di Nota Diplomatica
Siccome siamo sotto le Feste, molti di voi non avranno tempo per darmi retta. Pertanto, sfrutterò l’occasione per toccare un tema noioso, anche se l’argomento è importante e riguarda pure un personaggio dallo splendido nome: Sir Halford John Mackinder, studioso britannico che stilò uno dei “paper” più influenti della storia umana – o almeno “moderna” – “The Geographical Pivot of History”, del 1904. ll termine inglese “Heartland” è difficile da tradurre. In italiano viene perlopiù reso con “cuore” (geografico) o “entroterra”. È anche il nome di una teoria geopolitica, superata ormai, ma che in passato ebbe un impatto incredibile, creando una mezza dozzina di nazioni.
La cartina nella foto sopra (tratta da Wikipedia) è del 1914 e riassume la “Heartland theory” del geografo inglese Sir Halford Mackinder. Mackinder divise concettualmente il mondo in tre mega zone a seconda dei loro impatti storici: la “World-Island” (Europa, Asia ed Africa), le “Offshore Islands” (Gran Bretagna e Giappone) e le “Outlying Islands”, il “resto” del mondo comprendente le Americhe e l’Australia. Il cuore è l’Heartland, che spazia dal fiume Volga allo Yangtze e dall’Himalaya all’Artico. È la zona “pivot”, il centro del mondo intero, il generatore globale della storia.
Nel 1919 Mackinder compattò la sua tesi in tre “principi”:
— Chi controlla l’Est Europa comanda l’Heartland
— Chi controlla l’Heartland comanda la World-Island
— Chi controlla la World-Island comanda il Mondo
Non è più così evidente come la Grande Guerra sfasciò totalmente il “sistema mondo” che aveva retto i rapporti globali da secoli. Alla fine del conflitto si era a una sorta di “anno zero” delle relazioni internazionali. Bisognava dare, in fretta, una risistematina al globo. Occorreva far sì che non potesse più ripetersi la devastazione della guerra appena finita e anche porre le basi per una nuova organizzazione
dei rapporti che componevano l’Heartland di Mackinder.
Non era, ovviamente, tutta una sua idea. Le teorie che prendono piede hanno successo perché descrivono e spiegano una realtà che vedono anche gli altri, almeno nel momento storico. Una cosa fu subito evidente dall’analisi dell’inglese, l’assoluta necessità di frammentare l’Europa dell’Est per evitare che un’unica potenza potesse governarla: in soldoni, far sì che la Germania e la Russia non
potessero mai allearsi. Contribuirono al processo i crolli dell’Impero asburgico e di quello russo che lasciarono in giro parecchi “pezzi” da muovere. Così – semplificando in maniera quasi criminale – si procedette a creare, deliberatamente, una fascia di Stati “buffer”, una sorta di cuscino, tra Est e Ovest, inventando o rafforzando una serie di Paesi per certi versi “artificiali”, basati a volte su finzioni storiche:
nazioni come Estonia, Latvia e Lituania sul Baltico, e Polonia, Cecoslovacchia e Jugoslavia per arrivare fin giù all’Adriatico.
Ora sappiamo come andò a finire. Col tempo, gli Stati troppo artificiali per reggere – la Cecoslovacchia, l’infelice unione dei cechi e degli slovacchi, come anche la Jugoslavia, una struttura troppo confusa per resistere – si disgregarono. I tre staterelli baltici resistono ancora: sono semplici, unitari, e servono sia a Est che a Ovest. Mackinder – come i diplomatici che forgiarono i 16 diversi trattati di pace che ridisegnarono l’Europa a partire dal 1918 – non potè tenere conto della militarizzazione dell’aria, delle armi atomiche, dell’incredibile espansione economica e tecnologica degli Usa (all’epoca percepiti come ancora “allo stato brado”) e nemmeno del risorgere della Cina. Il tavolo da gioco è sempre quello però.