di Maddalena Albanese
“…Allora non era sempre Carnevale e la vita si svolgeva attraverso un succedersi di feste e di avvenimenti, che la tradizione rispettosamente manteneva, secondo gli usi e i costumi, con l’avvicendarsi delle stagioni e le ricadenze del calendario. Così non essendo ancora invalsa l’abitudine, fatalmente sopravvenuta, del lusso, del divertimento quotidiano ad ogni costo… gli innocenti ed ingenui palermitani d’una volta, aspettavano ansiosamente che l’allegro programma annuale si svolgesse, provvidamente alternandosi con i tranquilli periodi di una vita sobria e di lavoro.” Così esordisce il capitolo relativo al Carnevale nel libro L’ultimo ottocento palermitano di Oreste Lo Valvo. Per il popolo e la piccola media borghesia il Carnevale era un periodo durante il quale fare piccole festicciole, invitare parenti e amici per mantenere alleanze personali e lavorative e per permettere ai giovani di conoscere fanciulle in età da marito, anche se sotto l’occhio vigile ed indagatore di madri, più severe di un’armata di carabinieri e più indagatrici di una squadra di finanzieri. Il Carnevale era quindi atteso come periodo in cui ci si poteva riunire per una pratica sociale e socializzante molto apprezzata: il ballo.
Ma come tutte le occasioni in cui si poteva “invitare”, anche questa comportava un onere economico. Bisognava, infatti, preparare delle tavole, dei buffets self
“A’ sfincia” o “la sfingia” (per coloro che italianizzano il Siciliano!) (foto a destra tratta da Cucina 24 ore) è un dolce a morbida pasta spugnosa, la cui origine sembra perdersi nella notte dei tempi, se è vero, come abbiamo letto, che compare anche nella Bibbia e nel Corano. Sicuramente noi la cominciamo a datare, così come la conosciamo, a partire dai “soliti” Saraceni, come dolci fritti nell’olio e coperti di zucchero o miele . Qualche secolo dopo le abili e benedette mani delle monache del Monastero delle Stimmate di San Francesco di Palermo l’avrebbero trasformato e reso più ghiotto, dedicandolo quindi a San Giuseppe, il Santo degli umili. L’opera è stata in ultimo completata con
La Pignolata ( “‘a pignoccata” per i palermitani) (foto a destra tratta da Scatti di Gusto) è invece un dolce originario della zona di Messina-Reggio Calabria, consumato soltanto nel periodo di Carnevale (dolce anche questo annotato nell’elenco del PAT). Pure questo si inserisce nella tradizione della pasta soffice fritta e glassata con il miele, tipica della cultura arabo-sicula. La data di origine non è conosciuta. È la versione, povera, di un dolce preparato dalla suore di un convento messinese, per il popolo, in occasione del Carnevale, fatto con pinoli fritti e compattati con il miele a formare delle pigne commestibili. Ecco perché ha preso il nome di pignolata. Il convento delle suore messinesi (al contrario di quello delle Stimmate a Palermo) pare che esista ancora. Il caso volle che, un anno, non essendoci che pochi pinoli veri, se venissero fatti di finti con un impasto fritto a tocchetti. Questi mischiati ai primi e poi da soli quando i pinoli finirono, sempre compattati con il miele a formare delle pigne,
A Palermo è rimasta la tradizionale pignoccata al miele ravvivata da granella di zucchero multicolore. In Calabria, terra di bergamotti, la glassa invece che al limone è al bergamotto. Per inciso, l’80% della produzione mondiale di bergamotto è in provincia di Reggio Calabria. I “ravioli” o “cassatelle” (“i cassateddi”), inserite anche queste nella lista del PAT, nascono invece, probabilmente, con le caratteristiche attuali, nel 1700 a Calatafimi Segesta e si inseriscono sempre nella tradizione di pasta fritta ripiena di crema di ricotta. Anche le “chiacchiere” si aggiungono alla lista di dolci fritti. In particolare la nascita delle chiacchiere si farebbe risalire all’inventiva di un cuoco napoletano, Raffaele Esposito, che le avrebbe preparate per la Regina Margherita di Savoia. Quest’ultima aveva espresso il desiderio di avere un dolce nuovo e frivolo da condividere con le nobili amiche durante le loro chiacchierate pomeridiane: ecco nate le “Chiacchere”. A proposito di questo aneddoto è impossibile non notare che un Raffaele Esposito, cuoco e pizzaiolo, è colui che viene chiamato sempre dalla Regina Margherita di Savoia a Capodimonte per assaggiare le prelibatezze da lui preparate. Raffaele in tale occasione prepara tre pizze differenti. Una di queste diventerà l’inossidabile Pizza Margherita, proprio in onore della Regina. Non ci dilunghiamo, comunque, su tale argomento, anche perché , per ciò che ne conosciamo, il filologo Emmanuele Rocco nel 1858 in Usi e costumi di Napoli e contorni espone una teoria ben diversa sull’origine della mitica pizza. Ma anche questa è un’altra storia.
Torniamo invece al nostro excursus storico-dolciario siciliano. I “Cuddureddi” sono dolci tipici del Carnevale, nati in quel di Delia, piccolo centro del Nisseno. Il nome deriva dal greco “kollura”-corona-, quindi significa “coroncine”. L’origine risale al tempo dei Vespri Siciliani come omaggio alle Castellane di Delia. “‘I Testi ‘i turcu” , le “Teste di turco”, dolci costituiti da una sottile sfoglia fritta ripiena di crema all’aroma di cannella, nacquero a Castelbuono come celebrazione della cacciata dei Turchi da parte dei Normanni intorno al 1070. I Saraceni, o “I Turchi” come dicevano i Siciliani, furono cacciati via dalla Sicilia tra il 1072, ingresso dei Normanni a Palermo, e il 1091, anno della definitiva “Sconfitta di Noto”. Ed è proprio da questo episodio storico che sono nate, invece, le “Teste di Turco” di Scicli: torreggianti bignet a forma di turbante, ripieni di crema, a simboleggiare le teste di turco fasciate nei loro turbanti, lasciate dal nemico sul campo di battaglia.
Ma anche questa è tutta un’altra storia.
Infine, “last but not least”, il dolce carnevalesco per eccellenza : il Cannolo Siciliano (nella foto sotto a destra tratta da Il Cuore in pentola). Gli ingredienti sono sempre gli stessi: pasta fritta e crema di ricotta, il risultato, però in questo caso, è talmente sorprendente da avere fatto diventare il Cannolo Siciliano uno dei due simboli dolciari identitari della Sicilia in tutto il Mondo. L’altro, “ca va sans dire”, è la Cassata Siciliana. Di Sua Maestà, comunque, abbiamo già abbondantemente dissertato, divertendoci, altrove. Non c’è palermitano che, partito dalla Sicilia, per scelta o per necessità, non abbia magnificato ai nuovi amici d’oltreoceano i Cannoli siciliani, sempre protagonisti di qualche ricordo infantile. Le prime tracce di un antenato dei Cannoli lo troviamo già in Cicerone , che descriveva un “tubus farinarius dulcissimo edulio ex latte fartus”. Ma la vera origine del Cannolo siciliano è nella fervida inventiva culinaria delle ospiti degli Harem saraceni. Nell’Harem saraceno del Centro della Sicilia, “Kalt El Nissa”, “Castello delle donne”, le gentili ospiti avevano creato il dolce di pasta fritta e ricotta in questione. Dopo la cacciata dei Saraceni, le donne degli Harem ebbero destini diversi; alcune di loro trovarono ospitalità nei monasteri cominciando a lavorarvi probabilmente come cuoche o serve, altre, convertendosi al Cristianesimo, professarono i voti e diventarono monache. La ricetta arrivò così nelle solite sapienti mani monacali, che compirono l’ennesima trasformazione, facendo diventare, un semplice dolce di pasta fritta e crema di ricotta, un elegante prodotto dolciario arricchito di pistacchi, di zuccata, nel tempo di cioccolatto,
Come altri dolci fissati dalla tradizione inizialmente ad una ricorrenza dell’anno, successivamente sono stati confezionati e consumati durante tutto l’anno, anche solo nei pranzi familiari. Scolpita nella memoria , a tale proposito, è rimasta la frase di Clemenza nel romanzo di Mario Puzo Il Padrino. A Clemenza la moglie chiede di comprare in cannoli per il pranzo di famiglia. Egli li compra e, dopo avere concluso una “onesta e laboriosa” giornata lavorativa e avere ucciso il traditore che aveva consegnato il Padrino ai nemici nel famoso attentato, dice al compare: “‘a pistola lassala, pigghia i cannoli”. Anche noi abbiamo ancora vivido nella memoria un nostro ricordo infantile nel quale, di Domenica, dopo la Santa Messa (grazie a Dio avevamo e abbiamo ben più miti consigli di Clemenza) con mamma e papà andavamo presso un Monastero in Corso Vittorio Emanuele vicino Piazza Marina. Dopo avere bussato ad un portone compariva, dietro una grata, una suora a cui i miei ordinavano i cannoli deponendo in una ruota di ferro i soldi per l’acquisto. Ad un secondo giro emergeva, dalla stessa ruota, con stupore e gioia di noi bambini, una “guantiera” un po’ piramidale, bene avvolta, dove c’erano i cannoli per il pranzo della domenica, che venivano portati con somma attenzione, “sennò si rompono”, trionfalmente a casa. Dobbiamo dire che altri aspetti del Carnevale non trovano in noi alcuna risonanza, ma questa festa rimane pur sempre una grande occasione per rispolverare una parte della cultura e della storia gastronomica, e non solo, della nostra Sicilia. In un Mondo in cui tutto tende a diventare ‘liquido’ ed in cui, in nome di un malinteso rispetto per le altrui tradizioni e costumi, che vanno comunque valorizzate, non vigiliamo abbastanza sulla memoria delle ricchezze che ci identificano come siciliani; ricordiamoci di ciò che ci hanno tramandato le generazioni precedenti e che abbiamo il dovere di tramandare a chi verrà dopo di noi.