La situazione del mercato del grano è divenuta oltremodo grave. I nostri lettori lo sanno perché ne scriviamo con cadenza quasi quotidiana. Quando iniziammo a scriverne, intervistando Giuseppe Li Rosi, Cosimo Gioia, e Mario Pagliaro, ci seguivano in pochi. Passioni di qualche siciliano, pensavano. Oggi ci chiamano colleghi da ogni parte d’Italia. Siamo dunque tornati a sentire proprio Pagliaro che, oltre a prevedere gli aumenti dei prezzi del grano, fra i primi a parlare proprio con noi di razionamenti del grano. E ci siamo quasi, se è vero che alcuni Paesi del mondo hanno già bloccato le esportazioni di grano, in parte a causa della guerra in Ucraina, in parte perché in alcune aree del mondo persiste la siccità – per esempio nel Nord America, in alcune aree del Sudamerica e anche nel Nord Italia – e si temono effetti negativi sulle produzioni agricole provocati dal clima, come avvenuto lo scorso anno. Con Pagliaro abbiamo più volte parlato di rinascita dell’IRI, l’Istituto per la Ricostruzione Industriale, stupidamente sbaraccato agli albori della Seconda Repubblica. Oggi si torna a parlare del possibile ritorno dell’IRI, che questa volta si dovrebbe occupare, oltre che di ricostruzione industriale, anche di agricoltura e, in particolare, di coltivare grano. Oggi torniamo a fare il punto della situazione con Pagliaro.
Dall’ultima volta che ci siamo sentiti, è scoppiata la guerra fra Russia e Ucraina, ovvero due fra i maggiori esportatori di grano al mondo. Le chiediamo ciò che chi chiediamo tutti: ora cosa succederà alla produzione italiana di pasta, pane, farina, e delle decine di farinacei che tutti consumiamo?
“La situazione è molto delicata e richiederà non solo il monitoraggio, ma un intervento diretto del governo. La Russia, maggiore produttore mondiale e grande Paese esportatore di grano, ha vietato ogni esportazione fino al 31 di Agosto. Tutti i Paesi nordafricani, in testa Egitto e Algeria – Paesi con grandi popolazioni – sono letteralmente nutriti dal grano in arrivo da Russia e Ucraina. Oltre ad un ulteriore aumento dei prezzi dovuto alla carenza di offerta rispetto alla domanda, è verosimile che in questi Paesi sarà inevitabile ricorrere al razionamento. Allargando lo sguardo, notiamo che anche l’Ungheria ha subito vietato l’esportazione di grano. È facile che sia seguita presto da altri Paesi produttori europei. I Paesi nordafricani da tempo stanno importando grano dal Nordamerica, incluso il Messico. Se il blocco delle esportazioni dall’ex blocco sovietico continuerà, il Nordafrica si troverà a dipendere pressoché integralmente dal Nordamerica, da cui da molti anni attingeva l’industria italiana della pasta. A quel punto, gli esportatori dovranno scegliere a chi inviare il grano, e non sarà più solo una questione economica ma diverrà, a tutti gli effetti, una questione geopolitica”.
Senta, noi non abbiamo alcuna fiducia nel Governo di Mario Draghi, che a nostro avviso sta conducendo l’Italia al collasso. Un Governo del futuro, diverso dall’attuale, cosa dovrebbe fare in una situazione simile?
“Dovrebbe vietare subito le esportazioni di grano, e intervenire immediatamente sul versante della produzione per farla aumentare rapidamente e in modo significativo. Esistono molti modi per farlo: incentivi diretti agli agricoltori sotto forma di un corrispettivo in denaro per ogni kg di grano prodotto. Divieto di installazione di campi fotovoltaici sui terreni agricoli. Immediata entrata in produzione dei terreni abbandonati o sottutilizzati. Finanziamenti diretti agli agricoltori per l’acquisto di sementi, fertilizzanti e gasolio. Rifacimento delle reti idriche nelle due regioni dove si gioca la partita, ovvero Sicilia e Puglia. L’alternativa è restare in balia dei mercati, con i trasformatori, ovvero pastifici e mulini, in pieno conflitto con i commercianti intermediari e con i produttori. Questi ultimi esposti agli aumenti indiscriminati dei costi di produzione. E i consumatori castigati da aumenti dei prezzi di pane, pasta e farina senza precedenti di cui non si vede la fine”.
Le confessiamo che quando lei ha parlato di rifondazione dell’IRI, pensando al livello dei nostri parlamentari e dei Ministri in carica e, in generale, della Seconda Repubblica, non sapevamo e ridere o piangere. Eppure ora se ne parla pubblicamente: le uniche grandi imprese rimaste sono quelle partecipate dallo Stato, e la Cassa Depositi e Prestiti, cioè il risparmio postale gestito per gli investimenti, è invocata da tutti. Cosa dovrebbe fare la nuova IRI?
“Dovrà, semplicemente, reindustrializzare l’Italia, ricostituendo il patrimonio industriale e tecnologico nazionale andato perduto negli ultimi 30 anni dopo le privatizzazioni. Perché la Russia, da sola, esporta il 43% dei fertilizzanti usati nella piccola Unione europea? Perché in Europa si è abbandonata l’industria, chimica in questo caso, convinti che, con una moneta forte come il marco divenuto euro, si sarebbe potuto importare dall’estero tutto ciò di cui c’era bisogno. Con un solo Paese, la Germania, rimasto grande potenza industriale. E gli altri, in regime di austerità salariale, buoni al più per offrire servizi turistici e derrate agricole. Era ovvio che, alla prima seria crisi internazionale, una ripartizione così squilibrata sarebbe saltata. La nuova IRI si occuperà anche di agricoltura. E lo Stato tornerà ad occuparsi persino dei prezzi come avveniva ai tempi del Cipe, il Comitato interministeriale programmazione economica che, come lei ricorderà, stabiliva anche il prezzo del pane”.
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