- Storia della Sicilia del professore massimo Costa 44
- La rivolta separatista del “Sette e mezzo” e la sua repressione
- La Sicilia sotto il commissariato militare del Medici
- Con la soppressione dell’Apostolica Legazìa (1871) la Chiesa di Sicilia perde la sua millenaria autonomia
- Con la caduta della Destra Storica la mafia va saldamente al potere
- Introduzione di un sistema scolastico moderno e declassamento politico del Siciliano a “dialetti”
- L’inchiesta di Franchetti e Sonnino
- L’irrisolta Questione Agraria
- La “colonizzazione” siciliana del Nordafrica
- Arrivano i Socialisti
- I Fasci Siciliani
- Al primo Congresso i Fasci divisi tra “Italianisti” e “Sicilianisti”
- La repressione di Crispi e nuovo commissariamento militare sotto il Morra di Lavriano
- Il misterioso “Trattato di Bisacquino”
STORIA DELLA SICILIA DEL PROFESSORE MASSIMO COSTA 44
La soppressione degli enti ecclesiastici occasione per la più grande rapina di risorse ai danni della Sicilia
di Massimo Costa
La Sicilia, dalle elezioni politiche del 1865 a quelle del 1876, dà la maggioranza dei seggi all’opposizione e sempre più con il passare degli anni. Il 1865 vede la spoliazione del colossale patrimonio accumulato nei secoli dagli enti ecclesiastici, i quali avevano sino ad allora svolto funzioni di previdenza e assistenza sociale, soprattutto per i ceti artigianALi urbani. Questo patrimonio verrà reinvestito solo in minima parte in Sicilia. Si trattò di una vera e propria rapina, che tra l’altro lasciò nella disperazione migliaia di famiglie isolane. In pochi anni il governo “moderato” era riuscito a mettere tutti d’accordo: repubblicani, sinistra moderata, indipendentisti o autonomisti, clericali, borbonici. D’accordo sul fatto che “si stava meglio quando si stava peggio”.
La rivolta separatista del “Sette e mezzo” e la sua repressione
Il 1866, proprio durante la III guerra d’Indipendenza italiana, a Palermo scoppia una rivolta separatista, che presto dilaga in altri centri dell’Isola. Fu chiamata “del Sette e mezzo” per la sua durata. Protagonisti delle barricate sono in gran parte le stesse persone che sei anni prima avevano fatto le barricate per Garibaldi. Si costituisce un Governo provvisorio guidato dal Principe di Linguaglossa. La repressione italiana, guidata dal generale Raffaele Cadorna, è spietata, a capo di un corpo di spedizione di ben 30.000 uomini. Palermo è cannoneggiata dal mare. I morti si contano innumerevoli e sono poi registrati come “morti per colera”. Solo il sindaco di Palermo, il Marchese Di Rudinì, resta fedele allo Stato italiano, asserragliato nel Palazzo di Città. Alcuni storici sospettano che tanta capacità di
resistenza sia stata favorita da interferenze straniere, ma a noi non pare un’interpretazione credibile. Il “Sette e mezzo” fu soltanto una risposta disperata, spontanea e acefala della Sicilia alla barbara invasione, a una delle più dure dominazioni mai subite durante la propria lunga storia.
La Sicilia sotto il commissariato militare del Medici
La Sicilia è nuovamente sotto stato d’assedio. Segue una nuova amministrazione militare dell’Isola, affidata ora al generale Medici. Per placare l’opinione pubblica internazionale, si dispone una commissione d’inchiesta parlamentare. Ma questa arriva a conclusioni che la storiografia considera come minimizzanti rispetto ai veri drammi dell’Isola, giacché lo Stato italiano non avrebbe potuto mai
mettere sé stesso sul banco degli imputati. Va dato tuttavia al Medici il merito di avere iniziato a migliorare la viabilità dell’Isola, attraverso un programma di costruzioni di strade e ferrovie. Probabilmente le comunicazioni erano allora viste come funzionali agli spostamenti delle truppe italiane d’occupazione, ma indirettamente favorivano la modernizzazione della Sicilia. Passato il primo trauma, del resto, sia pure faticosamente e piegato dal colonialismo interno, il Paese riprendeva un proprio cammino verso la modernizzazione e lo sviluppo economico, inarrestabile ovunque nell’Europa del secondo XIX secolo.
Con la soppressione dell’Apostolica Legazìa (1871) la Chiesa di Sicilia perde la sua millenaria autonomia
Dopo la presa di Roma, nel 1870, il piccolo partito borbonico svanisce del tutto, confluendo parte nel regionalismo siciliano, parte nel clericalismo. Lo Stato italiano, nella successiva “Legge delle Guarentigie” fatta per tentare di non esasperare i rapporti con il Papato, rinuncia (1871) all’antichissima Apostolica Legazìa sulla Sicilia, alla quale neanche l’Italia unita aveva sino ad allora rinunciato. Già il Papa nel 1864 con un suo “Breve”, non ancora riconosciuto dall’Italia, l’aveva ritirata cogliendo l’occasione della ormai definitiva scomparsa del Regno delle Due Sicilie; così la Chiesa romana, pur non riconoscendo la Legge delle Guarentigie, tornava in possesso del controllo sulla Chiesa siciliana dopo più di mille anni (da quando, nel 733, Leone III Isaurico, l’aveva tolta alla giurisdizione papale, poi restando autocefala anche nel periodo di dominazione musulmana, e sotto l’autorità del Gran Conte Ruggero alla “riconquista”, fino a quando, nel 1098, Urbano II, appunto con l’Apostolica Legazìa, si limitò a riconoscere la condizione di fatto per cui la Chiesa Siciliana era dipendente dal Re, in quanto Legato apostolico “nato”).
Con la caduta della Destra Storica la mafia va saldamente al potere
Negli anni ’70 non finiscono i provvedimenti straordinari di pubblica sicurezza, militari e di polizia, contro la Sicilia, trattata ancora come un paese straniero occupato. Nel 1876, infine, la Destra storica è rovesciata alle elezioni. Ma la Sicilia che ora va al potere con la Sinistra è ormai una Sicilia “malata”: una classe dirigente più o meno apertamente mafiosa, in piena collaborazione con lo Stato. Le successive elezioni confermano questa maggioranza, già “azionista” e crispina, e ora trasformista. L’opposizione invece è ora rappresentata dalla destra dei moderati del Di Rudinì, e dalla sinistra estrema dei radicali.
Introduzione di un sistema scolastico moderno e declassamento politico del Siciliano a “dialetti”
Vi è però anche da dire che con la Sinistra viene resa obbligatoria e gratuita l’istruzione elementare; l’antico progetto della Costituzione siciliana del 1812 diventa realtà solo 70 anni dopo circa, dopo un indubbio, seppur lento, miglioramento generale della pubblica istruzione che data dall’Unità, quando venne estesa alla Sicilia la Legge Casati del 1859 che regolava la pubblica istruzione nel Regno di
Sardegna. Tale obbligo resta però in gran parte teorico, giacché è affidato alle esangui casse comunali, e la scolarizzazione, come la penetrazione della lingua italiana parlata, fa solo lentissimi progressi durante tutta l’epoca monarchica, essenzialmente grazie al servizio militare obbligatorio, alla scuola, alla I Guerra mondiale, con la sua leva di massa, e infine, sul finire di quest’epoca, durante il Fascismo, alla diffusione della radio. Man mano che l’italiano lentamente avanza, il siciliano arretra, soprattutto nella considerazione sociale, restando comunque il principale strumento di comunicazione tra siciliani nella vita di tutti i giorni. Dopo l’Unità d’Italia, esso viene politicamente e ideologicamente relegato a dialetto, e in quanto tale combattuto, o al più tollerato, ma evidenziandone le differenze di pronuncia e di grafia da distretto a distretto, tentando di far perdere quella tradizione letteraria unitaria che, nonostante il declassamento già subito in era borbonica, non si era fin lì perduta.
L’inchiesta di Franchetti e Sonnino
Fece scalpore in quegli anni l’inchiesta indipendente di Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, molto meno ottimista di quella parlamentare. Segnata da taluni pregiudizi razziali e antropologici contro l’Isola, esprime pessimismo sull’integrazione della Sicilia con l’Italia e arriva paradossalmente ad individuare come unica soluzione alla Questione Siciliana l’indipendenza. «La Sicilia lasciata a sé troverebbe il rimedio: stanno a dimostrarlo molti fatti particolari, e ce ne assicurano l’intelligenza e l’energia della sua popolazione, e
l’immensa ricchezza delle sue risorse».
L’irrisolta Questione Agraria
La Sicilia rientra ancora nella storia per la irrisolta Questione Agraria. Gli agrari sono ancora in possesso di vastissimi e improduttivi latifondi, non troppo diversamente dai tempi del feudalesimo. In Sicilia penetrano le idee socialiste, e queste hanno successo tanto tra gli operai e gli artigiani delle città, quanto soprattutto nelle campagne. Altro settore portante nel “primario” è lo zolfo. La Sicilia arriva ad estrarre i tre quarti dello zolfo mondiale, con metodi di produzione primitivi e rapporti di lavoro ai limiti della schiavitù (celebre il caso dei “carusi”, ragazzi di famiglie povere letteralmente venduti ai minatori, e che raramente arrivavano alla maggiore età); come nelle classiche colonie, tuttavia, la Sicilia non aveva quasi alcun ruolo nelle fasi successive di raffinazione dello zolfo o della realizzazione dei prodotti finiti.
La “colonizzazione” siciliana del Nordafrica
L’occupazione francese della Tunisia, nel 1881, rappresentò un duro colpo per il commercio siciliano, che si era molto espanso sulla sponda opposta; questo non arrestò però il flusso migratorio, da vera colonizzazione demografica, che si era spinto verso quel paese. Le speranze che l’Italia prendesse un’iniziativa coloniale su quel versante però erano venute meno, e la conquista, circa 30 anni dopo,
della Libia, non avrebbe avuto lo stesso effetto economico per la Sicilia, a parte il ruolo privilegiato che sarebbe stato assegnato al Banco di Sicilia, attraverso la controllata “Banco di Tripoli”, per l’emissione di moneta bancaria nel nuovo possedimento italiano.
Arrivano i Socialisti
Gli anni ’80 però vedono un’altra novità politica. Il mondo “socialista” si distingue ora nettamente dalla sinistra radicale estrema o repubblicana o anarchica e acquisisce una propria identità. Con il socialismo entrano in politica masse popolari che prima ne erano sempre state ai margini. È vero che, sin dai tempi dell’Antico Regime, il popolo era spesso intervenuto nelle rivolte, ma per “popolo” si
intendeva spesso soltanto le corporazioni artigiane o i borgesi dell’entroterra, non il vero proletariato. Questo era progressivamente entrato in gioco nelle diverse rivoluzioni ottocentesche, fino al “Sette e mezzo”, ma sempre in una posizione subalterna, consegnando la guida politica alla fin fine alle solite élite, più o meno aristocratiche. Adesso il popolo più minuto, artigiano, ma ora anche operaio, diventa un soggetto sociale e politico autonomo. Dapprima, già subito dopo l’Unità d’Italia, si erano costituite diverse “società di mutuo soccorso”, soprattutto dopo lo scioglimento delle corporazioni religiose che in passato avevano svolto funzioni assistenziali, ma progressivamente queste assunsero anche una dimensione sindacale. Il punto di fusione si ebbe quando questo mondo operaio e popolare, ma a poco a poco anche contadino, prese a incontrarsi con le idee socialiste.
I Fasci Siciliani
Lo strumento politico-sindacale di questo nuovo mondo fu il “Fascio”, cioè la riunione in unica associazione di più organizzazioni appartenenti a varie categorie produttive. In questi Fasci, per la prima volta assoluta nella storia, molte iscritte donne, sia pure con una loro sezione, che inaugurano così la loro partecipazione attiva alla vita pubblica siciliana. Se il primo “Fascio” ad essere costituito fu quello di Catania, nel 1891, ad opera del socialista (ma anche un po’ eclettico “cambiacasacca”) De Felice Giuffrida, più volte deputato, con finalità anche di tipo assistenziale, il più importante, dal punto di vista degli eventi successivi, fu quello di Palermo (aperto nel 1892, ad opera di Garibaldi Bosco), che divenne in breve il centro dell’agitazione “fascista” in tutta l’Isola. Se all’inizio questo si rivolgeva alle comunità operaie, ormai presenti un po’ in tutta l’Isola, ben presto il “fascismo siciliano” penetrò nelle campagne, tra i braccianti e i minatori dell’industria zolfifera, quasi sfuggendo di mano agli stessi organizzatori e diventando un fenomeno di massa. Ciò avvenne soprattutto dopo l’eccidio di Caltavuturo, nel 1893, quando l’esercito sparò su contadini colpevoli di avere occupato le terre demaniali di cui si era impadronita illegalmente la borghesia agraria del paese. Fu come una scintilla. In pochi mesi i Fasci in Sicilia contavano più di 70.000 iscritti, diventando così una minaccia per l’ordine costituito. Curiosamente, ma fino a un certo punto, il socialismo siciliano non aveva in sé nulla di materialistico o antireligioso, essendo tutt’al più anticlericale; si pensi che in tutte le sedi dei Fasci immancabile era l’immagine del Cristo e del santo protettore del paese. Intorno a questa massa contadina, intellettuali, ma anche borghesi illuminati e
aristocratici “pentiti” si convertivano alla bandiera rossa.
Al primo Congresso i Fasci divisi tra “Italianisti” e “Sicilianisti”
A maggio del 1893 si tenne Congresso e i Fasci si diedero un’organizzazione più stabile, sotto il coordinamento del Fascio di Palermo. Il Bosco voleva inserire stabilmente i Fasci nel nascente Partito Socialista dei Lavoratori Italiano; De Felice voleva invece creare un partito autonomo siciliano. Si arrivò al compromesso di avere una sorta di partito proprio, con tanto di Comitato Centrale, bensì federato e integrato nel socialismo italiano. Furono costituite federazioni provinciali. Del Comitato centrale fecero parte un rappresentante per ogni federazione provinciale, più tre per la sola federazione di Palermo, la più organizzata e potente. All’inizio i Fasci facevano solo scioperi e manifestazioni sindacali, senza alcunché di sovversivo o rivoluzionario. Ma ai tempi lo stesso sciopero era in sé un fatto percepito come sovversivo.
La repressione di Crispi e nuovo commissariamento militare sotto il Morra di Lavriano
I “borghesi” e gli “aristocratici” erano spaventati da questa presenza e chiesero aiuto al Governo, allora guidato dal siciliano Francesco Crispi. Questi impose lo stato d’assedio (1894) e affidò ancora una volta la Sicilia all’amministrazione militare, questa volta del generale Morra di Lavriano. I Fasci furono sciolti e i principali capi arrestati. Nonostante alcuni tumulti e la scelta, forse irresponsabile, del De Felice di puntare sull’insurrezione, il Governo ebbe la meglio. In Sicilia fu sospeso il diritto di associazione e riunione garantito dallo Statuto Albertino. Va anche detto che, nel momento decisivo, il Partito Socialista dei Lavoratori Italiano sconfessò i Fasci siciliani, determinandone il totale isolamento.
Il misterioso “Trattato di Bisacquino”
Crispi accusò in Parlamento i Fascisti di tramare con le potenze dell’Intesa (e in particolare con la Francia e la Russia) per “staccare la Sicilia dall’Italia”; ciò che sarebbe avvenuto in un misterioso “Trattato di Bisacquino”. Le opposizioni, a partire dall’autonomista Colajanni, ridicolizzarono l’accusa e ad essa gli storici oggi non danno molto credito. Sta di fatto che, ogniqualvolta la Sicilia alzasse la testa, arrivava implacabile l’accusa “infamante” di “separatismo”.
Ma la repressione non può sradicare la “Questione Siciliana”, che ormai non è solo più agraria ma politica
Degno di nota, segno di cambiamento dei tempi, fu il fatto che i dirigenti non vennero impiccati o fucilati, come sarebbe avvenuto solo trent’anni prima, ai tempi della Guerra al Brigantaggio, ma solo arrestati. Il processo, presso il Tribunale militare di Messina, si rivelò un boomerang mediatico per il Governo, che fu accusato di processare le idee, di essere ingiusto, di attaccare persone oneste colpevoli solo di difendere la povera gente. Nonostante le pene severissime comminate (fino a 18 anni di carcere), le questioni sociali e politiche poste restavano in agenda politica, né il socialismo era stato sradicato dalla Sicilia.
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