di Massimo Costa
La Gran Bretagna, in quel momento liberale, anche perché avvertì un clima di disordini, nonché la
minaccia di aprire i porti siciliani alle armate francesi, non poteva stare a guardare inerme il colpo di
stato di re Ferdinando e decise di intervenire. Lord Bentink impose a re Ferdinando di nominare vicario
il figlio Francesco e a rinserrarsi, quasi prigioniero, al Bosco della Ficuzza, mentre i capi del partito
parlamentare venivano liberati e venivano emessi provvedimenti liberali da un governo finalmente
siciliano. Aprirono i giornali, la Sicilia si apriva alla libertà di stampa e di pensiero. Il cuore
dell’ordinamento costituzionale di cui godeva da secoli stava maturando finalmente verso una forma di
stato libera e moderna.
È convocato un Parlamento straordinario, l’ultimo eletto con le regole del Vespro a tre Bracci, ma
questa volta con funzioni costituenti, per adattare ai tempi la Costituzione Siciliana. I Comuni
demaniali, fino ad allora docili strumenti del Governo, si ribellano, e decidono di inviare in Parlamento i
loro deputati. Il pretore (sindaco) di Palermo è sfiduciato dal Consiglio Civico, che si riappropria dei
suoi diritti e ne elegge uno nuovo. Il clima era rivoluzionario, ma di una rivoluzione pacifica, che si
svolgeva tutta nei binari della legalità, semmai violata dagli abusi del Borbone. Il Parlamento del 1812 è quindi
un’assemblea costituente. I tre Bracci, aperti solennemente dal Vicario
Francesco, siedono in pompa magna come nel passato, ma si attivano subito in una febbrile attività
legislativa che non ha pari nel tempo. Dietro una bozza buttata giù dall’Abate Balsamo, la Sicilia si dà
la prima costituzione moderna.
Si è detto che fu ricalcata su quella inglese, ma ciò è vero solo fino a un certo punto. In Inghilterra la
riforma elettorale che estese a tutti i Comuni il diritto di mandare rappresentanti alla Camera dei
Comuni è solo del 1832. La Sicilia anticipa questo già vent’anni prima. Tutti i cittadini dotati di una
piccola rendita o che sappiano leggere e scrivere eleggono i loro rappresentanti alla Camera dei
Comuni, per Comune e per Distretto. La Sicilia è divisa in 23 distretti in cui sono consorziati tutti i
Comuni dell’Isola (tranne le piccole isole che hanno un’amministrazione separata). I diritti feudali sono
aboliti, e le terre feudali trasformate in proprietà privata (si usa ancora il termine medievale di beni
allodiali). Tutti i Comuni hanno il loro Consiglio civico elettivo e il loro “magistrato” esecutivo elettivo.
Sono garantite tutte le libertà fondamentali, tra cui fondamentale la libertà di stampa. Non è però
introdotta la libertà di culto. Tra le basi della Costituzioni, al primo punto, è stabilito che la sola
religione ammessa era la “cattolica apostolica romana”, intendendosi quindi che le comunità di altre
religioni presenti in Sicilia potessero solo essere tollerate tra residenti “non regnicoli” (ebrei e
protestanti, essenzialmente). La magistratura è resa del tutto indipendente dal potere esecutivo e dal
potere legislativo. Il potere esecutivo e il comando delle truppe è riservato al re, ma dietro fiducia
parlamentare. Il re conserva diritto di veto sulla legislazione parlamentare. I Bracci ecclesiastico e
militare, riuniti, sono trasformati in “Camera dei Pari”, questa sì sul modello britannico. La Camera dei
Comuni ha un primato su quella dei Pari in materia tributaria e finanziaria. L’eleggibilità passiva è
ristretta secondo il censo, ma non è altissima. Anche le due università degli studi (Palermo e Catania)
mandano rappresentanti alla Camera dei Comuni. Il re non può costituire nuove parìe se non a favore
di regnicoli e in possesso di requisiti di reddito molto elevati. Il re non può allontanarsi dal Regno
senza il permesso del Parlamento e non può assumere altra corona se non rinunciando a quella
siciliana. In breve, nella Costituzione del 1812, non abbiamo solo la prima costituzione liberale moderna in un
paese di lingua italiana, con la separazione dei poteri e tutte le fondamentali libertà e diritti riconosciuti
(abrogando fra l’altro implicitamente anche la schiavitù, di cui in verità erano rimaste pochissime
tracce, ed esplicitamente ogni servitù o vassallaggio feudale), abbiamo anche l’autonomia di tutti i
Comuni, il decentramento, per mezzo dei Distretti, l’abolizione del feudalesimo introdotto dai
Normanni (con alcuni residui, che sarebbero scomparsi nei decenni successivi), l’introduzione
dell’obbligo di istruzione elementare esteso a tutti i cittadini (non fu scritto da nessuna parte che da
questo obbligo fossero escluse le cittadine di sesso femminile, ancorché escluse ancora dai diritti
politici), affinché potessero al più presto diventare tutti elettori della Camera dei Comuni, fu
proclamata soprattutto la perpetua indipendenza del Regno.
Mai, dai tempi di re Ruggero II, la Sicilia aveva ottenuto un traguardo più ampio. Nel 1813 furono
tenute nuove elezioni secondo la nuova Costituzione. Purtroppo la Sicilia si ritrovò ad avere di colpo
un ordinamento liberale appena uscita dal feudalesimo, e forse la Gran Bretagna avrebbe dovuto
guidare un po’ più da presso quel processo che aveva contribuito a creare. E invece si occupò solo dei
propri interessi e lasciò la giovane democrazia al proprio destino. E questo fu un dilaniarsi tra i partiti
di nuova istituzione. La Camera dei Comuni fu egemonizzata da una maggioranza di centro (i cosiddetti
cronici dal nome di un giornale palermitano), tra una destra reazionaria filoborbonica (i cosiddetti
anticronici) e una forte sinistra dei democratici di Rossi, quasi repubblicana, di composizione borghese e
espressione dei ceti emergenti catanesi e messinesi, che giudicava insufficienti le riforme costituzionali.
La maggioranza era poi composta al suo interno da un prevalente partito di centro-sinistra
(rappresentato dal leader più rappresentativo di quest’epoca, il Principe di Castelnuovo) e da un
recalcitrante centro-destra (che accettava la riforma ma voleva ritornare di più alla Costituzione
precedente, o salvarne il salvabile, come il maggiorascato nella successione delle proprietà, il
fedecommesso, o la deputazione del Regno). Castelnuovo, per le riforme più coraggiose dovette
appoggiarsi alla sinistra, ma in genere fece blocco sociale con il centro-destra del Principe di Belmonte,
altro protagonista di questi giorni molto convulsi. Si dice sempre, ingiustamente, che il Parlamento e la
Rivoluzione del 1812 sarebbero state esclusivamente “baronali”. Niente di più falso. Il Castelnuovo era
sì un aristocratico, come lo era la classe dirigente di quasi tutta l’Europa di allora, ma aveva una
stentata maggioranza in Camera dei Comuni, e non l’aveva proprio nella Camera dei Pari, un po’
perché molti prelati di nomina regia erano anticostituzionali, e comunque ostili ad ogni cambiamento,
un po’ perché molti pari temporali guardavano con preoccupazione il moto di riforme che travolgeva
tutti i loro privilegi. E tutti i membri del partito borbonico furono rigorosamente nobili fedeli alla
corona. La fazione borbonica, del resto, non stava a guardare, favorendo dimostrazioni di plebaglia
prezzolata per delegittimare con varie agitazioni le nuove istituzioni parlamentari.
Il Governo liberale governò in qualche modo tra il 1812 e il 1813. Nel 1813 in Inghilterra salirono al
potere i conservatori, meno inclini dei liberali a supportare l’esperimento costituzionale in Sicilia. A
questo punto Ferdinando, una volta richiamato il Bentink in Inghilterra, ha campo libero. Esce dalla
Ficuzza (1814) e riprende i propri poteri. Scioglie il Parlamento e ne guida una rielezione che gli dà una
maggioranza favorevole, certamente con mezzi non costituzionali. In questo modo si dota di un
ministero siciliano solo di nome, ma già preordinato a schiacciare ogni libertà in Sicilia.
E tuttavia l’opposizione poté sopravvivere almeno fino ai primi del 1815, mentre, ad uno ad uno i
progressi della Rivoluzione del 1812 venivano ridimensionati dal nuovo ministero reazionario.
La causa non sembrava ancora persa. Napoleone era stato sconfitto a Lipsia (1814) e confinato all’Elba.
Murat cerca di riciclarsi con i vincitori. La situazione è alquanto confusa. Sembra che possa restare a
Napoli mentre Ferdinando sembrava destinato a restare re costituzionale in Sicilia (magari con un regno
un po’ più autoritario) sotto la protezione britannica. Ma i “Cento Giorni” di Napoleone portano
Murat a schierarsi con il cognato. Invade il Nord, a Rimini fa un “proclama agli italiani” in chiave
antiaustriaca, a seguito del quale troverà la sconfitta e infine la morte. Le potenze, già sedute a Vienna
nel celebre Congresso ritengono sia venuto il momento di restituire il Regno di Napoli ai Borbone.
Già con il Trattato di Parigi, dopo la prima sconfitta di Napoleone, Ferdinando aveva dovuto assistere
inerme al dono all’Inghilterra delle Isole Maltesi (1814) per far togliere loro il veto su un suo ritorno a
Napoli. L’Inghilterra fu paga di questo scambio (le Isole erano occupate dagli Inglesi dal 1800, ma
formalmente appartenevano ancora al Regno di Sicilia e, sconfitto Napoleone, le avrebbero dovute
rilasciare). La Sicilia, come primo premio per aver sconfitto Napoleone, veniva intanto mutilata
territorialmente. A Vienna Ferdinando è reintegrato nel regno di Napoli, ma il Medici insiste che sia
scritto non “Re delle Due Sicilie” come era stato nel Settecento, ma “Re del Regno delle Due Sicilie”,
con apparente pleonasmo. Le potenze non comprendono bene questa insistenza, peraltro incoerente
con la successiva “reintegrazione di Ferdinando IV nel Regno di Napoli” prevista nello stesso trattato;
ma nessuno fa caso al dettaglio. E invece questo dettaglio è usato da Napoli per distruggere il Regno di
Sicilia e annetterlo a quello di Napoli sotto la finzione della fusione tra le due corone.
Nel 1814, intanto, il Parlamento è sciolto e, in elezioni del tutto truccate, ne viene rieletto uno
composto quasi esclusivamente da persone fedeli al re incaricate di paralizzarne il funzionamento.
L’anno successivo Ferdinando torna a Napoli, violando la Costituzione che glielo impediva, e lascia
nuovamente il figlio Francesco come luogotenente. Seguono, uno dopo l’altro, provvedimenti
liberticidi. I Comuni sono sciolti e commissariati, così come i Distretti. I giornali sono chiusi. Gli
oppositori incarcerati. Una dopo l’altra le libertà e i simboli del Regno sono distrutti, dietro solo
qualche modestissimo rimbrotto da parte degli inglesi. I pochi oppositori al ministero reazionario che
erano riusciti a farsi eleggere nel Parlamento del 1814, insultati pubblicamente, e impossibilitati a
intervenire in Parlamento, coperti dalle urla e dalle ingiurie degli “squadristi” (ante litteram) del partito
borbonico. Alla fine il Parlamento è definitivamente sciolto. E tuttavia, persino con questo Parlamento
collaborazionista, si erano approvate le manovre finanziarie fino allo scadere dell’anno indizionale
1815-16. Dal settembre 1816 ogni manovra finanziaria del Governo non avrebbe avuto più alcuna
copertura costituzionale. Il Governo prometteva di riconvocare un Parlamento per questa ragione, ma
se guardò bene dal farlo.
Chiese ai Comuni siciliani di firmare una petizione per abolire la Costituzione del 1812. I Consigli civici,
tranne Messina che covava vecchi odi antipalermitani, si rifiutarono di aderire. Un Comune solo su
centinaia sarebbe stato un fallimento troppo clamoroso. L’idea fu così accantonata. Nel frattempo
furono fuse le marine e gli eserciti, abbattuti dappertutto i vessilli secolari del Regno, con le aquile
fridericiane, sostituite dappertutto con quegli odiati gigli borbonici che ricordavano sin troppo quelli
angioini di secoli prima. Gli appelli degli intellettuali e degli aristocratici siciliani all’Inghilterra caddero
praticamente nel vuoto.
Alla fine, inevitabile, arrivò la catastrofe. Con decreto dell’8 dicembre 1816 (e poi con una legge dell’11
successivo) re Ferdinando assunse la corona di “Re delle Due Sicilie” con il titolo di Ferdinando I. La
Sicilia, come premio per aver vinto le guerre napoleoniche, era annessa a un paese sconfitto, il Regno di
Napoli, mantenendo solo per il momento tutta la propria amministrazione separata sotto un governo di
Luogotenenza.
Per “finta”, nella legge dell’11 dicembre successivo si scrisse che ogni ulteriore tassazione sulla Sicilia
sarebbe stata preceduta dall’approvazione della stessa da parte del Parlamento siciliano (quale? eletto
con quale Costituzione?). In una corrispondenza privata il Ruffo confessò che il passaggio sul
Parlamento di Sicilia in questa legge era stato messo solo per dare una parvenza di legittimità
costituzionale di fronte all’opinione pubblica internazionale, e in particolare di fronte alla debolissima, e
un po’ ipocrita, difesa inglese delle ragioni della Sicilia. La cruda realtà era che, dopo 8 secoli circa
(forse 10 se contiamo anche l’emirato), la Sicilia non aveva più il proprio Stato, pieno soggetto di diritto pubblico internazionale,
ed era stato sciolto il Parlamento più antico del mondo.
Cronologia politica della Sicilia dall’avvento dei Borbone allo scioglimento del Regno:
1700-1713 Filippo IV (V di Spagna)
Viceré:
1700-1701 Pietro Colon, duca di Veraguas (in continuità)
1701-1702 Giovanni Emanuele Fernandez Paceco, duca di Ascalona
1702-1705 Card. Francesco del Giudice, arciv. di Morreale, viceré ad interim
1705-1707 Isidoro de la Cueva Benavides, m.se di Bedmar
1707-1713 Carlo Antonio Spinola, m.se di Los Balbases
1713-1718 Vittorio Amedeo Savoia
1713-1714 dominio diretto di Vittorio Amedeo
1714-1718 Viceré: c.te Annibale Maffei
1718-1720 Filippo IV (V di Spagna, di nuovo)
1718-1720 Viceré: Giovan Francesco de Bette, m.se di Lede, nominato ufficialmente nel
1719
1720-1734 Carlo III Asburgo-Austria (VI come S.R..I)
Viceré:
1720-1722 Nicola Pignatelli, duca di Monteleone, già viceré dal 1719 sui territori conquistati
1722-1728 Gioacchino Fernandez Portocarrero, m.se di Almenara
1728-1734 Cristofaro Fernandez de Cordova, conte di Sastago
1734-1759 Carlo III
Viceré:
1734 Giuseppe Cartillo Albornoz, c.te di Montemar
1734-1735 Pietro de Castro Figueroa, m.se di grazia reale, presidente
1735 dominio diretto di Carlo III
1735-1737 Pietro de Castro Figueroa, m.se di grazia reale, presidente, di nuovo
1737-1747 Bartolomeo Corsini, p.pe di Sismano
1747-1754 Eustachio duca di Laviefuille
1754-1755 Giuseppe Grimau Corbera, presidente
1755 Marcello Papiniano Cusani, arciv. di Palermo, presidente
1755-1759 Giovanni Fogliani di Aragona, m.se di Pellegrino
1759-1816 Ferdinando III (sotto il Consiglio di Reggenza fino al 1767) Viceré:
1759-1773 Giovanni Fogliani di Aragona, m.se di Pellegrino, in continuità, sostituito
temporaneamente da: 1768 Egidio Pietrasanta, p.pe di S. Pietro, presidente 1773-1774 Mons.
Serafino Filangeri, arciv. di Palermo, governo provvisorio a Palermo e viceré Fogliani a Messina
1774 Serafino Filangeri, arciv. di Palermo, presidente
1774-1781 Marcantonio Colonna, p.pe di Alliano, sostituito temporaneamente da:1778
Antonio Cortada Bru
1781-1786 Domenico Caracciolo, m.se di Villamaina, sostituito temporaneamente da: 1784
Card. Francesco Ferdinando Sanseverino, Arciv. di Palermo, presidente
1786 Gioacchino de Fonsdeviela, presidente
1786-1794 Francesco d’Aquino, p.pe di Caramanico
1794-1798 Filippo Lopez Y Rojo, presidente
1798 Tommaso Firrao, principe di Luzzi
1798-1802 Governo diretto del re
1802-1803 Domenico Pignatelli, presidente
1803-1806 Alessandro Filangeri, p.pe di Cutò, luogotenente
1806-1812 Governo diretto del re
1812-1813 Vicariato del p.pe Francesco
1813-1815 Governo diretto del re
1815-1816 P.pe Francesco Borbone, luogotenente 1816 Nicolò Filangieri, p.pe di Cutò
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