Curioso notare che il Depretis formalmente riapre la zecca di Palermo, ma questa di fatto, pur essendo riconosciuta da successiva legge del Regno d’Italia, non avrebbe mai più ripreso effettivamente a funzionare. Come nel 1820 e nel 1848 valuta nominale del rinato (anche se fantoccio) Stato di Sicilia è l’onza siciliana, al posto del ducato duosiciliano. Anche le rivendicazioni contadine sono soffocate. Per proteggere la “Ducea di Nelson”, in mano a proprietari inglesi, Nino Bixio, luogotenente di Garibaldi, manda l’esercito a reprimere la popolazione, fucilando capi e gregari della protesta contadina. Bixio, oltre a macchiarsi nell’occasione di veri crimini di guerra, avrebbe avuto parole sprezzanti per i Siciliani, definito popolo incivile da deportare in qualche isola africana, dimostrando in tal modo i reali termini della conquista piemontese della Sicilia. Il processo di omologazione con gli stati sardi non si arresta. Depretis “recepisce in Sicilia” lo Statuto albertino il 3 agosto 1860, abrogando così implicitamente lo Statuto del 1848, assai più democratico e carico di significati storici per la Sicilia. Poco dopo adotta la legge comunale e provinciale del Regno di Sardegna, demolendo le autonomie e le disposizioni del 1848 appena richiamate in vigore. Impone a funzionari pubblici ed impiegati civili il giuramento di fedeltà a Vittorio Emanuele II, ancora re di uno stato straniero.
Riprendono così le proteste dei Siciliani, ancor più vigorose di quelle che avevano investito il La Farina. Garibaldi è costretto a sostituire il Depretis con Antonio Mordini, più sensibile verso gli autonomisti, che convoca per il successivo 21 ottobre un’Assemblea (di fatto è la riapertura del Parlamento) affinché questa decidesse tempi e modi dell’annessione della Sicilia all’Italia. Mordini si rivela buon
amministratore, e complessivamente amico della causa siciliana- Nel frattempo anche Filippo Cordova, approdato come il La Farina al “fusionismo” puro e semplice, è costretto a lasciare la Sicilia. Queste espulsioni dei fusionisti, avallate da Garibaldi, testimoniano della forza sul territorio del partito “autonomista”. L’iniziativa delle elezioni siciliane, però, è valutata con estrema preoccupazione a Torino. Una fusione “federale” avrebbe avuto il significato di una fusione tra pari. E invece doveva essere solo conquista. A Palermo, per finanziare la spedizione, Garibaldi aveva confiscato, proprio come si fa con un paese sconfitto ed occupato, un terzo delle riserve auree del Banco, ribattezzato di “Sicilia” per l’occasione. Il tentativo di Vincenzo Florio di dar vita ad un istituto di emissione “privato”, sul modello dalla Banca Nazionale degli Stati Sardi di Torino, fu bloccato. La conquista doveva procedere spietata. Per smontare l’iniziativa assembleare siciliana, il Pallavicini, pro-dittatore a Napoli, proclama, per lo stesso giorno dei Siciliani, un plebiscito-farsa per l’annessione incondizionata al Piemonte delle “Province Napoletane”, mettendo in luce così lo scarso patriottismo dei Siciliani, che invece volevano convocare un Parlamento. A Napoli, sia pure sotto molte titubanze, l’esempio dei Siciliani era piaciuto e avrebbero voluto convocare un’assemblea pure loro, ma sia Garibaldi sia Cavour temevano in maniera fondata che un’assemblea del Sud Italia avrebbe espresso quanto meno una fortissima minoranza filoborbonica, e questo, sul piano dell’immagine internazionale era inaccettabile. Da qui l’ordine di Garibaldi al Pallavicini di procedere senza indugio al Plebiscito “per le Provincie Continentali”.
La Sicilia rimase così isolata e fu costretta, da quello che formalmente era ancora uno stato straniero, ad adeguarsi e a celebrare essa stessa un plebiscito-farsa, al posto dell’elezione dell’Assemblea. Le pressioni da Torino, e forse la corruzione, sotto promessa di ruoli di prestigio nel nuovo Stato, erano di giorno in giorno crescenti. Va detto – in tutta onestà – che la scelta ultima non fu presa da Garibaldi, il quale, consultato dal Mordini sul da farsi, rispose pilatescamente: “Fate come volete”. L’iniziativa era ormai nelle mani del Governo piemontese, e la Sicilia non aveva in quel momento alcuna forza da opporre seriamente all’annessione. Per non darla del tutto vinta ai Piemontesi, il pro-dittatore nominò, quale ultimo atto politico di questo effimero Stato di Sicilia, un “Consiglio Straordinario di Stato”, presieduto da Gregorio Ugdulena e composto da 36 membri, con le stesse funzioni dell’Assemblea che era stata inibita, ma certamente dotato di minore legittimazione democratica: “incaricato di studiare ed esporre al Governo quali sarebbero nella costituzione della gran famiglia italiana gli ordini e le istituzioni a cui convenga portare l’attenzione, perché rimangano conciliati i bisogni peculiari della Sicilia con quelli generali dell’unità e prosperità della Nazione Italiana”. Mordini, che pure siciliano non era, difese fino all’ultimo gli interessi della Sicilia. Lo fece solo per contrastare il Cavour? Certo è che lo fece con estrema sincerità: in una corrispondenza con Garibaldi, finché possibile caldeggiava la convocazione dell’Assemblea, assicurando che in tal modo ci si sarebbe assicurato che “i separatisti non facciano
paura”, rivelando così quali erano i reali timori che i politici italiani, tutti, avevano nei confronti della sorte politica della Sicilia.
Il Plebiscito, celebrato il 21 ottobre 1860, fu un atto giuridicamente nullo. Sotto la minaccia delle baionette, tutti i cittadini maschi (ma anche i soldati piemontesi affluiti nel frattempo) erano chiamati a scegliere tra due schede prestampate, una colorata prestampata con il SI, l’altra bianca prestampata con il NO, da depositare in due urne diverse, quindi senza alcun voto segreto. Il quesito poi chiedeva
un’adesione incondizionata a un’Italia che ancora non esisteva, e non indicava alcuna alternativa, o l’annessione al Piemonte per fare l’Italia con Vittorio Emanuele e i suoi successori, o il caos: «Il popolo vuole l’Italia una e indivisibile con Vittorio Emanuele Re costituzionale e suoi legittimi discendenti». In queste condizioni il risultato, sin troppo scontato, fu quello di una valanga di SI (432.053), ciò che avrebbe giustificato i seguenti atti giuridici di annessione, e solo 667 NO, di coloro che coraggiosamente intesero sfidare la violenza politica in atto. Il Consiglio di Stato consegnò a novembre, quando ormai il governo della Dittatura stava trasmettendo al Piemonte i poteri, una relazione (elaborata da Michele Amari e Stanislao Cannizzaro) che, se accolta, avrebbe consentito alla Sicilia di mantenere una significativa autonomia: Consiglio legislativo proprio (piccolo parlamento regionale), Esclusiva sul regime tributario, Luogotenenza separata per l’esecutivo, sottoposta a fiducia da parte del Consiglio elettivo, Magistratura indipendente. Soprattutto l’idea di un piccolo parlamento regionale destò grande scandalo in Italia, dove vedevano l’autonomia come un vero attentato all’unità del paese (l’autonomia di una Terra – va detto – che non era sino ad allora mai stata parte dell’Italia e che aveva secoli di tradizioni parlamentari proprie). Vittorio Emanuele II ignora la richiesta di Autonomia del Consiglio di Stato Siciliano e istituisce una Luogotenenza militare con un decentramento puramente amministrativo Il Re Vittorio Emanuele II ignorò questa richiesta, limitandosi ad ammettere un piccolo decentramento amministrativo, con un governo della Luogotenenza, come sotto i Borbone. Al passaggio di consegne tra il Governo della Dittatura, il 3 dicembre 1860, lo “Stato di Sicilia” è definitivamente estinto, dopo circa 730 anni dalla sua rinascita. E proprio come sotto i Borbone furono ricostituite le odiate “intendenze”, sotto il nuovo nome di “provincie”, mentre i distretti del Regno di Sicilia furono degradati a circondari. L’amministrazione provinciale fu affidata a Prefetti che si comportavano come governatori coloniali inviati in una terra lontana ed ostile. I passaggi formali successivi, di annessione delle “Provincie Siciliane”, già consegnate a Vittorio Emanuele, all’interno del Regno di Sardegna (dicembre 1860), e l’anno dopo la trasformazione di questo in “Regno d’Italia” (febbraio 1861) sono
semplicemente atti dovuti.
Il Luogotenente era un po’ rappresentante del Re in Sicilia, un po’ Capo autonomo dell’Esecutivo. Sarebbe dovuto essere un po’ come gli antichi viceré; in realtà si alternarono soltanto tre generali piemontesi (Montezemolo, Della Rovere e Pettinengo) che intesero la loro funzione come una occupazione militare pura e semplice che fece rimpiangere persino il caos dell’amministrazione dittatoriale garibaldina. I pochi vantaggi dell’annessione: un moderatissimo diritto di voto, un po’ di libertà di stampa, la libertà di culto… La Sicilia politica era conquistata, anzi annientata. Tra i pochi vantaggi dell’annessione un moderatissimo ordinamento liberale (votava per i consigli comunali e per le politiche meno del 2% della popolazione), una moderata libertà di stampa, l’introduzione della libertà di culto, con la quale i Siciliani, abituati da secoli solo alla religione cattolica, videro con un certo disappunto lo stabilimento di piccole comunità valdesi venute dal nord. Nel complesso, tuttavia, il protestantesimo non avrebbe mai attecchito in Sicilia se non in piccole comunità, così come altre religioni, e ciò sino ai giorni nostri.
Le prime elezioni (1861), pilotate dai prefetti, a suffragio ristrettissimo, videro vincere di misura la Destra storica al Governo con una forte opposizione di azionisti, autonomisti e clericali. Sarebbe stata l’unica volta in cui i “moderati” filo-piemontesi avrebbero vinto in Sicilia. Come curiosità linguistica piace ricordare che nelle primissime legislature i deputati siciliani, di maggioranza e di opposizione, solevano spesso riunirsi tra loro prima delle sedute ufficiali per parlare “più liberamente”, praticamente in Siciliano. L’Italia unita, infatti, creando una comunità politica e un servizio militare obbligatorio, costringeva per la prima volta nella storia i Siciliani ad un uso della lingua italiana “vivo” che in passato, anche sotto le “Due Sicilie” raramente era servito all’infuori della lingua scritta o di qualche occasione
particolarmente formale.
L’odio crescente verso il nuovo governo non avrebbe consentito di replicare mai più questo effimero successo, persino nel regime di suffragio ristrettissimo. I Governi della Destra governavano la Sicilia, infatti, con uno stile poliziesco tale da far rimpiangere a qualcuno persino il cessato governo borbonico (il che non a caso determinò la nascita, per la prima volta nella recente storia, di un piccolo partito
“legittimista”), non disdegnando tuttavia di appoggiarsi ai servizi della neonata mafia, se necessario, come quasi certamente nella “Congiura dei Pugnalatori” (1862) o nell’eliminazione di qualche garibaldino troppo scomodo (Giovanni Corrao, nel 1863), anche per favorire un clima di terrore che giustificasse poi provvedimenti eccezionali.
Parte dell’opposizione siciliana al nuovo governo è di matrice garibaldina, come testimoniato dal successo nel reclutamento di Garibaldi nella “marcia su Roma” del 1862, finita poi sfortunatamente per lui sull’Aspromonte. I Siciliani postunitari quindi attribuivano le loro sventure al governo moderato e alla ferocia dei Piemontesi, e non al processo unitario in quanto tale, laddove il mito garibaldino sarebbe restato per più di un secolo circondato quasi da un’aura di sacralità, a posteriori certamente non troppo meritata. Garibaldi raccolse forze quindi già disamorate nei confronti del nuovo governo, ma ancora genuinamente legate al mito che questi aveva creato. Il Governo italiano del Rattazzi ambiguamente lasciava fare, mentre lui passava da Palermo a Catania e poi si imbarcava per la Calabria, dove – comprendendo lo Stato che non si poteva sfidare la Francia – fu brutalmente fermato, ferito e imprigionato. Si vuole ricordare anche il sacrificio dei garibaldini rimasti al di qua dello Stretto, braccati dall’esercito regolare e infine fermati a Fantina, dove furono tutti imprigionati e i disertori dell’esercito regolare (ma anche alcuni innocenti) fucilati senza processo. In realtà dietro quel grido “O Roma o
Morte!” si nascondeva un antico malessere delle plebi siciliane, sempre represso, e certamente mal indirizzato verso un obiettivo che poco aveva a che vedere con la Sicilia.
La Sicilia non conobbe invece la Guerra del Brigantaggio del Sud Italia; troppo filoborbonica per un Popolo che con i Borbone aveva ancora un conto aperto. Ma non per questo mancarono altri disordini. Una rivolta a Castellammare nel 1862 fu l’occasione per proclamare il primo stato d’assedio (ne sarebbero stati proclamati ben tre nel XIX secolo) e sospendere le garanzie costituzionali. Con
l’occasione fu revocato il Governo della Luogotenenza, ultima larva di decentramento amministrativo, e tutta l’amministrazione affidata ai prefetti, oltre che di fatto alle forze armate occupanti, guidate ora dal generale Govone. Nel 1863 è estesa alla Sicilia la terribile “Legge Pica” che sostanzialmente sospendeva lo Stato di diritto e consentiva all’esercito italiano esecuzioni sommarie. Le proteste a Torino dei deputati “regionisti” sono schiacciate da un Parlamento italiano che dà piena copertura politica ad ogni repressione.
Dal 1861 al 1865 tutte le legislazioni preunitarie sono soppresse, e la legge e le dogane piemontesi estese a tutto il Regno. Le istituzioni siciliane, le poche sopravvissute all’accentramento borbonico, sono progressivamente dissolte, con la sola eccezione della Corte di Cassazione e dell’Istituto di emissione, che sarebbero giunte sino ad epoca fascista. L’onza siciliana, la moneta che aveva accompagnato la Sicilia praticamente da sempre, è abbandonata e convertita con il rapporto di 12,75 lire italiane per un’onza siciliana (e quindi 4,25 lire per ogni ducato napoletano). La moneta emessa dal Banco di Sicilia, in parità 1 a 1 con le proprie riserve auree, e quella emessa dal Banco di Napoli, in parità 1 a 2, è scambiata alla pari con quella emessa dalla Banca Nazionale di Torino, in parità soltanto 1 a 3, con il risultato che i metalli pregiati spariscono rapidamente dal Mezzogiorno per affluire al Nord a favorire il decollo di quella parte del Paese. Le tasse, rispetto al passato regime, sono di colpo moltiplicate. Praticamente dal nulla compare una “Questione Meridionale” e così pure la “Mafia”, laddove questi fenomeni non erano mai esistiti né conosciuti prima. Particolarmente odiata, e dannosa da un punto di vista economico, l’introduzione della leva obbligatoria, mai riuscita in Sicilia ai Borboni, che si erano limitati a tenerla nel Napoletano (forse anche per mancanza di fiducia nei Siciliani); leva che teneva i giovani nel fiore degli anni lontani per 5 o 6 anni sottraendoli al loro lavoro, alla loro famiglia, per andare a servire un Paese percepito come alieno e lontano, dove si parlava una lingua sconosciuta ai più, spesso andando a morire per guerre di cui si ignorava la ragione. Fino alla fine del XIX secolo si hanno testimonianze di fiera resistenza, anzi di vera e propria renitenza alla leva, finché anche questo carattere atavico di libertà dei Siciliani non fu estirpato e la leva non entrò nella cultura locale come un fatto normale.
Unico corpo tipicamente siciliano che sopravvive, specifica polizia rurale siciliana, è il “Corpo dei Militi a Cavallo”, un’istituzione che, attraverso vari cambi di nome (dapprima “Compagnie d’Armi”, poi “Gendarmeria reale” sotto i Borboni), risaliva addirittura al Regno di Carlo I (V S.R.I.) e che aveva in gran parte il compito di tenere l’ordine pubblico nelle campagne, in modo parallelo alle “guardie campestri” baronali, invece sostanzialmente private. Accusato il corpo di collusione con il malaffare, in gran parte ingiustamente, dalle inchieste di Franchetti e Sonnino, i suoi militi sono licenziati quasi tutti in tronco nel 1877, e i superstiti decimati trasformati in un corpo accasermato di “Guardie di pubblica sicurezza a cavallo”, che sarà definitivamente sciolto nel 1892. I “militi a cavallo”, non accasermati, a differenza dei carabinieri, visti come occupanti stranieri, garantirono il difficile passaggio nei primi anni dell’Unità d’Italia e furono
protagonisti di azioni a dir poco eroiche in una Sicilia in cui lo Stato italiano era del tutto incapace di mantenere l’ordine pubblico, forse proprio perché più vicini alla cultura e mentalità delle persone su cui dovevano vigilare. La loro dispersione e soppressione fu uno dei tanti atti di razzismo interno del nuovo Stato italiano. In qualche modo essi sarebbero “risorti” nell’attuale Corpo Forestale della
Regione, l’unico corpo di polizia che l’Italia avrebbe devoluto alla Regione siciliana dopo la sua istituzione (1946).
Fine 43esima puntata Continua
Foto tratta da Senza Linea