“… La mattina del 23 gennaio 1861 il maggiore Delitala, giunto a Scurcola da Avezzano, come costume delle tristemente note “colonne infami” piemontesi dei criminali di guerra Pinelli e Quintili, esercita l’autoproclamato diritto di rappresaglia. I borbonici fatti prigionieri sono 366 e vengono rinchiusi nella Chiesa delle Anime Sante. E’ in questo momento che prende il via il terribile eccidio: borbonici o contadini e canonici e “quanti indiscriminatamente vi trovassero per le strade” vengono portati fuori uno alla volta e giustiziati. Tra le vittime una menzione particolare andrebbe al valoroso medico Giovanni Maúti di Luco dei Marsi, che meriterebbe un racconto a sé, avendo affrontato il plotone di esecuzione pur di non tradire i suoi compatrioti: avrebbe avuto salva la vita se lo avesse fatto. Il Maggiore Delitala, come da direttive del Generale Quintili, fece fucilare 89 persone nell’arco della maledetta notte e le fucilazioni sarebbero continuate se a mezzogiorno non fosse pervenuto un ordine da Avezzano col quale si “consigliava” al Maggiore Delitala di sospendere le fucilazioni. Oltre agli 89 trucidati si sono perse le tracce anche degli altri 277 (come detto furono 366 le persone recluse nella chiesa delle Anime Sante), si dice che furono condotti ad Avezzano per poter essere processati in seguito all’Aquila, ma non arrivarono mai a destinazione. Domenico Lugini racconta, con grottesco sentimento filopiemontese, che del trasferimento se ne fecero carico le “patriottiche guardie nazionali di Scurcola e di Magliano de’ Marsi”. E se mai vi fossero ancora dubbi, queste parole equivalgono alla certezza che i quasi 300 sventurati non arrivarono mai a destinazione, poiché era costume delle guardie nazionali risolvere sbrigativamente il “problema” prigionieri”.
“Ad oggi, tra l’altro, non è ancora chiaro che fine abbiano fatto i cadaveri dei giustiziati. Si può presumere che una parte di essi sia stata sepolta ai piedi del Monte San Nicola, quello che sovrasta l’antico borgo di Scurcola, o siano stati bruciati o inumati in un’immensa fossa comune. Inebriato dal successo, reso ubriaco dal sangue versato, il tristemente noto comandante Pinelli, il 3 febbraio successivo inviò alla frazione di colonna mobile del 40° fanteria questo terrificante dispaccio: “Ufficiali e soldati! Voi molto operaste, ma nulla è fatto quando qualcosa rimane da fare. Un branco di questa progenie di ladroni ancora si annida fra i monti, correte a snidarli e siate inesorabili come il destino. Noi li annienteremo, e schiacceremo il sacerdotale vampiro che con le sozze labbra succhia da secoli il sangue dell‘Italia nostra, purificheremo col ferro e col fuoco le regioni infettate dall’immonda sua bava e da quelle ceneri sorgerà piú rigogliosa e forte la libertà!”. Il 40° fanteria piemontese dei criminali Pinelli e Quintili lo ritroviamo in Terra di Lavoro, in Molise, in Sicilia in eguali azioni di sterminio, ad Auletta, Arcocello, Valle dell’Agnone, Piedimonte d’Alife, Monaco di Gioia, Fontana di Campo, Castellammare del Golfo e in altre decine e decine di piccole località, letteralmente cancellate dalla cartina geografica. Le “prodezze” della colonna infame furono premiate con l’assegnazione di 2 medaglie d’oro agli “eroici” Pinelli e Quintili, 110 medaglie d’argento e 105 menzioni onorevoli alle “gloriose” truppe. Il Generale Pinelli è noto anche per un episodio successivo alla conquista del Regno delle Due Sicilie da parte di Garibaldi, che definì le operazioni piemontesi nel Sud “cose da cloaca”.
“Comandante militare delle province parmensi, nell’ottobre 1860 venne messo alla testa delle forze italiane assedianti la cittadella di Civitella del Tronto, ancora in mano a una guarnigione dell’esercito delle Due Sicilie al comando del Maggiore Luigi Ascione. Nonostante la superiorità delle forze, le truppe comandate da Pinelli non riuscivano ad aver ragione degli assedianti. Pinelli adottò pertanto misure durissime contro la stessa popolazione civile e il 28 ottobre 1860, di fronte alla resistenza di Civitella del Tronto e alle insurrezioni di Caramanico, Avezzano, Sora, Carsoli, Pizzoli, decise la linea dura. Invase Pizzoli il 28 ottobre 1860, saccheggiò la città, la incendiò e fece strage di quanti tentarono di sottrarsi alle fiamme (nella sola mattinata uccise 136 innocenti, la maggior parte dei quali impiccati per risparmiare la polvere da sparo). La sera per dormire requisì la villetta del farmacista Alessandro Cicchitelli e frugando nei cassetti trovò i ritratti di Francesco II e di Maria Sofia. La mattina ordinò la fucilazione del farmacista davanti alla moglie implorante. Tutt’oggi non c’è una stima effettiva del numero dei civili massacrati dai carnefici di cui al contrario esiste un’infame e lunghissima lista. Questi feroci assassini sono stati infatti premiati con medaglie al valore e sono ricordati con strade intitolate a loro nome. Per oltre dieci anni i “liberatori” continuarono su questa gloriosa via: tra fucilazioni di massa, stragi e leggi speciali fino ad arrivare al genocidio che mai mente criminale avrebbe potuto concepire, l’eccidio delle 5000 anime a Pontelandolfo. Il 14 agosto del 1861, all’alba dell’Unità d’Italia, va in scena probabilmente la più nota delle stragi compiute dall’esercito Sabaudo, ai danni degli abitanti di due paesi, Pontelandolfo e Casalduni, in provincia di Benevento…”.
“Nel 1920 Antonio Gramsci, su Ordine Nuovo, a proposito di questi genocidi e di queste vere e proprie pulizie etniche perpetrate dei “civilizzatori e liberatori” italo-piemontesi a danno delle popolazioni meridionali, così scrive: “Lo Stato italiano si è caratterizzato come una dittatura feroce che ha messo a ferro e a fuoco l’Italia meridionale, squartando, fucilando e seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono di infamare con il marchio di briganti”. Si può senz’altro dire che la ferocia, per “diritto di rappresaglia”, dagli italo-piemontesi fu senza dubbio superiore a quella dimostrata, sempre per “diritto di rappresaglia”, dai nazisti nell’agosto del 1944 a Marzabotto e a Sant’Anna di Stazzema, dove gli abitanti furono anch’essi fucilati ma senza saccheggi e stupri e le case dei due paesi non furono bruciate, al contrario di quelle di Pontelandolfo e Casalduni di cui i piemontesi ne lasciarono intatte solamente tre. Eppure i nostri libri di storia e le enciclopedie non fanno altro che ricordare, perché giustamente non se ne perda la memoria, le vittime dei nazisti dell’agosto del 1944. Sarebbe doveroso ritrovare anche la memoria degli eccidi e delle operazioni di pulizia etnica di cui furono vittime le popolazioni meridionali ad opera di altri italiani, che si spacciarono per “liberatori e civilizzatori”. Assassini le cui gesta criminali vengono ancora oggi puntualmente ignorate dalla storiografia ufficiale e scolastica”.
Foto tratta da Scurcola Marsicana blog