di Massimo Costa
La Rivoluzione carbonara di Napoli del 1820, con la quale i liberali napoletani richiedevano per le Due Sicilie la Costituzione spagnola liberale di Cadice del 1812, fu un’occasione anche per la Sicilia. Mentre a Messina semplicemente fu annunziata la Costituzione, quando la notizia arrivò a Palermo, nel giorno di Santa Rosalia, si chiese l’indipendenza e la Costituzione del 1812, almeno da parte del partito dei “cronici”. Gli “anticronici” (cioè ora i democratici) si sarebbero forse accontentati della costituzione spagnola proclamata a Napoli, ma erano ancor più rigorosi sull’indipendenza da Napoli. Il luogotenente Naselli non gestì bene la vicenda e, dopo che la truppa mercenaria tentò di sparare sul popolo, una ribellione lo cacciò, e si costituì un Governo provvisorio. I rivoltosi, se fosse stato concesso di mantenere lo Stato di Sicilia con la Costituzione del 1812, sarebbero anche stati disposti a negoziare alcune cessioni di sovranità a Napoli. Ma la risposta dei liberali napoletani fu negativa. I carbonari messinesi, in chiave anti-palermitana, sconfessarono questa richiesta e si dichiararono fedeli a Napoli, dividendo il fronte nazionale.
Le “intendenze”, infatti, avevano gratificato 6 città dell’Isola, con una serie di impieghi pubblici prima inesistenti, e quindi questo le aveva legate al nuovo regime. Fu così che solo Girgenti (Agrigento) e a fatica seguì Palermo, mentre gli altri capoluoghi si mantennero fedeli a Napoli. Ma non così gli altri Comuni, che in stragrande maggioranza (più di due terzi) si ribellarono e aderirono alla Rivoluzione. In pochi giorni quasi tutta la Sicilia, fino alle porte dei nuovi “capoluoghi”, riconosceva il governo provvisorio. La Giunta rivoluzionaria fu ampliata ai rappresentanti delle città in rivolta costituendo quasi un nuovo parlamento rivoluzionario di 77 componenti.
Questa decise di “conquistare” le città ribelli con la forza, dando vita ad una guerra civile, quando ancora Napoli non era in grado di reagire. La guerra fratricida determinò la sanguinosa conquista di Caltanissetta e la sua umiliazione da parte delle truppe palermitane, che arrivarono a isolare la costa ionica da un lato e Trapani dall’altro e a controllare praticamente tutto il resto della Sicilia.
La reazione borbonica, anche sotto il governo liberale, partì da Messina, poi faticosamente deviò verso il Val di Noto risalendo poi verso Palermo. Vedendo che la resistenza siciliana era molto dura, il generale Florestano Pepe negoziò con gli insorti (la “Suprema Giunta Provvisoria” presieduta dal Principe di Villafranca) una convenzione che avrebbe posto fine alle ostilità: «la maggioranza dei voti dei
siciliani, legalmente convocati, deciderà dell’unità o della separazione della rappresentativa nazionale del Regno delle Due Sicilie» e «La Costituzione di Spagna del 1812, confermata da Sua Maestà Cattolica nel 1820, è riconosciuta in Sicilia, salve le modificazioni che potrà adottare l’unico Parlamento, ovvero il Parlamento separato, per la pubblica felicità», «ogni comune eleggerà un deputato». Di fronte a questo saggio compromesso ci furono proteste da entrambe le parti, ribelli e unionisti. I ribelli palermitani, dopo 10 giorni di agitazioni, deposero le armi, pensando di aver quanto meno “pareggiato” con il governo napoletano.
Questo, quand’ebbe conosciuto le richieste dei Siciliani, le rigettò, sconfessando il Pepe, e facendo seguire una dura repressione ad opera del generale Colletta. Questi impose l’elezione dei deputati a Napoli. Nel 1821 fu sostituito dal Nunziante, sotto cui i deputati eletti di Palermo rassegnarono il mandato, dichiarandosi tutti in blocco indipendentisti. Inutili i tentativi concilianti dei deputati catanesi e messinesi di far passare a Napoli l’idea di una unità senza centralismo napoletano, perché in quel mentre anche la rivoluzione liberale di Napoli andava perduta. Ferdinando I (ormai questo era il numero, avendo perso il IV di Napoli e III di Sicilia), riporta l’ordine sulla punta delle baionette austriache, che arrivano fino in Sicilia. Il nuovo regno si rivela quindi nient’altro che un fantoccio di Vienna. La resistenza, tardiva, di Messina, con il Rossarol, che era stata fedele al Governo di Napoli fino a quel momento, non avrebbe arrestato la repressione. Prima di passare alla reazione, Ferdinando aveva assistito alla Convenzione di Lubiana, nella quale le potenze della Santa Alleanza, forse più rispettose di lui dell’Autonomia siciliana, dedicarono alla Sicilia uno specifico protocollo in cui gli imponevano, al fine di evitare futuri disordini nell’Isola, “di separare l’amministrazione di Napoli da quella della Sicilia, conservando attentamente tutti i legami che li uniscono in uno stesso scettro”. Nel successivo incontro di Verona questa separazione tra Napoli e Sicilia, odiata a corte, venne un po’
moderata ma Metternich insistette, con grande lungimiranza politica, sul rispetto del protocollo di Lubiana.
E così il nuovo ordinamento si consolida, replicando in Sicilia gli stessi ordinamenti di Napoli, seppure con numeri di funzionari e compiti ridotti. Viene costituita la Consulta dei “Reali domini al di là del Faro” (lunga perifrasi per intendere la Sicilia, termine a quanto pare innominabile), composta da 8 membri, che – unitamente ai 16 “al di qua del Faro” – costituivano la Consulta generale del Regno delle
Due Sicilie, con funzioni giuridico-consultive. Per comprendere quali fossero le principali funzioni del Governo della Luogotenenza è interessante notare che questa Consulta si divideva in due sezioni: una si occupava di interni e finanze, l’altra di grazia, giustizia ed ecclesiastico (la Sicilia sola era ancora soggetta all’antica Apostolica Legazìa), mentre una Commissione mista napoletano-siciliana (4
napoletani e 2 siciliani) si occupava di guerra, marina ed esteri. Tuttavia questa Consulta, sebbene competente per la Sicilia, sedeva a Napoli, da dove mandava i propri pareri (o ordini?) a Palermo. La Luogotenenza, riordinata, è divisa in tre dipartimenti, ciascuno sotto un direttore generale: interno, giustizia e finanze. Il Ministero a Napoli per gli Affari di Sicilia venne soppresso, le sue funzioni nominalmente ripartite tra i Ministeri competenti, in pratica tutti ampiamente decentrati alla Luogotenenza. Se è vero che le due amministrazioni restavano separate è anche vero che le finanze siciliane erano gravate di un quarto delle spese comuni: guerra, marina, diplomazia e “lista civile” (cioè le spese di corte). Pur essendo solo queste le voci comuni, tuttavia esse assorbivano circa il 40 % di tutte le entrate tributarie siciliane, con un peso insostenibile e un apporto a infrastrutture e servizi pubblici trascurabile rispetto alle esigenze dei tempi. Si può solo concludere che l’unico risultato permanente della Rivoluzione del 1820 fu il mantenimento, al di fuori della diplomazia e delle forze armate, di un decentramento amministrativo totale di tipo confederale, sebbene per nulla rispondente alle esigenze dell’Isola in quanto tutto espressione di funzionari nominati da Napoli, al di fuori della magistratura propriamente detta, teoricamente, ma solo teoricamente, indipendente.
Seguono quindi mille complotti e congiure indipendentiste di cui sarebbe difficile tenere il conto. La storiografia italiana ha voluto mimetizzare questa Sicilia destabilizzata come parte del “Risorgimento italiano”. Nulla di più falso. La Sicilia degli anni ’20 è sempre e solo una Sicilia indipendentista. Anche la morte del vecchio Ferdinando (1825), e la successione di Francesco I, ormai vecchio e malandato anche lui, non fanno cambiare di una virgola le politiche reazionarie, di cui è simbolo di quest’epoca il marchese delle Favare. Anzi, poco a poco, le funzioni vitali della pubblica amministrazione sono sfilate dalla competenza del governo della Luogotenenza e affidate ai ministeri napoletani, lasciando alla Luogotenenza un ruolo di semplice coordinamento. Un’ulteriore rivolta, nel 1830, è sventata sul nascere e seguono le immancabili repressioni.
Poco prima di questa rivolta era morto anche Francesco I e gli era successo il giovane Ferdinando II, nato a Palermo ai tempi dell’esilio in epoca napoleonica. Ferdinando II comprende che è ora di innovare lo stile della monarchia. Tra gli altri provvedimenti, in Sicilia è inviato come luogotenente il fratello Leopoldo, Conte di Augusta. La Sicilia tornava ad avere come Luogotenente un esponente della famiglia reale, un vero vicario. E Leopoldo fece di tutto per riconciliare i Siciliani alla nuova monarchia. Primissimo provvedimento fu quello di riaprire una Commissione consultiva nell’Isola (visto che la Consulta risiedeva a Napoli). Seguirono altri provvedimenti e riforme utili per la Sicilia. Intraprese un processo di opere pubbliche, in particolare di sistemazione della vetusta rete stradale. Nel 1831, a metà circa tra la costa siciliana e Pantelleria, in quel basso fondale che oggi si chiama il “Mammellone”, apparve un’isola, contesa tra le principali potenze navali dell’epoca (Francia e Regno Unito). Le Due Sicilie ne rivendicarono la sovranità, come pertinenza della Sicilia, e l’isola ebbe il nome di Ferdinandea, ma presto fu nuovamente sommersa. Tra gli altri provvedimenti l’apertura della Direzione Generale di Statistica, nel 1832, fiore all’occhiello della tradizione ormai secolare della Sicilia in questo settore. Tentò persino di riaprire la zecca di Palermo, con la coniazione di alcuni spiccioli (i “grani siciliani”, del valore della metà rispetto alle analoghe monete napoletane), ma l’esperimento dové subito essere interrotto con il ritiro della moneta. Il Banco delle Due Sicilie aprì a Palermo e Messina due filiali (le Reali Casse di Corte), anche per sopperire alle esigenze di un sistema bancario moderno, cui non potevano essere più sufficienti i due vecchi banchi comunali cinquecenteschi, ormai prossimi alla liquidazione, e con funzioni soltanto di deposito. Leopoldo fu coadiuvato da un vero Ministro Segretario di Stato, quasi la Sicilia fosse diventata uno Stato federato vero e proprio. A Napoli Leopoldo ottenne che si ricostituisse il Ministero per gli Affari di Sicilia, affinché avesse un unico interlocutore con la capitale.
Ma l’idillio tra i Borbone e la Sicilia non durò più di un lustro. Timoroso che Leopoldo potesse farsi proclamare Re di Sicilia, geloso del troppo affetto che i Siciliani gli riservavano, accertati i rapporti tra Leopoldo e l’ambasciata francese, lo fece ritirare a Napoli, riprendendo così la serie dei Luogotenenti poliziotti. Tra i due fratelli sarebbe stato gelo. Leopoldo, quasi prigioniero a casa sua, dovette dedicarsi
alla pittura, e, all’Unità d’Italia (1860), avrebbe prontamente giurato fedeltà ai nuovi venuti. La Commissione Consultiva di Sicilia sarebbe sopravvissuta comunque, fino alla Rivoluzione del 1848. La politica dell’accentramento ottuso riprese imperterrita. Persino l’ufficio del protomedico fu soppresso e la sanità centralizzata a Napoli, proprio quando un’epidemia di colera (1836) avrebbe richiesto una maggiore presenza sul territorio.
Il fuoco della rivolta, sedato a Palermo, riprese in altre parti dell’Isola. Nel 1837 fu la volta di Siracusa e Catania. Ancora una volta i drappi gialli e le aquile fridericiane, simbolo del nazionalismo isolano, fecero la propria comparsa. La reazione fu violenta, come sempre, questa volta ad opera del generale Del Carretto. Le Due Sicilie riuscirono in un compito storico: far superare il municipalismo storico della Sicilia, inimicandosi tutti. A seguito della repressione, la stessa Luogotenenza, dal 1838, fu resa una carica poco più che simbolica, e tutta l’amministrazione fu accentrata a Napoli. Il Ministero siciliano, e il Ministero a Napoli per gli affari di Sicilia nuovamente sciolti. L’alienazione tra Napoli e Sicilia si fece totale e generalizzata, estesa a tutte le città e tutte le classi. A nulla servì un viaggio di Ferdinando II in Sicilia e nemmeno la riapertura dell’Università di Messina (1838). Si moltiplicavano le stampe clandestine. La coscienza politica indipendentista era ormai generalizzata e crescente, seppure articolata in diverse correnti e partiti. Fu introdotta la legge sulla “promiscuità” ma questa, anziché unire il Regno, fu occasione di ulteriori divisioni e rancori: gli uffici napoletani erano aperti ai siciliani e
viceversa, ma di fatto le posizioni di massimo potere erano riservate ai napoletani, lasciando i siciliani sempre in posizione subalterna. A partire dagli anni ’30, ma ancora in modo del tutto marginale, il movimento indipendentista siciliano prende contatto con alcuni esponenti dell’insurrezionismo italiano. Tra alcuni giovani comincia a serpeggiare qualche idea mazziniana e di appartenenza a una comunità “italica”. L’obiettivo generalizzato era però quello di disfarsi della polizia borbonica e riprendere per la propria strada. La memoria del Regno di Sicilia e della Costituzione del 1812 non era affatto spenta, e cercava soltanto un’occasione per poter tornare nell’agenda politica. La fine del 1847 vide una rivolta, a carattere sociale, tra Messina e Reggio Calabria, soffocata con la forza come le altre. La Sicilia è una polveriera pronta ad esplodere e ad infiammare l’Europa intera.
Fine 40esima puntata/ Continua
Foto tratta da Eco Internazionale
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