta ai perseguitati politici e razziali e, in collegamento con Radio Vaticana, la registrazione e l’inoltro di messaggi ai familiari di militari prigionieri o dispersi. È stato calcolato che da “La casa” siano stati trasmessi (fungeva da antenna della trasmittente clandestina un filo che pendeva da un parafulmine), oltre 172.000 messaggi. Il 24 marzo don Liggeri finisce nelle mani dei fascisti e per lui, dopo una sosta nel carcere di San Vittore, comincia la trafila campo di Fossoli, lager di Mauthausen, di Gusen, di nuovo Mauthausen e, infine, lager di Dachau. Liberato dalle truppe americane il 29 aprile 1945, il sacerdote torna in Italia e riprende la sua opera a “La casa”. Al tempo stesso pensa alla creazione di quello che, nel 1948, diventerà il primo Consultorio familiare prematrimoniale e matrimoniale costituito in Italia.
Riccardo Lombardi (Regalbuto-Enna). Nel 1930, per aver partecipato ad una manifestazione di protesta delle fabbriche milanesi, Lombardi è aggredito da una squadra di picchiatori fascisti, che lo massacrano di botte. È arrestato dalla polizia e subirà per tutta la vita le conseguenze del pestaggio. Lombardi diventa uno dei più attivi dirigenti del movimento di “Giustizia e Libertà” e sarà, poi, tra i fondatori del Partito d’Azione. Lombardi getterà, insieme a rappresentanti milanesi di partiti antifascisti, le basi di quello che sarà il Comitato nazionale d’azione antifascista. Quando si trasformerà nel CLNAI, Lombardi vi rappresenterà il Partito d’Azione. Il 25 aprile 1945, anche Lombardi partecipa alla riunione in Arcivescovado, nella quale si chiederà a Mussolini la resa incondizionata delle forze fasciste. Nella notte tra il 25 e il 26 aprile, Riccardo Lombardi assume le funzioni di prefetto di Milano. Dopo la Liberazione è ministro dei Trasporti nel primo governo De Gasperi. Eletto alla Costituente nel 1946, in quello stesso anno diviene segretario del Partito d’Azione, che dirige sino al suo scioglimento, nell’ottobre del 1947.
Vincenzo Modica (Mazara del Vallo-Trapani) . Con il nome di battaglia “Petralia”, Modica è comandante della 4^ Brigata Partigiana Cuneo e nel novembre, in seguito alla crescita delle formazioni, diventerà comandate della I Divisione. Ferito gravemente durante un’azione di controllo viene ricoverato in ospedale da dove riuscirà a fuggire. Parteciperà alla liberazione di Torino, a lui verrà affidata la bandiera del Cln che apre la sfilata delle formazioni partigiane davanti alla popolazione e ai comandi alleati il 6 maggio 1945.
Quirino Mascia (Sernobí-Cagliari). Emigrato a Venaria in Piemonte, entra nelle formazioni partigiane delle Valli di Lanzo già dal novembre 1943, divenendo, con il nome di battaglia “Cavallino bianco” caposquadra di un distaccamento della 11 Brigata Garibaldi. Durante un rastrellamento viene catturato il 9 marzo 1944 nella zona di Pessinetto, riconosciuto e denunciato da un capo manipolo della GNR , che era stato catturato dai partigiani il 26 febbraio 1944 sulla corriera per Ceres, viene fucilato per rappresaglia assieme ad altri 26 compagni al Pian del Lot sul Colle della Maddalena il 2 aprile 1944. La strage del Pian del Lot è il più grave atto di rappresaglia compiuto da tedeschi e fascisti nell’area torinese durante la lotta di liberazione. Con Mascia furono fucilati altri due partigiani garibaldini meridionali: Ugo Amedeo Salvitto (Max) di San Severo (Foggia) e Ernesto Orazio Speranza (Visconti), di Agira (Enna).
Ettore Troilo (Torricella Peligna-Chieti). Nei giorni 10 e 11 settembre 1943 partecipò alla difesa di Roma combattendo contro i nazisti. Ad occupazione avvenuta si diresse verso il suo paese natale, Torricella Peligna, ove venne catturato da militari tedeschi, riuscendo tuttavia in seguito a fuggire. Alla fine del 1943 iniziò a raggruppare elementi partigiani in una banda armata che prese il nome di Patrioti della Maiella, poi evolutasi militarmente sotto il suo comando come Brigata Maiella, formazione che avrà un ruolo di primo piano nel corso della lotta di liberazione dell’Italia, dal febbraio 1944 fu inquadrata nella 209ª Divisione di fanteria del rinato esercito italiano, combattendo al fianco delle truppe alleate dall’Abruzzo fino liberazione delle Marche, dell’Emilia-Romagna e del Veneto. La brigata si sciolse dopo la guerra, nel luglio 1945, e Troilo divenne ispettore del Ministero dell’assistenza postbellica. Nel gennaio 1946 fu nominato prefetto di Milano dal governo De Gasperi, succedendo a Riccardo Lombardi divenuto ministro dei Trasporti. In seguito fu nominato, presso l’ONU, ministro plenipotenziario dell’Italia per i problemi dell’informazione.
Rocco Marra (Sant’Alessio in Aspromonte-Reggio Calabria). Marra è un giovanissimo operaio delle Officine Savigliano, emigrato l’anno prima dalla sua Calabria in cerca di fortuna a Torino. La sera del 25 gennaio ’44, insieme a quattro dei suoi compagni, prende la via della montagna. Il coraggio e la determinazione mostrati valgono a Marra, nonostante la giovanissima età, il ruolo, con il nome di battaglia di “Leone”, di caposquadra nell’80a Brigata Garibaldi. Il 5 settembre scatta l’operazione Strassburg, un’imponente operazione che unisce tedeschi e fascisti nel rastrellamento anti-partigiano sulle montagne sopra Lanzo. Il 13 un reparto tedesco, informato della presenza di Leone e dei suoi compagni in una villa abbandonata, cannoneggia dal basso la base partigiana. Leone sarà trovato morto con una granata in mano nel tentativo di un’impossibile difesa. Le sue spoglie sono custodite in una cella del Sacrario dei Partigiani al Cimitero Monumentale di Torino ma sulla targa è stato scritto “partigiano ignoto 1944” in quanto all’epoca del ritrovamento non fu possibile distinguerla da quella di altri suoi compagni.
Anna Cinanni (Gerace Superiore-Reggio Calabria). Dopo la morte del padre la famiglia si trasferì a Torino. Fu staffetta, con il nome di battaglia di “Cecilia” tra Torino e Cuneo, poi anche nelle province di Asti, Alessandria, Vercelli, Novara e tra il Cln Alta Italia e Milano. Nel febbraio 1945 venne arrestata a Vercelli. Subito dopo, insieme ad altri giovani, venne portata alla caserma delle Brigate nere e messa in una cella. Durante l’interrogatorio subì ripetute violenze fisiche, ma, nonostante questo, riuscì a non tradirsi ripetendo sempre la stessa versione dei fatti. Dopo dieci giorni passati nella caserma delle Brigate nere, dove subì altri interrogatori e sevizie, venne trasferita nel carcere della questura di Vercelli. La presenza nel carcere di una guardiana antifascista permise ai partigiani di assicurarsi che la donna arrestata fosse la Cinanni e anche di pianificare il suo rilascio attraverso lo scambio di 10 prigionieri; ma la liberazione della città di Torino le aprì in anticipo le porte del carcere.
Fonti:
ISTITUTO PIEMONTESE PER LA STORIA DELLA RESISTENZA
E DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA’GIORGIO AGOSTI’
Banca dati del Partigianato meridionale
Meridionali e Resistenza Il contributo del Sud alla lotta di
Liberazione in Piemonte 1943-1945
A cura di Claudio Dellavalle
Presidente dell’Istituto Piemontese per la Storia della Resistenza
e della Società Contemporanea “Giorgio Agosti”
ANPI – Donne e uomini della Resistenza
Foto tratta da Il Quotidiano del Sud