- STORIA DELLA SICILIA DEL PRFESSORE MASSIMO COSTA 38
- Oggi iniziamo a raccontare la parte finale della storia politica siciliana, la più dolorosa. Dopo l’Antichità e il Regno di Sicilia, la terza grande ansa del nostro lungo percorso storico. Oggi presenteremo solo la premessa, per andare poi sui singoli eventi nelle prossime puntate
- I pietosi storici che si arrampicano sugli specchi per ‘italianizzare’ una Sicilia che continua a non avere nulla in comune con l’Italia
- Anche il grande Machiavelli sottolineava che la Sicilia non era italiana
- Con il Regno delle Due Sicilie – un ossimoro – hanno provato a cancellare la Sicilia e la sua identità culturale
- Con la ‘presunta’ unità d’Italia la Sicilia diventa una colonia: e tale è ancora oggi
- La conquista dell’Autonomia siciliana nel 1946 subito svuotata dallo Stato centrale in combutta con gli ascari siciliani ancora oggi presenti
- Da quando, negli anni ’90, l’Italia ha ceduto la propria sovranità monetaria e politica all’Unione europea, la Sicilia è diventata una doppia colonia
Oggi iniziamo a raccontare la parte finale della storia politica siciliana, la più dolorosa. Dopo l’Antichità e il Regno di Sicilia, la terza grande ansa del nostro lungo percorso storico. Oggi presenteremo solo la premessa, per andare poi sui singoli eventi nelle prossime puntate
di Massimo Costa
Lo scioglimento del Regno di Sicilia, nel 1816, non segna solo la fine di una esperienza di Stato proprio che era iniziata un millennio prima con lo Stato arabo-siculo, che era proseguita con la Gran Contea e poi con il glorioso Regno di Sicilia, anche se questo negli ultimi 400 anni era stato ridotto in qualche modo solo a “Stato potenziale”, come Viceregno. Non è solo questo. Non è soltanto la perdita della
ritrovata indipendenza, che in qualche modo durava ormai dal 1798, e che quindi in quasi vent’anni aveva fatto della Sicilia un esperimento politico ormai ascrivibile alla storia europea contemporanea, né solo la perdita della Costituzione del 1812, con tutte le sue guarentigie, libertà, diritti. Con il 1816 succede qualcosa che non era mai accaduto in tutta la storia siciliana. Mai, nemmeno
nell’Antichità, la Sicilia era stata parte di uno Stato italiano o comunque parte dell’Italia. Nell’Antichità pre-romana la distinzione tra Sicelioti e Italioti era netta quanto lo Stretto di Messina. I Romani stessi, nel ricondurre a Provincia la Sicilia, ne fecero un Paese conquistato, alla pari della Gallia, della Licia o della Dacia, che non per questo nessuno avrebbe considerato mai Italia. Durante l’Impero Romano (inclusa la fase bizantina), la Sicilia non aveva cessato di essere un Paese a sé, una componente di un Impero universale, o potenzialmente tale. Nessuno avrebbe mai detto allora che la Sicilia era Italia.
I pietosi storici che si arrampicano sugli specchi per ‘italianizzare’ una Sicilia che continua a non avere nulla in comune con l’Italia
Alcuni pietosi storici nazionalisti sfruttarono la riorganizzazione di Diocleziano, in cui, sul finire del III secolo, la Sicilia, come la Rezia, l’Illiria e il Norico, furono ricomprese insieme all’Italia propriamente detta in un grande raggruppamento di province, la “Diocesi Italia”, per dire che “da quel momento in poi” il concetto di Italia avrebbe incluso anche la Sicilia. Niente di più falso. Intanto perché si trattò
appena di un raggruppamento burocratico, poco dopo abbandonato, poi perché includeremmo nel concetto di Italia anche terre che non ne avrebbero mai più fatto parte (e, con ragionamento analogo, dovremmo comprendere l’attuale Marocco nella Spagna), poi perché nelle epoche successive la distinzione tra Sicilia e Italia restò sempre netta. Qualche volta la Sicilia fu in qualche modo coordinata
politicamente con la vicina Penisola. Come quando ad esempio la provincia o thema bizantino fu fatta dipendere dall’alta autorità dell’Esarcato di Ravenna, sorta di relitto dell’Impero Romano d’Occidente dopo la conquista di Giustiniano. Ma, appunto, era come dire che la Sicilia apparteneva alla parte occidentale dell’Impero, e peraltro tale dipendenza, molto debole, rapidamente si dissolse all’invasione dei Longobardi sull’Italia.
Anche il grande Machiavelli sottolineava che la Sicilia non era italiana
Anche la comprensione della Corona siciliana nel “Gran Consiglio d’Italia” ad opera di Filippo II non aveva alcuna dimensione geopolitica se non quella di inserire la Sicilia nel gruppo dei domini “italiani” in senso ampio. E in effetti, dalla dinastia Asburgo, per semplificare l’amministrazione del grande impero spagnolo, ci fu una qualche politica linguistica a favore dell’italiano in Sicilia. Una politica linguistica che avrebbe dato lentamente i suoi frutti se – come abbiamo visto – solo all’alba del XIX secolo la Sicilia scelse per sé l’italiano come lingua ufficiale. Ma se andiamo a vedere tutta la pubblicistica giuridica e politica, fino ai primi del 1800, nessun siciliano considerava “Italia” la Sicilia. E anche dopo. Negli anni ’30, all’infiltrarsi dei primi mazziniani unitari nell’Isola, lo Scinà, ormai studioso maturo, si interrogava stupito sul significato di questa strana “isteria italica”, per lui, siciliano da sempre, in comunità ideale con tutto il nostro passato politico, semplicemente inspiegabile. Persino le cartine geografiche dell’Italia, sino a tutto il 1700, troncano la Sicilia come fosse un Paese diverso. E il Machiavelli, nel 1500, riprendendo la famosa teoria dantesca che sarebbero italiane tutte le parlate romanze nelle terre “dove il sì suona”, confuta candidamente questa teoria, dicendo che se fosse stata vera, avremmo dovuto considerare italiani “anche gli spagnoli e i siciliani”, ciò che a lui sembrava semplicemente un’enormità.
Con il Regno delle Due Sicilie – un ossimoro – hanno provato a cancellare la Sicilia e la sua identità culturale
Tutti i letterati e gli storici siciliani, fino al 1800 inoltrato, parlavano unicamente di “nazione siciliana”, anche se ormai nazione di lingua italiana. C’era stato un tentativo, nel 1059, di “allungare lo Stivale” sino alla Sicilia, quando Roberto il Guiscardo era stato investito “Duca di Sicilia”, come se la Sicilia potesse essere un qualunque ducato italiano. Ma questa investitura “impossibile”, basata su una pretesa infondata dei pontefici, di tradurre le antiche proprietà di diritto privato della Chiesa in Sicilia in potestà pubblica, sarebbe stata contraddetta dai fatti, poiché, una volta liberata, la Sicilia si eresse a stato autonomo, ben presto ricostituito in Regno proprio perché, anche prima dei Romani, essa era stata un Regno di Sicilia. Le Due Sicilie, titolo mai usato per un regno unitario, anzi “ossimoro” già nel nome, per la prima volta “cancellavano” così la Sicilia dalla carta geografica e ne facevano una provincia d’Italia. Vero è che per tutto il periodo delle Due Sicilie, cioè fino al 1860, la Sicilia continuò a considerarsi “siciliana” (magari inserita più o meno in un’ampia comunità “italica”, ma nulla più), anche per la totale inconsistenza di una nazionalità “duosiciliana”. Ma la parola “Sicilia” fu quasi proibita dal regime, sostituita dalla perifrasi pressoché impronunciabile di “Regi dominii al di là del Faro”.
Con la ‘presunta’ unità d’Italia la Sicilia diventa una colonia: e tale è ancora oggi
Con l’annessione all’Italia propriamente detta questa catastrofe identitaria giunse al suo pieno compimento. La Sicilia diventava solo un’espressione geografica, un’appendice, malata aggiungeremmo, di una grande e nuova nazione nella quale si dissolveva. Con l’Unità d’Italia (1860) la Sicilia fu ridotta a colonia di sfruttamento economico interna, con la cooperazione della classe dirigente agraria naturalmente. Stati d’assedio, fucilazioni, rapine, politiche economiche coloniali, drenaggi fiscali, espropri, ridussero la Sicilia ad una delle regioni del nuovo “Mezzogiorno” e la fecero quindi confluire in quella drammatica “Questione Meridionale” dalla quale non sarebbe più uscita. Con l’Unità d’Italia la Sicilia sparisce dai radar della storia come Paese a sé, e per cercarne la storia dobbiamo cercare nella grigia “cronaca regionale”, poiché confluita ormai nella storia italiana di cui è ora totalmente partecipe, se non succube. Con l’Unità d’Italia, infine, nasce la mafia, una delle più gravi piaghe della Sicilia contemporanea, non solo in termini economici o di ordine
pubblico, ma perché questa degenerazione della società viene quasi “appiccicata” alla Sicilia intera e a tutti i Siciliani come marchio etnico di infamia, a suggello perenne della loro condizione di colonia interna.
La conquista dell’Autonomia siciliana nel 1946 subito svuotata dallo Stato centrale in combutta con gli ascari siciliani ancora oggi presenti
La progressiva evoluzione democratica del Paese Italia costringe, alla fine del Secolo XIX, a mollare un po’ la presa. La Sicilia si scopre “regionista”, cioè autonomista, ma l’Italia ha modo di schiacciarne in mille modi le pretese. Ogni sentimento siciliano è bandito durante la I Guerra mondiale, e represso duramente durante il Regime Fascista, durante il quale il sistema industriale siciliano, faticosamente
costruito in maniera autonoma sul finire del secolo precedente, è smantellato per le politiche autarchiche mentre la distanza con il Nord raggiunge il massimo storico. La sconfitta dell’Italia nella II Guerra mondiale per un attimo fa pensare alla Sicilia di potersi emancipare e riprendere per la propria strada. Ma le condizioni politiche internazionali non sono favorevoli a questa svolta, e la Sicilia è inquadrata ancora una volta nello Stato italiano, ormai repubblicano, questa volta con un’ampia Autonomia conquistata con il sangue di una vera e propria guerra civile. Lo Stato Repubblicano, a dire il vero, consente un certo sviluppo economico, sociale e culturale dell’Isola, al traino di una delle maggiori potenze industriali dell’Occidente, ma sempre in posizione subalterna, e secondo un regime assistenziale, mentre le parti più vitali dell’Autonomia sono progressivamente svuotate.
Da quando, negli anni ’90, l’Italia ha ceduto la propria sovranità monetaria e politica all’Unione europea, la Sicilia è diventata una doppia colonia
Il Secondo Dopoguerra, ad ogni modo, cambia il volto tradizionale dell’Isola. Un po’ per riforme epocali, quali quella agraria, che spostano masse di contadini verso le città e soprattutto verso Palermo, di nuovo assurta a capitale amministrativa, o l’elettrificazione rurale, portata avanti lungo mezzo secolo con un coraggioso e lento processo che letteralmente fece uscire una certa Sicilia interna da un vero Medio Evo nel quale sembrava attardata. Ma soprattutto per trasformazioni culturali e sociali di massa, che non hanno uno specifico siciliano (la scolarizzazione di massa, l’avvento della televisione, e poi, dalla fine del XX secolo, la rivoluzione telematica globale), ma che in gran parte avrebbero trasformato il volto linguistico della regione (riducendo per davvero a “dialetto” il siciliano e cominciando a
minacciarne le sorti), ma anche quello culturale, familiare, sociale (si pensi almeno al mutato ruolo della donna nella famiglia e nella società siciliana, ovvero alla secolarizzazione della società, almeno in relativo, più o meno analogamente a quanto avvenuto nelle altre società europee). Tornando alla sfera politica e politico-economica, l’era della globalizzazione (dal 1990 circa), infine, porta la stessa
sovranità dell’Italia a dissolversi in quella europea e dei poteri forti internazionali. In questo quadro non c’è più spazio per il modello assistenziale della I Regione e della I Repubblica; la Sicilia entra in una crisi economica, demografica, culturale, sociale, politica mai vista prima. La sua Autonomia, formalmente ancora in piedi, è sostanzialmente azzerata, i servizi pubblici ridotti all’osso, la sua condizione complessiva ridotta a “colonia di colonia”. Il XXI secolo trova così ancora irrisolta la storica Questione Siciliana in tutta la sua drammaticità.
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