di Massimo Costa
Il centro-sinistra, dapprima con Giuseppe D’Angelo, poi con altri presidenti piuttosto “anonimi”, avrebbe governato silenziosamente la Sicilia per altri tre lustri abbondanti circa, senza alcuna possibilità di ricambio: a sinistra i comunisti condannati a una “opposizione di sua maestà”, a destra, con la scomparsa dei monarchici, un piccolo MSI (i neofascisti), sostanzialmente “congelato” da un punto di vista politico e, in difficoltà e regresso, ciò che restava dei liberali. In quest’epoca, infine, il rapido collasso e la scomparsa dei monarchici, nonostante il tentativo estremo di raggruppamento nel PDIUM: in Sicilia erano stati dal Dopoguerra il principale referente dell’aristocrazia latifondista; scomparso quel mondo, vengono meno i presupposti sociali del consenso politico. I due partiti di governo (DC e PSI) con i due piccoli alleati (PSDI e PRI), sono così un nuovo blocco di potere quasi da partito unico. Così vanno avanti le legislature V (1963-1967), VI (1967-71) e gran parte della VII (1971-76), quasi senza storia.
Il Governo D’Angelo si dava in qualche modo tono di rinnovamento politico e di trasparenza, ma era più apparenza che realtà. La fine dell’Autonomismo comportò per lo Stato un “dividendo” da erogare ai politici siciliani fedeli che lo avevano consentito. Le partecipazioni regionali non solo furono mantenute, ma accresciute, stavolta però non in chiave anti-italiana, ma apertamente clientelare. E il clientelismo e l’assistenzialismo si eressero a pratica politica ed economica ormai incontrastata. L’Ente Siciliano di Elettricità sarebbe sopravvissuto per qualche anno alla nazionalizzazione dell’energia elettrica (nascita dell’ENEL, 1964), ma anche questo negli anni ’70 sarebbe stato sacrificato al nuovo centralismo economico.
Due traguardi finanziari importanti furono raggiunti in quest’epoca. Nel 1962, dopo varie assegnazioni provvisorie, anche se ingenti, che datavano dal 1947, il Fondo di Solidarietà Nazionale fu calcolato sull’85 % delle entrate che lo Stato otteneva dalla Sicilia per imposte di produzione (in gran parte le cd. accise petrolifere). Si trattò di un capolavoro politico per entrambe le parti: da un lato lo Stato in realtà non dava nulla alla Regione se non quello che aveva raccolto in Sicilia; dall’altro, favorendo un modello di sviluppo che alla lunga sarebbe stato devastante per l’ambiente, la Regione si dotava di un fiume di risorse che, effettivamente, consentirono alla Sicilia di fare grandi progressi sul piano della infrastrutturazione e dei trasporti. Purtroppo, già dagli anni ’70, queste ingenti risorse furono progressivamente distratte dalle spese infrastrutturali e assorbite dall’insaziabile assistenzialismo, fino a che nel 1990 non venne azzerato del tutto il Fondo di Solidarietà Nazionale, per essere ricostituito solo un decennio dopo ma ormai su cifre niente più che simboliche.
Altro traguardo, e altro capolavoro politico, fu il decreto attuativo della parte finanziaria dello Statuto, ottenuto nel 1965. Con esso ciò che era stato stabilito provvisoriamente nel 1948, divenne definitivo. La Sicilia, cioè, rinunciava di fatto a istituire tributi propri (se non in modo molto teorico), e quindi rinunciava alla fiscalità di vantaggio, ma in cambio introitava la quasi totalità delle entrate pubbliche in Sicilia. Questo traguardo avrebbe consentito alla Regione di farsi carico di quasi tutti i settori amministrativi che, effettivamente, nei decenni successivi sarebbero stati accollati alla Regione stessa. Ma, per contro, a partire da allora, e progressivamente nel tempo, lo Stato ha lentamente ripreso, con proprie leggi, quelle stesse risorse, lasciando le spese a carico della Regione e quindi condannandola al sottosviluppo e alla discriminazione rispetto alle stesse altre Regioni del Mezzogiorno. Nel breve termine, tuttavia, la comunità politica siciliana si vedeva data un’ampia autonomia di spesa con la quale gestire un benessere fittizio che, effettivamente, si era diffuso un po’ in tutte le classi dell’Isola.
A proposito di “interessi oscuri”, è di questi anni l’infiltrazione mafiosa a tutti i livelli della politica e dell’amministrazione siciliana. Cosa Nostra, attraverso il dominio incontrastato delle esattorie, degli appalti pubblici, in una parola, dell’economia siciliana, diventa un’istituzione non dichiarata, quasi alla luce del sole, capace di entrare e uscire dai ‘Palazzi del potere’ e di condizionare la politica come mai aveva fatto prima e come mai avrebbe fatto dopo. Gli anni ’70 segnano un evidente peggioramento qualitativo, sia sul piano della qualità della spesa, sia sul piano delle prassi parlamentari, sia sul piano delle congiunture economiche, ora meno favorevoli. Anche sul piano tributario, le grandi riforme del 1972 (introduzione dell’IVA) e del 1973 (introduzione dell’IRPEF e dell’IRPEG) sono occasione per dirottare, senza riforma del decreto del 1965, una quota crescente di risorse dalla Regione allo Stato, mentre la Regione si fa carico di un numero sempre maggiore di funzioni, non ultimo anche per la correlata istituzione delle Regioni a statuto ordinario.
Ma la crisi, economica e soprattutto morale, di una Regione che ormai appare nient’altro che lo specchio periferico dello Stato, è occasione per una nuova manifestazione di vitalità della politica locale. Il più grande partito d’opposizione, poco a poco, passa da un’opposizione “consociativa” ad una collaborazione sempre più aperta con i governi di centro-sinistra, dapprima con il Governo Bonfiglio, e poi, ancor di più, con il Governo Mattarella. È questa la fase della Solidarietà autonomistica, che vede protagonisti i due maggiori partiti, la DC e il PCI, con il PSI in una difficile posizione di minore importanza. Ancora una volta la Sicilia è “laboratorio” per i governi di solidarietà nazionale che, in parallelo, si sarebbero poi sviluppati in Italia alla fine degli anni ’70 (la “Solidarietà nazionale” di Andreotti, con un’apertura ai “comunisti” che, dopo l’uccisione di Aldo Moro, nel 1978, avrebbe segnato la sua fase calante).
Difficile dare un giudizio storico netto su questa fase della politica siciliana: ebbe i pregi e i difetti delle ideologie dei partiti che più la sponsorizzarono. Per un verso la Sicilia fu teatro di coraggiose riforme politiche e amministrative, come ad esempio l’introduzione del “bilancio pluriennale”, nel 1977, poi “recepita” dallo Stato italiano. Per un altro, tuttavia, si ha come un’esplosione dell’assemblearismo e del consociativismo a tutti i livelli, a discapito dell’efficienza e dell’efficacia dei servizi pubblici, che diventano sempre più sinonimo di “carrozzone” clientelare, dalla sanità, alla scuola, alla formazione professionale, ormai saldamente lottizzata da partiti e sindacati più o meno consociativi, alle partecipazioni regionali, ormai ridotte a stipendifici e “appaltifici” pubblici. L’VIII legislatura (1976-1981), inizia apertamente nel segno della “Solidarietà autonomistica”. Significativo l’aggettivo “autonomistica”, ormai del tutto privo di qualunque riferimento a conflitti con l’Italia, o a elementi identitari siciliani, ma piuttosto riferito al legame, ormai autoreferenziale, dei partiti con ciò che restava delle istituzioni regionali normalizzate. Ma va anche detto che Mattarella, sia pure con estrema prudenza, tentò di far valere i diritti della Sicilia, condizionando tali pretese alle “carte in regola”, con la pretesa quindi di combattere quegli stessi interessi, anche di tipo illecito, che ormai in Sicilia erano diventati semplicemente “il sistema”. Se fu per questa ragione, o per altre ragioni di carattere nazionale e internazionale più grandi, resta ad oggi oscuro. Sta di fatto che Cosa Nostra nel 1980 uccide Piersanti Mattarella, ponendo fine in modo brutale alla collaborazione tra democristiani e comunisti, del resto già tramontata in Italia da un anno, non molto diversamente da come era stato trucidato due anni prima Aldo Moro.
Superata questa fase, gli anni ’80 riportano la Sicilia a essere semplice periferia dell’Italia, di cui replicano in tono minore tutte le vicende politiche. In Sicilia, come in Italia, è ora la volta del “Pentapartito”, cioè di governi formati da democristiani e socialisti, con la partecipazione dei tre minori partiti laici, in piena spartizione consociativa del potere, con un’opposizione comunque molto morbida da parte del partito comunista, e i missini sempre “congelati” all’estrema destra in una sterile opposizione. Così la IX legislatura (1981-86) e la X (1986-91). L’attività politica di questi anni consiste in pratica unicamente nella creazione di una nuova frontiera dell’assistenzialismo: il precariato pubblico. Esaurita, o quasi, la capacità di assorbimento nei ruoli della Regione e delle partecipate, ora il clientelismo trova le vie degli assunti a termine, i cd. “articolisti” la categoria principale, degli operai stagionali della forestale, dei dipendenti degli enti di formazione professionale. La Regione, ancora tutto sommato solida, riesce in qualche modo a svolgere le proprie funzioni in modo dignitoso, ma getta le basi per una vera e propria “bomba sociale” destinata ad ingigantirsi e ad esplodersi nei decenni successivi.
L’unica “novità” di questi anni – a parte la curiosità del Salvatore Natoli, repubblicano indipendentista, Presidente “per una sola notte” – è la lunga Presidenza di Nicolosi, l’ultimo presidente forse di qualche spessore e autorevolezza, capace anche talvolta di far valere i diritti della Sicilia nei confronti dello Stato centrale e di abbozzare persino una rete di relazioni internazionali nel Mediterraneo. Per superare le paralisi del parlamentarismo, Nicolosi fu accusato di spostare la gran parte delle decisioni di rilievo sull’Esecutivo, su di un “governo parallelo” del Presidente; parallelo anche rispetto agli altri assessori di espressione parlamentare.
Di quegli anni anche la forte protesta popolare contro gli “euromissili” di Comiso. La Sicilia scopriva ora il peso delle servitù militari che, a dispetto della promessa smilitarizzazione, avevano poco a poco fatto della Sicilia una delle principali piattaforme logistiche militari USA e NATO. Gli anni in questione sono anche quelli in cui la risposta dello Stato, ma anche e soprattutto della società civile, alla sfida di Cosa Nostra, si fa sempre più alta. Lo Stato risponde all’omicidio Mattarella, mandando un Prefetto dotato di poteri speciali, il generale Dalla Chiesa. Ma questi viene ucciso il 3 Settembre del 1982. Poco prima – il 30 Aprile del 1982 – era stato trucidato Pio La Torre, segretario regionale del Pci, un parlamentare nazionale che aveva fortemente voluto l’esproprio dei patrimoni mafiosi, e che si era eretto a coraggioso difensore dell’Autonomia rispetto alle “pelose” critiche dei soliti poteri forti italiani. Lo Stato, in realtà, ha sempre un atteggiamento ambivalente. Una parte di esso sembra reagire, con il “maxiprocesso” e la costruzione del “pool antimafia” presso il Palazzo di Giustizia (e più tardi con un’operazione militare vera e propria chiamata “Vespri Siciliani”). Un’altra parte sembra invece tenere legami proprio con Cosa Nostra, “incaricata” di mantenere in Sicilia equilibri politici necessari anche per l’Italia.
In tutto ciò il sistema comincia ad avere alcune crepe; il sistema dei partiti inizia a soffrire – come in Italia del resto – di delegittimazione. Sorgono liste “fai-da-te” che conquistano scranni all’Assemblea: il primo, Biagio Susinni, fuoriuscito dai repubblicani, nel 1991, mentre Ernesto Di Fresco, uscito dalla DC, aderente al MIS da giovane, fondatore dell’Unione Popolare Siciliana, manca per poco l’obiettivo. Il fenomeno sarebbe maturato del tutto solo negli anni ’90, con liste fondate da “notabili” dei voti fuoriusciti dai partiti tradizionali (Ciccio Nicolosi e Bartolo Pellegrino fra gli altri), con un rapporto con i propri elettori che ormai ricorda più le appartenenze feudali che non quelle ideologiche.
Risorge quindi, seppur timidamente, il Sicilianismo, incoraggiato e ostacolato al contempo dalla contemporanea rapida e inaspettata ascesa della “Lega Nord” all’altro capo dello Stato. Sicilianismo che ora veste i panni della “ruota di scorta” dei partiti italiani, con una blanda rivendicazione autonomista, non disgiunta da pratiche clientelari, ora invece assume i caratteri più radicali dell’indipendentismo o di un autonomismo senza compromessi, ma restando ai margini della grande scena politica, sempre dominata dai partiti maggiori italiani.
Fine 49esima puntata/ Continua