- Esiste il rischio che la Sicilia venga colpita da un evento come quello che ha sconvolto le isolette situate tra la nuova Zelanda e le Hawaii?
- Il vero rischio, per la Sicilia, è rappresentato da esplosione di metano, noti in geologia col nome di pockmark: il maremoto che colpì Sciacca nel 1951
- L’esplosione nello Stretto di Sicilia del 10 Aprile del 2007
- Gli equilibri naturali modificati dal Global warming (Riscaldamento globale) nell’area marina dove emerse l’isola Ferdinandea
di Domenico ‘Mimmo’ Macaluso
Ispettore Onorario dell’assessorato ai Beni Culturali della Regione siciliana, in materia di Geologia Marina (foto sotto)
Esiste il rischio che la Sicilia venga colpita da un evento come quello che ha sconvolto le isolette situate tra la nuova Zelanda e le Hawaii?
L’esplosione di un vulcano sottomarino nell’arcipelago delle Tonga ha inevitabilmente sollevato delle domande relative ai potenziali rischi nel nostro Canale di Sicilia, considerato il suo particolare assetto geologico: il tratto di mare compreso tra la Sicilia ed il Nord-Africa, definito meglio stretto di Sicilia, comprende due vulcani emersi qualche milione di anni fa, Pantelleria e Linosa, alcuni rinvenuti recentemente ad alte profondità di cui non conosciamo l’epoca della loro eruzione ed altri che hanno eruttato nel XIX secolo (Ferdinandea e Foerstner). Esiste il rischio di essere coinvolti in un evento come quello che ha sconvolto le isolette situate tra la nuova Zelanda e le Hawaii? Lo tsunami scatenato dall’esplosione delle Tonga ha investito spiagge lontanissime, come quelle del Perù a diecimila chilometri di distanza, dove ha provocato un disastro ambientale per sversamento di petrolio e 2 morti. Dopo la recente esplosione del vulcano del Pacifico, in un nota rivista online è stata pubblicata una intervista al vulcanologo tedesco Boris Behncke, ricercatore dell’INGV presso l’Osservatorio Etneo di Catania (intervista ripresa anche da diverse testate giornalistiche), che ha dissertato sui rischi connessi alla presenza dei vulcani sottomarini nello Stretto di Sicilia ed in particolare del Complesso vulcanico Empedocle (foto a destra), un seamount che, assieme ad un team dello stesso INGV, ho contribuito a scoprire nel 2006 e che ho battezzato col nome del filosofo agrigentino il 6 Maggio del 2006. In questa intervista lo studioso tedesco ha fatto riferimenti a notizie raccolte sul web, come vecchi articoli pubblicati su Venerdì di Repubblica e l’Espresso prima del 2006, in cui assieme al vulcanologo Gianni Lanzafame parlavamo dell’esigenza di effettuare campagne di ricerca nello Stretto di Sicilia in quanto potevano esserci vulcani sottomarini sconosciuti prospicienti il mare di Agrigento, dove frequentemente si spiaggiavano delle pomici; ma in seguito alla crociera oceanografica del 2006, condotta a bodo della nave UNIVERSITATIS, non solo abbiamo scoperto il grande complesso vulcanico Empedocle, ma anche altri edifici vulcanici, ma nessun vulcano davanti Agrigento, come confermato anche da un’altra crociera oceanografiche condotta dall’Istituto Idrografico della Marina Militare negli stessi anni.
Il vero rischio, per la Sicilia, è rappresentato da esplosione di metano, noti in geologia col nome di pockmark: il maremoto che colpì Sciacca nel 1951
Anche sulle pomici che periodicamente si spiaggiano lungo le coste della Sicilia sud-occidentale è stata fatta chiarezza: provengono verosimilmente dai resti del vulcano sottomarino che il 17 ottobre del 1891 eruttò per una settimana, poco al largo di Pantelleria, l’ultima eruzione nota nello Stretto di Sicilia. Alla luce di quanto esposto, è necessario fare chiarezza senza creare allarmismi o evocare fantasmi, circa i rischi connessi alla presenza di vulcani sottomarini nel mare prospiciente le coste siciliane. Possono dunque verificarsi, nello stretto di Sicilia, esplosioni di vulcani sottomarini come quella verificatasi nell’arcipelago delle Tonga? La risposta la ritroviamo andando a consultare le cronache delle due più recenti eruzioni sottomarine in questo tratto di Mediterraneo, quella che diede origine all’effimera isola Ferdinandea nel 1831 e l’eruzione del vulcano Foerstner, presso Pantelleria nel 1891: entrambi i vulcani nati nella profondità del mare, quando si sono manifestati non lo hanno fatto improvvisamente con una devastante esplosione come nell’arcipelago delle Tonga, ma con una fase prodromica durata qualche mese, caratterizzata da scosse sismiche ed emissione, prima di fumo e poi di lava. A parte dei candelabri d’argento anneriti nel 1831 nelle case di Sciacca e qualche lesione agli edifici ed alle cisterne di Pantelleria nel 1891, nel corso di questi eventi non si registrarono significativi danni, tantomeno vittime.
Dunque nessun rischio di devastanti esplosioni nel nostro mare … o no? Il vero rischio, a mio avviso, è rappresentato da un altro fenomeno più subdolo ed imprevedibile e di cui il vulcanologo tedesco nella sua intervista non fa menzione, quello conosciuto come vulcanesimo sedimentario, un fenomeno che può dare origine ad improvvise ed imprevedibili esplosioni sottomarine di sacche di metano, come quella che sulla terraferma, il 27 settembre del 2014, ha ucciso alle Maccalube di Aragona due fratellini, seppellendoli sotto tonnellate di fango. Nella crociera del 2006 abbiamo identificato per la prima volta diversi crateri da esplosione di metano, noti in geologia col nome di pockmark; uno di questi ha un diametro di quasi un chilometro! (a destra, un’immagine 3D del pockmark da mille metri di diametro nel Canale di Sicilia). Nel momento dell’improvvisa liberazione di gas dal fondo marino, l’esplosione può dare origine ad un’onda sismica con conseguenti tsunami locali: il 12 novembre del 1951, dopo una esplosione di metano, un’onda anomala ha investito il porto di Sciacca, provocando ingenti danni e per fortuna, nessuna vittima.
L’esplosione nello Stretto di Sicilia del 10 Aprile del 2007
La sera del10 Aprile del 2007 è stata registrata una violenta esplosione nello Stretto di Sicilia, accompagnata da un evento sismico di magnitudo 4,3 Richter; a Sciacca il terremoto fu avvertito in modo significativo, creando allarme nella popolazione. La mattina successiva, consigliai l’ing. Salvo Cocina, allora capo Dipartimento della Protezione Civile della Regione Siciliana, di sorvolare in elicottero il tratto di Canale di Sicilia epicentro del sisma, per cercare di capire cosa avesse determinato l’esplosione. Sorvolata l’area, notammo che un vasto tratto di mare ribolliva em sulla superficie marina, flottava una bassa e densa nuvola di gas: ho scattato delle foto dall’elicottero (che ho mostrato nel corso di una mia intervista a RAI 3 Report) e che al momento sono le uniche documentazioni fotografiche di questo fenomeno nel nostro mare. Le foto di quell’evento, esibite alla redazione di Report, avevano la finalità di una denuncia: come poteva il nostro Governo concedere autorizzazioni ad effettuare prospezioni finalizzate alla estrazione petrolifera in un tratto di mare interessato sia da eruzioni di vulcani sottomarini che dal pericoloso fenomeno del vulcanesimo sedimentario, entrambi in grado di dare origine ad onde di maremoto? Il recente sversamento di petrolio in Perù, in seguito ad uno tsunami originatosi a 10.000 chilometri di distanza, docet!
Gli equilibri naturali modificati dal Global warming (Riscaldamento globale) nell’area marina dove emerse l’isola Ferdinandea
Ma c’è di più. Nel corso del posizionamento di alcune sonde multi-parametro per il monitoraggio del vulcano sottomarino Ferdinandea, che controlliamo da 25 anni, abbiamo notato qualcosa di inquietante: la scomparsa del cosiddetto termocline, una linea di demarcazione tra temperatura superficiale delle acque e quella profonda, un linea costante fino a qualche anno, riscontrabile ad una profondità di circa 7 metri; dalla superficie del mare sino a quella profondità, le acque hanno una temperatura che è influenzata delle variazioni stagionali, mentre dai 7 metri in poi, le acque diventano più fredde. Ma qualcosa è cambiato: nel corso di recenti immersioni non abbiamo più rinvenuto questa netta linea di demarcazione e la scomparsa del termocline determina la presenza di acque calde anche in profondità, con la conseguente alterazione dell’ecosistema marino. Come hanno notato anche i pescatori di Sciacca, i pesci che vivevano nelle acque fredde, ricche di ossigeno, sono scomparsi, migrando alla ricerca di acque a più bassa temperatura, mentre al loro posto, si sono insediate specie aliene, pesci che preferiscono acque temperate. Ecco cosa è successo: il riscaldamento del nostro mare, per effetto del tristemente noto Global warming, (Riscaldamento globale) ha causato la riduzione della pressione parziale dell’ossigeno, per effetto della legge fisica di Gay-Lussac: “All’aumento della temperatura diminuisce la solubilità di un gas in un fluido” e questo fenomeno ha contribuito conseguentemente anche all’aumento della liberazione del metano dalle profondità del mare. La triste considerazione che scaturisce da quanto esposto è che abbiamo avuto la capacità di modificare delicati equilibri naturali stabilizzati da milioni di anni, inaugurando un’epoca geologica che noi stessi abbiamo definito Antropocene, le cui conseguenze sono pericolosamente imprevedibili.
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