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Come l’Architettura può entrare nella Questione meridionale e l’esigenza di un partito autonomo e meridionalista

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  • Con il meridionalismo oggi si identifica la condizione di sperequazione socioeconomica non più ascritta ad una differente appartenenza di classe, quanto, più parcellizzata, di appartenenza ad un territorio
  • La “questione meridionale” non potrà essere risolta utilizzando la medesima politica che l’ha determinata e lasciata lì dov’è da 160 anni
  • La democrazia diretta, assegnando ai cittadini il potere di esprimere il proprio consenso sulla politica e non più solo sui suoi rappresentanti, riattiva il loro l’interesse per i beni comuni e rivitalizza il loro rapporto con la cosa pubblica
  • Sembra finito il tempo di disegnare gli spazi per invitare l’uomo a viverli ed evolvere in essi, oggi sono gli uomini che definiscono gli spazi e all’architettura il compito di decodificarli

di Daniele Quarta

Con il meridionalismo oggi si identifica la condizione di sperequazione socioeconomica non più ascritta ad una differente appartenenza di classe, quanto, più parcellizzata, di appartenenza ad un territorio

Nell’attuale dibattito politico all’interno dei contesti nazionali, il meridionalismo appare essere senza alcun dubbio il tema dei temi. Un spinta decisiva a porre fortemente alla ribalta la questione di una equa distribuzione delle risorse all’interno di un territorio, non solo per un aspetto di giustizia, ma anche come nuovo paradigma di crescita e sviluppo possibile del territorio stesso, può senz’altro essere attribuita al lungo periodo di applicazione dell’attuale modello neoliberistico, con la sua ricetta di sviluppo concentrato e protezionistico.
In questo senso, con il meridionalismo oggi si identifica la condizione di sperequazione socioeconomica non più ascritta ad una differente appartenenza di classe, quanto, più parcellizzata, di appartenenza ad un territorio. Ebbene, un territorio ove incide una politica discriminante, in termini di conferimento di risorse, con riferimento ad altre aree di uno stesso Paese, diventa il nuovo paradigma di “minorità”. Un paradigma che genera insoddisfazione sociale, freno alla crescita e allo sviluppo e che occupa lo spazio principale nell’attuale riflessione sociale imponendo, come via obbligata, l’adozione di una “nuova” politica che persegua soluzioni ecologiche, resilienti e sostenibili in una logica “win to win”.

La “questione meridionale” non potrà essere risolta utilizzando la medesima politica che l’ha determinata e lasciata lì dov’è da 160 anni

Albert Einstein ci ricorda che non è possibile risolvere un problema utilizzando lo stesso modo di pensare che ha determinato quel problema. Parimenti, la “questione meridionale” non potrà essere risolta utilizzando la medesima politica che l’ha determinata e lasciata lì dov’è da 160 anni. Quindi ci vuole una “nuova” politica e se, come chiaramente appare, tale “questione meridionale” potrà essere risolta solo dallo stesso popolo che la subisce, allora questa “nuova” politica dovrà necessariamente prevedere la partecipazione attiva dello stesso popolo meridionale. In pratica, non sarà più sufficiente eleggere propri rappresentanti in un soggetto politico “nazionale”, ma si dovrà partecipare direttamente ed attivamente in un movimento politico autonomo e meridionalista. Ecco dunque il punto. Il futuro della politica non potrà più prescindere dai territori, nei quali essa nasce e si esprime, e si dovrà lasciare spazio a nuove forme di democrazia diretta, secondo una sperimentazione che ha sempre accompagnato la storia repubblicana delle società, dalla polis ateniese di Pericle, fino alle ultime teorie di Murray Bookchin. Certo, la democrazia diretta non è un modello da prendere a scatola chiusa, senza stemperarne prima alcuni eccessi controproducenti (per citare Norberto Bobbio – “Nulla uccide più la democrazia che l’eccesso di democrazia “), ma rimane tuttavia imprescindibile seguirne il percorso per le intrinseche qualità che tale modello partecipativo comporta. Innanzitutto, è la forma politica meno soggetta alle pressioni lobbistiche economico-finanziarie, che consente di perseguire soluzioni per il “bene comune” essenziali soprattutto nelle risoluzione delle vertenze sulle disparità territoriali. Inoltre, una partecipazione della collettività quanto più allargata, nella decisone politica, garantisce una maggiore saggezza di soluzioni, come riuscì a dimostrare Francis Galton (antropologo UK) all’inizio del ‘900. Del resto, è del tutto evidente che risolvere una questione territoriale come quella meridionale richieda un vero e proprio cambiamento di modello socioeconomico, impossibile da affidare ai sistemi parlamentari rappresentativi, in quanto lo realizzerebbero per aggiustamenti progressivi (politica del compromesso) impiegando così nella migliore delle ipotesi tempi generazionali per il loro compimento.

La democrazia diretta, assegnando ai cittadini il potere di esprimere il proprio consenso sulla politica e non più solo sui suoi rappresentanti, riattiva il loro l’interesse per i beni comuni e rivitalizza il loro rapporto con la cosa pubblica

Ma vi è un altro motivo per cui il modello di democrazia diretta conduce ad una “nuova” politica. La democrazia diretta innesca un cambiamento profondo nel ruolo politico dei cittadini, dei partiti e dei suoi rappresentanti. Infatti, assegnando ai cittadini il potere di esprimere il proprio consenso sulla politica e non più solo sui suoi rappresentanti, riattiva il loro l’interesse per i beni comuni e rivitalizza il loro rapporto con la cosa pubblica. Al contempo, cambia il ruolo della politica rappresentativa, che abbandonando l’ambizione velleitaria di ricercare soluzione ai problemi, abbraccerebbe finalmente il ruolo, che le è più congeniale, di realizzare le sintesi politiche per la loro attuazione. Sappiamo che nella evoluzione dei sistemi arriva sempre un momento ove necessita un cambio di paradigma, la vera domanda è: come facciamo a capire quando questo momento arriva? Dal modo in cui la natura attua il processo bio-evolutivo degli esseri viventi, sappiamo che ogni problema che arriva alla portata dell’uomo, che sia adeguato alle sue possibilità, metterà quell’uomo nelle condizioni di risolvere il suo problema. Sappiamo anche che risolvere il proprio problema ci rende pronti ad affrontare quello successivo, mentre, non risolvere o ignorare il problema che ci si para di fronte, genera nel breve situazioni ingestibili e poco dopo vere e proprie emergenze.

Sembra finito il tempo di disegnare gli spazi per invitare l’uomo a viverli ed evolvere in essi, oggi sono gli uomini che definiscono gli spazi e all’architettura il compito di decodificarli

Ebbene, quando la complessità crescente dei sistemi sociali genera problemi, che per quantità e complessità superano le capacità risolutive offerte dagli strumenti disponibili alla società stessa, allora quello è il momento di salire di livello e di utilizzare nuovi strumenti, allora quello è il momento di adottare un cambio di paradigma. Questo assunto non è vero solo per la politica ma risulta vero anche nel campo di applicazione di tutte scienze sociali. Ho avuto modo di osservarlo ad esempio nel campo dell’architettura visitando a Venezia l’ultima Biennale Architettura 2021. Il tema “How will we live together” posto alla manifestazione di quest’anno, annunciava proprio che nuovi bisogni sociali si sono affacciati e che questi bisogni hanno già superato le concezioni ed i modelli fin qui adottati. La sfida lanciata a Venezia è: necessita un cambio di paradigma? La risposta è stata strabiliante e mi ha colto di sorpresa come quando si è davanti a qualcosa per la prima volta. Sembra finito il tempo di disegnare gli spazi per invitare l’uomo a viverli ed evolvere in essi, oggi sono gli uomini che definiscono gli spazi e all’architettura il compito di decodificarli. È finito il tempo di progettare avendo per-fissato l’obiettivo finale, ma è nato il tempo in cui il confronto, la contaminazione, la cooperazione, diventano il vero obiettivo, mentre il prodotto finale che ne deriva, non predicibile, è solo il risultato di quel processo. Non sarei mai riuscito a decodificare tutto questo nelle opere e nelle istallazioni presenti alla Biennale senza la guida illuminate di alcuni prof. architetti dell’Università Iuav di Venezia che ho avuto il privilegio di seguire. Voglio qui ringraziare i prof. Angelo Maggi, Francesca Castellani, Johan Linton (Svezia), Beril Kapusuz (Turchia), maestri di vita per un giorno e nella mia per sempre.

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