di Massimo Costa
La crisi della I Repubblica, sul finire degli anni ’80 travolge anche il sistema di potere siciliano e lo stesso presidente della Regione Rino Nicolosi in persona, costretto a ritirarsi. Si fa interprete di questa “innovazione” una timida “primavera dei sindaci”, a cominciare da leoluca Orlando, sindaco di Palermo, che sbandiera il vessillo dell’antimafia come rottura con il precedente sistema. La “primavera”, però, è più di facciata che sostanziale: gli stessi sindaci, dopo il successo effimero della “Rete”, nel 1991, “trovano casa” nei nuovi partiti “nazionali” nati nella II Repubblica e sono incapaci di una reale progettualità politica nuova.
L’XI legislatura (1991-96) segna uno dei punti più bassi delle istituzioni regionali. Pur cominciata con i migliori auspici, la scomparsa, tra il 1992 e il 1994, dei partiti della I Repubblica, unitamente a una serie incredibile di scandali, per i quali più della metà del Parlamento siciliano è inquisito o arrestato, trasformano le istituzioni siciliane in una sorta di “casa di fantasmi” sopravvissuta a sé stessa. Senza
alcuna novità degna di nota la politica siciliana galleggia sul vecchio clientelismo, e sul rapido trasformismo nel quale i “politici” diventano una casta di professione, impegnata a mantenere la Sicilia nel sottosviluppo e nel voto di scambio, con un cambio repentino di “casacca” ogniqualvolta ciò si rende necessario. Una riforma dei concorsi pubblici all’inizio della legislatura, da allora e per molti anni
da svolgere “per soli titoli”, in pieno clima di “Mani Pulite”, consente una ventata di moralizzazione nella burocrazia regionale e l’immissione di numerosi nuovi quadri che per molti anni ne costituiranno la migliore tecnostruttura.
I “fatti di mafia” raggiungono il culmine proprio in questi anni con l’assassinio dei giudici Falcone e Borsellino, nonché del sacerdote don Pino Puglisi. Vi è anche da dire che, mai come in questo momento, i rapporti tra Stato e mafia sono stati obliqui e ingarbugliati, al punto che sulla morte dello stesso Borsellino si addensano tutt’oggi molti indizi sul fatto che non sia stata Cosa Nostra ad ucciderlo bensì
segmenti deviati dello stesso Stato italiano. Da allora in poi, però, Cosa Nostra entra in un lento ma inesorabile declino. Delegittimata nella società, sempre meno appoggiata, almeno apertamente, dallo Stato, non più funzionale alla “dominazione coloniale” della Sicilia, e lentamente sostituita da nuove forme di occupazione criminale del potere, meno “militari” e più sottili, spesso vestite proprio con i panni della stessa antimafia.
In questo punto di minimo la Sicilia comincia a sperimentare anche un atteggiamento nuovo e più arrogante da parte dello Stato, ormai irrispettoso persino della forma dell’Autonomia: privata del Fondo di Solidarietà Nazionale, mutilata nella sua autonomia legislativa più elementare, derubata in pochi anni di tutto il proprio sistema finanziario e industriale, a favore dei grandi gruppi settentrionali, con la
totale complicità della classe politica locale. Nel 1994 la Sicilia perde il controllo del Banco di Sicilia (e della Sicilcassa che da questo è assorbita), e con il Banco perde simultaneamente ogni autonomia finanziaria degna di nota.
Volendo fare un bilancio, la Regione parlamentare che tramonta negli anni ’90 (1947-2001), pur godendo nel complesso di pessima storiografia, ha però anche alcuni meriti storici. Grazie ad essa, e in parte anche agli interventi straordinari statali per il Mezzogiorno, dal Dopoguerra la Sicilia si era dotata di un sistema di trasporti autostradali, seppure incompleto, di un nuovo aeroporto per la città di Palermo con due piste, Punta Raisi, della costruzione di svariate aree industriali, della costruzione di numerose dighe e laghi artificiali per combattere l’annoso problema della siccità, dell’elettrificazione rurale nelle campagne e così via con molti interventi in vari campi infrastrutturali. La Regione era anche stata all’avanguardia nell’istituzione di Parchi naturali e zone e Tiserve protette. Anche la
legislazione regionale, nel campo della sanità, del bilancio, dei beni culturali, era stata capace di qualche capacità distintiva, nei primi anni persino nel campo della politica tributaria. L’entrata nell’era della globalizzazione, viceversa, segnerà un progressivo deterioramento o comunque rallentamento degli investimenti infrastrutturali, talvolta neanche in grado di garantire l’ordinaria manutenzione delle
strutture esistenti, e comunque un evidente scadimento della produzione legislativa.
Il vento delle riforme istituzionali italiane questa volta arriva tardi in Sicilia: la XII legislatura (1996- 2001), l’ultima di quelle parlamentari, con Presidente e Assessori espressi esclusivamente dall’Assemblea, rappresenta ormai un’anomalia “proporzionale”, in un sistema italiano ormai decisamente orientato verso il “maggioritario”. Ma questa legislatura resta sostanzialmente identica alla precedente, con il lento incancrenirsi di tutti gli storici problemi economici e sociali della Sicilia, e con la semplice “ridenominazione” gattopardesca del personale politico secondo le nuove formazioni partitiche italiane: da un lato il centro-destra di Forza Italia, Alleanza Nazionale e i vari tronconi post- democristiani; dall’altro il centro-sinistra del Partito Democratico della Sinistra, poi Democratici di
Sinistra (in ogni caso post-comunisti), della “Margherita” di centro-sinistra, e di vari soggetti, spesso definiti “cespugli” quasi in modo dispregiativo, rispetto alle formazioni post-comuniste. Marginale, ma progressivamente in crescita, il Sicilianismo di “centro-destra” (con Nuova Sicilia), presente anche il Sicilianismo radicale, con componenti eterogenee, ma incapace di mantenere una stabile rappresentanza
in Assemblea, nonostante il relativo successo del 1996 (Noi Siciliani, lista che univa semplici autonomisti sturziani, sicilianisti veri e propri delle più svariate tendenze ideologiche, da destra a sinistra, e dai gradi più o meno spinti di autonomismo, e finanche gli indipendentisti). Si noti che, in ultimo sussulto di dignità, la Regione parlamentare prima di estinguersi dona finalmente alla Sicilia una
“bandiera”: dopo decenni di tabù politico, preceduta (1990) da una legge sullo stemma e sul gonfalone, finalmente la Trinacria su sfondo giallo e rosso prende a sventolare dalle scuole e dagli uffici pubblici (2000).
In queste condizioni si chiude, nel 2001, la storia della Regione “parlamentare”, tra qualche luce e molte più ombre. Il 2001, infatti, vede una doppia riforma costituzionale, destinata ad incidere profondamente nella storia di Sicilia a noi più vicina. La prima riforma interessa tutta l’Italia, ed è il cosiddetto federalismo, anche se questa dizione è un po’ impropria perché lo Stato italiano resta pur sempre unitario e regionale. In realtà, per fermare le pulsioni separatiste settentrionali, lo Stato devolve molte funzioni alle Regioni, e soprattutto introduce elementi di federalismo finanziario. Ciò che interessa la Sicilia è che in tal modo si riduce la già debole funzione perequatrice dello Stato italiano e si aggrava la Questione meridionale, mentre le differenze di autonomia tra le Regioni a statuto ordinario e quelle a statuto speciale si riducono in maniera sensibile, contribuendo ad una relativa normalizzazione delle seconde. Teoricamente la riforma del 2001 avrebbe dovuto far salve le maggiori forme di autonomia ed attribuirne di nuove; di fatto la morsa dello Stato sulla Regione ha continuato
sempre lentamente a stringersi.
La seconda, invece, è una riforma specifica dello Statuto siciliano, fatta nello stesso anno. In buona sostanza la Sicilia cambia forma di governo, passando da Regione parlamentare a Regione presidenziale, con un Presidente eletto direttamente dai cittadini, con poteri molto più forti nei confronti dell’Assemblea (ad esempio gli assessori sono nominati e revocati da questi senza bisogno di consenso
parlamentare) che non può sfiduciarlo senza decadere a sua volta. La stessa Assemblea vede introdurre un premio di maggioranza attribuito al gruppo di liste collegate al candidato presidente risultato vincente, senza abbandonare del tutto il sistema proporzionale della I Regione. Una riforma elettorale che entra in vigore 5 anni dopo (2006) introduce uno sbarramento elettorale al 5 % e completa il
quadro, determinando una drastica semplificazione del sistema partitico. Queste riforme determinano un vero e proprio cambio radicale della politica siciliana, trasformata in una piccola “repubblica presidenziale” nelle mani del “governatore” (come impropriamente viene ora chiamato il Presidente eletto direttamente dai cittadini, sul modello analogo degli stati USA). Il legame diretto di questo con Roma, lo svuotamento delle funzioni legislative dell’Assemblea ad opera di sentenze della Corte Costituzionale sempre più severe, rendono il Parlamento siciliano una “cittadella del privilegio” di notabili della politica, esautorata di reali poteri, con una produzione legislativa rada e
scadente, limitata al sollecito di residuali favori alle clientele elettorali. Per questa ragione si parla sempre più spesso di “Regione presidenziale” o II Regione, a partire almeno dalla XIII legislatura.
Negli ultimi giorni della Regione parlamentare il trasformismo e il clientelismo, ormai degenerati, danno il peggio di sé. La sinistra, da sempre minoritaria, riesce per breve tempo ad assumere la Presidenza, con il “democratico di sinistra” Angelo Capodicasa, alleato della sempre più potente UDC di totò Cuffaro, con le destre provvisoriamente all’opposizione. A questo governo si deve una dissennata istituzione dei “dirigenti di terza fascia”, anomalia unica in Italia che sarebbe perdurata sino al Governo di Raffaele Lombardo, che li avrebbe posti “a esaurimento”, e che consentiva intanto di innalzare al ruolo di dirigenti migliaia di funzionari apicali; anomalia che per decenni avrebbe poi giustificato linciaggi pubblici della Regione e della Sicilia tutta sui media ufficiali, nonché ritorsioni finanziarie dallo Stato sempre più disumane.