Il 15 maggio del 1946 la Sicilia ottiene dunque dall’Italia una amplissima autonomia, un vero ordinamento confederale alle soglie dell’indipendenza. Lo Statuto, concesso da Umberto II, a poche settimane dal referendum istituzionale che avrebbe trasformato l’Italia in una Repubblica, rappresentò una vittoria – almeno in apparenza – per le secolari aspirazioni del Popolo Siciliano all’autogoverno. Con questa vittoria si spegne però sostanzialmente ogni pulsione indipendentista e gli stessi indipendentisti, ormai minoritari, si batterono dopo per la sola difesa dello Statuto di autonomia, per la sua attuazione, o per l’evoluzione dello Stato italiano in senso confederale o federale. Le elezioni per l’Assemblea Costituente del 1946 furono le prime elezioni a suffragio universale estese anche alle donne, e quindi la prima volta nella storia siciliana che i diritti politici delle donne erano finalmente equiparati in tutto e per tutto a quelli degli uomini. Lo stesso giorno, nel referendum istituzionale tra Monarchia e Repubblica, i Siciliani sceglievano in maniera netta la Monarchia (64,7 %), in linea con i risultati della parte meridionale dell’Italia. La storia della Sicilia “autonoma” e di quella “repubblicana”, successiva a quella consultazione, sono pertanto sostanzialmente sinonimi. Lo Statuto creava un ente territoriale nuovo, la “Regione”, che poi la Costituzione della Repubblica avrebbe esteso a tutta l’Italia, in pratica un “piccolo stato”, con amplissime potestà legislative e amministrative, e con un’amplissima autonomia finanziaria e finanche un forte decentramento giudiziario.
Riguardo al potere legislativo tutte le materie di legislazione erano divise in tre ambiti: sulla maggior parte degli ambiti, l’Assemblea Regionale, il rinato Parlamento siciliano di 90 deputati eletti a suffragio universale, aveva potestà esclusiva (cioè poteva legiferare come uno Stato sovrano, con il solo limite di rispettare le norme di rango costituzionale); su altri, di carattere prevalentemente sociale o di maggiore interesse pubblico (sanità, lavoro, banche, ad esempio), aveva potestà concorrente, dovendo rispettare anche i principi generali dell’ordinamento italiano, sui restanti ancora (le pochissime materie riservate allo Stato come le leggi di rango costituzionale, la difesa, i trattati internazionali, l’ordinamento civile, penale e processuale), soltanto potere di iniziativa, potendo comunque formulare delle “leggi-voto” che tuttavia poi sarebbero dovute essere sottoposte al Parlamento italiano.
Per quanto riguarda il potere esecutivo, la devoluzione doveva essere totale. Su tutte le materie sulle quali il Parlamento vantava potestà legislativa concorrente o esclusiva (tutto in pratica), tutta l’Amministrazione statale si sarebbe dovuta devolvere alla Regione. Su queste materie la Regione avrebbe organizzato i servizi pubblici, rispondendo soltanto all’Assemblea. Sulle poche materie riservate alla legislazione dello Stato, come la giustizia o gli interni, compresa quindi la polizia e le prefetture, tutta l’amministrazione sarebbe comunque stata devoluta alla Regione, mettendo però, a capo dell’Amministrazione statale in Sicilia il Presidente della Regione, come “Ministro” del Governo italiano, e che a tale titolo avrebbe dovuto sedere nel Consiglio dei Ministri dell’Italia.
In pratica il Governo regionale avrebbe avuto una duplice veste: da un lato “luogotenente” della poca residua amministrazione statale in Sicilia, dall’altro “governo autonomo” per la stragrande parte dell’amministrazione pubblica. In ogni caso, nelle more del passaggio delle funzioni dallo Stato alla Regione, il Presidente regionale avrebbe dovuto succedere all’Alto Commissario, mantenendo quindi in continuità la separazione delle amministrazioni che si era costituita nel 1944. Un decreto del Capo Provvisorio dello Stato (il n. 567/47) solennemente decretava che “fino a quando non sarà attuato completamente il passaggio degli uffici e del personale dello Stato alla Regione e fino a quando non saranno emanate tutte le norme occorrenti per l’attuazione dello Statuto della Regione siciliana, continuano ad osservarsi, in quanto applicabili, le disposizioni del R.D. 18 marzo 1944 n. 91 e successive aggiunte e modificazioni”. Come vedremo lo Stato avrebbe solennemente disatteso queste provvidenze minime per l’avvio della Regione, e molti anni dopo la Consulta con una delle sue tante pronunce immorali avrebbe ridotto a zero la portata di questa norma, di per sé chiarissima nel suo significato letterale. In teoria lo Stato doveva uscire dalla Sicilia, mantenendo solo modestissime forze armate convenzionali, secondo il Trattato di Parigi dal quale la sovranità dell’Italia sulla Sicilia resta menomata. In pratica lo Stato avrebbe dovuto mantenere in Sicilia alle proprie dipendenze dirette solo le Forze Armate, che – peraltro – ai sensi del Trattato di Parigi del 1947, si sarebbero dovute ridurre a poche forze convenzionali nazionali, con completa smilitarizzazione delle Isole Pelagie e di Pantelleria. Anche queste ultime (le Forze Armate) in casi speciali potevano essere messe al comando del Presidente della Regione.
Anche in materia di enti locali la Sicilia doveva costituire un ordinamento proprio, del tutto autonomo rispetto a quello italiano, e soggetto alla potestà legislativa esclusiva della Regione. Per quanto riguarda il potere giudiziario, la Magistratura sarebbe dovuta restare statale, ma i Siciliani avrebbero dovuto trovare nell’Isola, come era nella loro secolare tradizione, ogni ordine e grado di giudizio, dalla Corte dei Conti, al Consiglio di Stato (questi effettivamente istituiti come sezioni speciali degli organi centrali), alla Corte di Cassazione (questa mai ricostituita). La Regione disponeva anche di una “Corte costituzionale speciale”, l’Alta Corte per la Regione Siciliana, di nomina paritetica tra Stato e Regione, con il compito di giudicare sulla costituzionalità delle leggi regionali, sui conflitti di competenza tra Stato e Regione, nonché – in sede penale – come “tribunale” del Presidente della Regione e degli Assessori per i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni.
Da un punto di vista finanziario la separazione dei conti tra Stato e Regione era pressoché totale: lo Stato avrebbe dovuto conservare pochi beni demaniali destinati alla difesa o a servizi pubblici di interesse nazionale e devolvere tutto il restante patrimonio alla Regione.
La Regione avrebbe avuto uffici finanziari propri, con i quali avrebbe tassato, secondo proprie leggi, alla pari di uno stato sovrano, tutte le fattispecie tributarie il cui presupposto fosse maturato nel proprio territorio. Gli unici rapporti finanziari con lo Stato erano dati da un numero limitato di entrate riservate allo Stato (per garantire i servizi comuni) e su un “Fondo di Solidarietà Nazionale”, che lo Stato avrebbe dovuto garantire alla Regione per spese di carattere infrastrutturale fintanto che il reddito medio dei lavoratori siciliani fosse restato inferiore a quello medio nazionale.
Concludevano l’Autonomia altre norme di grande impatto, come il diritto della Regione a co-decidere con lo Stato i costi dei trasporti e delle tariffe relative, norme doganali speciali, la possibilità di gestire il proprio debito pubblico per mezzo di prestiti interni e finanche la gestione separata, o quanto meno autonoma, delle riserve valutarie per i rapporti con l’estero, per mezzo del Banco di Sicilia, che diventava il principale strumento finanziario della Regione. Lo stesso Statuto disponeva che una Commissione paritetica avrebbe, nel giro di pochi anni, disposto le norme attuative indispensabili al decollo dell’Autonomia e al trasferimento alla Regione dei dipendenti dello Stato.
Rispetto a questo modello “teorico”, tuttavia, la storia della Sicilia repubblicana sarebbe andata in tutt’altra direzione. La neonata Repubblica si trovò a gestire questa Regione come un fatto compiuto e, sulle prime, si limitò a inquadrare l’Autonomia siciliana in un contesto più ampio. Sull’esempio siciliano tutta l’Italia fu organizzata su basi “regionali” e, a cinque di esse, tra cui la Sicilia, fu garantita un’autonomia speciale.
La Sicilia, quindi, fu costituita formalmente in “Regione a Statuto speciale” dalla Costituzione del 1947, la quale disponeva – nelle norme transitorie – l’emanazione degli Statuti delle Regioni ad autonomia speciale quasi come “Appendice” alla Costituzione stessa. Per la Sicilia, però, essendo già vigente lo Statuto, ed essendo già stata eletta la prima Assemblea, si trattò solo di “ratificare”, con la legge costituzionale n. 2 del 1948, quello che già era lo Statuto speciale concesso nel 1946. In questa legge di ratifica vi fu un ampio dibattito. Il consultore Gaspare Ambrosini (futuro presidente della Corte Costituzionale), già deputato costituente, presentò un emendamento perché le eventuali modifiche per coordinare il testo dello Statuto con quello della Costituzione avvenissero soltanto “di intesa” tra Assemblea e Parlamento. Il Finocchiaro Aprile, costituente indipendentista, che rifiutò la partecipazione di diritto al primo Senato della Repubblica cui aveva diritto in quanto aventiniano, presentò un emendamento perché lo Statuto restasse così com’era, intoccabile. Prevalse una versione in cui lo Stato avrebbe avuto il potere, entro due anni, di apportare modifiche unilaterali allo stesso con legge ordinaria, sempre al fine del coordinamento. Fortunatamente per la Sicilia, però, il comma che introduceva questa possibilità fu dichiarato incostituzionale dall’Alta Corte già nel 1948, facendo letteralmente “inghiottire sano” lo Statuto siciliano nella Costituzione, proprio come voleva il Finocchiaro Aprile, il quale nel frattempo, ritirato dalla politica, era diventato proprio giudice costituzionale componente dell’Alta Corte insieme a Don Sturzo e ad Ambrosini.
Tra il 1947 e il 1949 una parte dell’Autonomia trovò reale attuazione: devoluzione di molte entrate tributarie, ampia autonomia legislativa, istituzione dell’Alta Corte, etc. Si costituì regolarmente il Parlamento regionale, l’Assemblea, così come la Giunta regionale di Governo, composta in genere da 12 assessorati regionali, su un modello in miniatura dello Stato italiano. Si è già detto della slealtà dello Stato nell’omettere il passaggio di poteri e di risorse. Ma Giuseppe Alessi, primo presidente, fu pronto a dare un ordine alle Intendenze di finanza per farsi “passare” direttamente tutta una serie di tributi. Lo Stato dovette ratificare, nel 1948, questo colpo di mano coraggioso del primo presidente della Regione autonoma, con un accordo finanziario provvisorio che statuiva che la Regione, in attesa di poter esercitare la propria potestà tributaria attiva, introitasse quasi tutti i tributi erariali “devoluti”.
Da allora in poi, il processo di attuazione dello Statuto subì prima un rallentamento, poi un arresto, poi le norme attuative vennero emanate su un arco di tempo pluridecennale, in maniera sempre più lontana dal dettato originale, infine incominciò un lento processo di normalizzazione, rispetto alle Regioni a statuto ordinario, con il sostanziale abbandono dell’impianto statutario, ancora formalmente vigente, ma in gran parte, e sempre di più, lettera morta.
La risposta va data, in ultima analisi, nella sostanziale assenza, se non episodicamente, di partiti che si richiamassero all’Autonomia siciliana all’interno del Parlamento regionale, nonché al persistere di strutturali rapporti coloniali tra Sicilia e Italia, ai quali le classi dirigenti isolane ormai subalterne non furono mai estranee. Ad ogni modo, seppure ridimensionato rispetto al modello teorico confederale, l’originario autonomismo democristiano aveva una sua dignità. Sin dalle prime elezioni regionali, infatti, prevalse il centrismo democristiano, dapprima fragile e incerto, poi, man mano che le strutture di potere si andavano consolidando, sempre più robusto e monolitico, senza alcuna sostanziale possibilità di ricambio. Il primo decennio, tuttavia, segnato da presidenze tutto sommato “nobili”, come quelle di Giuseppe Alessi, Franco Restivo e, per certi versi, anche quella di Giuseppe La Loggia, pure già più centralista, segnano un’effettiva fase positiva della Regione che, tra mille difficoltà e con il boicottaggio palese da parte dello Stato, riesce ad ottenere alcuni traguardi.
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