di Nota Diplomatica
È l’Italia, un Paese non sempre un modello di perfetta organizzazione, che ha dato al mondo il “crimine organizzato”, prima con le sue “mafie” nazionali – quella siciliana, la camorra, la ’ndrangheta e così via – poi con le propaggini internazionali. Esistono altre grandi organizzazioni criminali, la Triade cinese, la Yakuza giapponese, gli imperi colombiani della coca, ma bisogna comunque usare la parola “mafia” – con la emme minuscola – per spiegare cosa sono a chi non lo sa. Però, tutto cambia. Fino a tempi storicamente recenti erano le grandi acciaierie – Krupp, US Steel, et al – le regine delle Borse. Oppure i giganti dell’automobile: Ford, General Motors, Fiat, Volkswagen. Oggi è la Tesla la più importante azienda automobilistica per capitalizzazione di Borsa – vale quattro volte la Toyota, al secondo posto. Ora il mondo parrebbe essere cambiato anche per il crimine organizzato. Come le acciaierie e le case automobilistiche, anche le mafie esistono ancora, contano, ma forse non incutono più il timoroso rispetto di una volta.
Come scelta di carriera, il crimine organizzato sembra avere perso d’attrattiva. Ci sono – ovunque, non solo in Italia, dove le mafie devono ricorrere sempre più alla “manovalanza” balcanica – problemi di reclutamento. La difficoltà nel reperire il personale appropriato è più evidente negli USA, dove i capi della “Mob” americana si lamentano in telefonate intercettate della scarsa disponibilità dei “ragazzi d’oggi” ad abbracciare il crimine come mestiere, e di come le nuove leve – anziché andare a picchiare come si deve – preferiscano invece mandare comodi SMS minacciosi… La circostanza desta preoccupazione nei vecchi “boss”, impensieriti per la successione e dalla necessità di
occuparsi più da vicino delle minuzie del crimine, diventando così maggiormente vulnerabili alle forze dell’ordine. Come nel caso del recente arresto di “Mush” Russo, l’87enne boss della “famiglia” Colombo di New York che, in una registrazione clandestina, si lamenta del suo ruolo dicendo: “Non posso andarmene. Non posso mettermi a risposo”. Secondo uno studio del Prof. James Jacobs, della New York University, le cinque famiglie mafiose che comandavano nella città da decenni sono ormai “solo l’ombra di ciò che erano”, in buona parte a causa della difficoltà a inserire “mafiosi giovani e duri” nei ranghi.
La situazione all’interno della yakuza giapponese non è molto diversa. Dal picco degli anni Sessanta, quando oltre 184mila dei gangster tatuati erano in attività, il loro numero si è ridotto ad appena 25.900 nel 2020. L’età media ha superato i cinquant’anni e le giovani reclute che servirebbero da “ricambio” scarseggiano. Un capo yakuza a riposo commenta: “Tra cinquant’anni saremo estinti”. Tutto cambia… È probabile – se non facilmente dimostrabile – che nel mondo più sviluppato non ci sia più abbastanza miseria per rendere economicamente interessante la vita da mafioso, almeno all’entry level. È una carriera pericolosa e scomoda, la cui “crescita professionale” spesso comporta lunghi soggiorni in galera e in ogni momento il timore che qualcuno ti possa cercare con un’arma letale. Poi, i soldi veri, si sa, di questi tempi sono nella hi-tech…
Foto tratta da Opinio Juris