di Massimo Costa
In questo clima politico non mancarono le suggestioni rivoluzionarie. L’eco della Rivoluzione Francese
arrivò sulle prime in Sicilia molto attutito. Qualche ispezione militare, qualche modesto rafforzamento
delle fortezze, ma il vero pericolo era la penetrazione delle idee che venivano dalla Francia. Queste, in
Sicilia, assunsero il colore del separatismo repubblicano. Una congiura giacobina del 1795, guidata
dall’avvocato Francesco Paolo Di Blasi, che si era distinto per studi accademici che avrebbero voluto
fare del siciliano una lingua nazionale, mirava a spodestare i Borbone e dar vita ad una Repubblica
Siciliana. Sventata la rivolta, per Francesco Paolo Di Blasi ci fu la mannaia, in quella stessa piazza che,
circa un secolo dopo, sarebbe stata chiamata “Piazza Indipendenza”, chiamata così in onore della III
guerra d’Indipendenza italiana del 1866, ma dove erano stati impiccati e decapitati, quasi cent’anni
prima, i martiri dell’Indipendenza siciliana.
Gli eventi rivoluzionari fanno precipitare la situazione. Nel 1794 la Corona chiede un sussidio di 60.000
ducati fissi al mese, una cifra spropositata che equivaleva alla chiusura del Parlamento per sopravvenuta
inutilità. Il Parlamento trovò la forza di dire di no alla Corona. Non era mai successo, ma era
inevitabile perché la Sicilia non fosse calpestata definitivamente. La Sicilia offriva in cambio un
donativo straordinario di un milione di ducati. Ma ormai tra Corona e Parlamento la frattura era
diventata insanabile. Le “Due Sicilie” entrano in guerra contro la Francia nella Guerra della I
Coalizione, a fianco di Austria e Inghilterra. Le truppe, anche siciliane, mandate in Pianura Padana non
fermano l’avanzata del giovane Bonaparte. Il Borbone esce dal conflitto promettendo neutralità alla
Francia e stipulando un fragile trattato di pace. Il Parlamento del 1798, l’ultimo di epoca viceregia, vede
di nuovo la proposta dei 60.000 ducati mensili l’anno approvata dal solo Braccio demaniale, ormai
letteralmente occupato dal Governo. Il rifiuto degli altri due Bracci bloccò la richiesta. Il re cerca di
sforzare la Deputazione a violare il mandato del Parlamento, dando per buona la deliberazione del solo
Braccio demaniale. La Deputazione, con gran coraggio (sette voti contro cinque) boccia come
irricevibile la proposta della Corona, in quanto non poteva eccedere il mandato parlamentare. Anche la
Giunta dei Presidenti e Consultori, investita del tema, si spacca: 3 voti su 5 contro la Corona, che alla
fine dovette piegarsi. La realtà era che quanto la Sicilia voleva dare a Napoli era già troppo per le
proprie risorse, ma troppo poco per i bisogni della guerra contro i Francesi, ormai imminente dopo il
rovesciamento del potere temporale dei papi a Roma e la proclamazione della Repubblica Romana.
Pochi mesi dopo, non sentendosi più sicuro a Napoli, re Ferdinando fugge in Sicilia, sotto la
protezione delle armate britanniche. L’ultimo viceré, da poco nominato, di fronte alla presenza del re
non può far altro che rassegnare il mandato, venendo nominato in cambio “Ministro per gli Affari
Interni”, carica mai esistita prima in Sicilia. Con un “Ministro di Giustizia e Alta Polizia” e un “Ministro
della Guerra”, la Sicilia ebbe così il suo primo Gabinetto moderno. È anche la fine di un’era che era
iniziata nel lontano 1416, e che non sarebbe tornata mai più. Il re (o forse più ancora la moglie Maria
Carolina d’Austria) assumeva direttamente il governo, in realtà per mezzo di fuoriusciti napoletani.
In questo frangente le armate napoleoniche occupano le Isole maltesi (1798), indifendibili dagli ormai
imbelli Cavalieri, ma anche dal Re di Sicilia che ha a sua volta bisogno di aiuto. Lo chiede agli Inglesi, che nel 1800
occupano Malta, teoricamente per conto del Re di Sicilia, ma amministrandola loro in
attesa della fine delle ostilità, e proteggono per mare la Sicilia. All’ammiraglio Nelson, il vincitore di
Trafalgar, è accordata la cittadinanza siciliana e la Ducea di Bronte.
La Sicilia si trovava ora teoricamente indipendente, con un re proprio, dopo secoli di viceregno. Pochi
mesi dopo i Francesi dilagano a Napoli, instaurando la breve e sfortunata Repubblica Partenopea
(1799). Anche se poco dopo i Borbone restaurano il Regno, Ferdinando resta a Palermo sino al 1803,
spremendo la Sicilia come non mai per la riconquista e il consolidamento del Regno continentale. Il
Parlamento è lieto di servire il sovrano e fa ogni sacrificio che le viene chiesto. Ma pensa che sia giunto
per la Sicilia il momento di poter chiedere ben altra considerazione e rispetto. Nel 1801, in questo
quadro, si registra a Catania, per opera di tale Antonino Piraino, un’altra cospirazione repubblicana.
Durante l’“esilio” a Palermo la Costituzione del Vespro aveva ripreso a funzionare nel suo tenore
letterale, saltata com’era l’intermediazione viceregia. Il Regno chiedeva molte riforme, si credeva di
essere alla vigilia di un vero riscatto nazionale. Nel frattempo lo sforzo bellico era prevalente. Nel
Parlamento del 1802 Ferdinando III aveva promesso di non lasciare la Sicilia, ma subito dopo – cessata
con la Pace di Amiens la Guerra della Seconda Coalizione – venne meno alla promessa, tornando a
Napoli, e cercando di trovare un qualche legame con Napoleone. La detta Pace prevedeva la
restituzione delle Isole Maltesi ai Cavalieri di San Giovanni, ma gli inglesi, di fatto, non cessarono il
proprio stato di occupazione.
Allontanatosi da Palermo, si poneva il problema di come governare il Regno. Ferdinando non vuole
tornare più alla pratica settecentesca dei Viceré, al contempo “quasi” capo di stato e capo di governo.
Volle esercitare questa volta personalmente, anche se da lontano, le funzioni di Capo di Stato, senza
l’alter ego del viceré, un po’ come tanti secoli prima aveva fatto Alfonso il Magnanimo. Ma la Sicilia
aveva il proprio Stato e il proprio governo, in tutto distinti da Napoli. Quindi creò un Governo
dell’Isola, il Governo della Luogotenenza. Il Luogotenente durò in questa prima fase solo 3 anni
(1803-06), e poté sembrare un espediente transitorio. Ma in realtà c’era una logica dietro. Da un lato i
luogotenenti erano la continuazione del viceregno, e come i viceré guidavano il governo siciliano, ed
erano soggetti al controllo parlamentare. Anzi, per certi versi, il Parlamento era ora assai rafforzato, e il
suo controllo assai più stretto. Per altro verso però non era più “viceré proprietario”, non aveva più
quindi la facoltà di svolgere funzioni sovrane finché non fosse intervenuto il sovrano in persona. Nel
Settecento i Viceré avevano fatto anche piccoli trattati con il Bey di Tunisi, ad esempio. In questo caso
il Re, da Napoli, voleva gestire anche un regno ormai di fatto indipendente. Il malumore e la delusione
dei Siciliani che avevano sopportato il costo dell’esilio e della riconquista di Napoli erano palpabili.
Il Regno di Napoli, e la Sicilia al traino, sono coinvolti nuovamente nella Guerra della III Coalizione,
contro quello che ormai era diventato l’impero napoleonico nel 1805. Nel 1806, di nuovo, la Corte è in
fuga a Palermo e questa volta la fuga sembra definitiva. Il Regno di Napoli è interamente occupato
dalla Francia, e affidato al fratello maggiore di Napoleone, Giuseppe. Due anni dopo (1808) Giuseppe
Bonaparte diventa re di Spagna; Napoli è data invece al cognato di Napoleone: Gioacchino Murat.
A fianco dell’Inghilterra nelle Guerre napoleoniche, risorge lo Stato-Nazione di Sicilia
Murat si proclama “Re delle Due Sicilie”, naturalmente, rivendicando anche la Sicilia, che considera
nient’altro che una pertinenza di Napoli, ma resta solo re di Napoli. Ferdinando, protetto dalla flotta britannica,
si era invece rifugiato in Sicilia dove è solo un re costituzionale. Ma impone il proprio
ministero e la propria corte ai Siciliani, tutti napoletani fuoriusciti. I Siciliani si trovano nella stranissima
condizione di essere ritornati indipendenti anche in politica estera, dopo 4 secoli di viceregno, ma nello
stesso tempo ad avere un governo tutto di napoletani, alieni e ostili ai Siciliani stessi. Unica tutela il
Parlamento, e in parte la Deputazione del Regno, ai quali vengono chiesti sacrifici crescenti, ai limiti
della capacità di sopportazione. In politica estera la Sicilia deve accettare sussidi e difesa dal Regno
Unito, che mette il Regno sotto la propria protezione politica, potendo anche intromettersi
parzialmente negli affari interni: gli Inglesi davano sussidi al governo siciliano, ma questo in cambio
doveva tenere aperti e franchi tutti i porti siciliani al commercio inglese, e ospitare un corpo di 10.000
soldati britannici. La Sicilia avrebbe partecipato attivamente, da alleata della Gran Bretagna, a tutte le
restanti guerre di coalizione contro Napoleone (dalla “quarta” alla “settima”), condividendone le
sconfitte e le vittorie. Plenipotenziario del Regno Unito e Capitano generale del Regno di Sicilia è Lord
Bentink, il quale simpatizza per il partito parlamentare e per il filo-anglicismo ormai diffuso un po’ in
tutta la classe dirigente isolana. Il Parlamento del 1806 approva il riordino dei pesi e misure in uso nel
Regno che, lasciati a sé stessi dai tempi di Federico Imperatore, erano andati incontro ad una grande
incertezza, con piccole differenze soprattutto tra Palermo e Messina, e impone il passaggio dal latino
all’italiano negli atti notarili. La Suprema Deputazione dei Pesi e delle Misure, allo scopo costituita, si
dotò dell’apporto di valenti scienziati, grazie ai quali fu licenziato, nel 1809, il Sistema Metrico Siculo,
che sarebbe giunto all’Unità d’Italia, e anche dopo nell’uso comune. Tra questi scienziati il Piazzi, cui si
doveva la scoperta (1801) del primo pianetino dall’Osservatorio astronomico di Palermo, dedicato in
onore alla protettrice pagana della Sicilia a Cerere e tuttora così chiamato (da qualche tempo
“promosso” da “asteroide” a “pianeta nano” insieme a Plutone e ad altri elementi del Sistema Solare).
Il Parlamento del 1810 è ancora un Parlamento di Antico Regime, eletto con le antiche regole del
Vespro. Ma lo spirito è già nuovo. Vengono votati altri sacrifici finanziari, enormi, nella guerra per la
vita contro Napoleone. La Sicilia in qualche modo beneficiò del Blocco Continentale. I prezzi delle
derrate agricole salirono, facendo la fortuna dell’agricoltura siciliana. Nondimeno la guerra imponeva
grandi sacrifici. Tra le riforme del 1810 l’introduzione della lingua italiana come lingua ufficiale, con la
previsione di una codificazione delle leggi (sul modello francese quindi, questa volta) che sostituisse
definitivamente il latino come lingua giuridica. Già una decina d’anni prima le due università del regno
avevano abbandonato il latino come lingua didattica a favore dell’italiano. L’élite siciliana preferì
l’italiano al siciliano come lingua nazionale, nonostante ci fosse e ci fosse stato un risveglio linguistico
nazionale siciliano proprio in quegli anni. Non era una scelta politica “per l’Italia”, che ai tempi neanche
esisteva come idea, ma una scelta culturale, di appartenenza ad una vasta area linguistica, nel timore –
come scrisse l’Aceto – che la scelta del Siciliano avrebbe “isolato” la Sicilia. Con il senno di poi questa
scelta si sarebbe rivelata poco coraggiosa e l’anticamera dell’annessione all’Italia, ma ai tempi nessuno
poteva prevederlo e tutta la letteratura coeva parla sistematicamente e soltanto di “Nazione Siciliana”,
seppure concepita come una nazione di lingua italiana. Nel Parlamento del 1810 la Corona ormai
trovava un’opposizione ferma. Si impose di distinguere i donativi per “capitoli” di entrata, in modo che
non ci fosse confusione nell’amministrazione finanziaria e eccessi nella riscossione. Il Governo, che
aveva chiesto maggiori donativi, prese questo come un affronto intollerabile. Ma la Sicilia stava solo
resistendo al saccheggio di tutte le proprie risorse da destinare ad una conquista, quella del Regno di
Napoli, che se fosse riuscita sarebbe stata fatale per la Sicilia stessa, come poi effettivamente fu. Per
decidere come distribuire il donativo il Parlamento del 1810 fu riconvocato a pochi mesi di distanza.
Con pressioni di ogni tipo il Parlamento fu piegato alle esigenze della Corona.
La piega che presero gli eventi bellici fece propendere il Governo per chiedere ulteriori esazioni fiscali
senza passare per il Parlamento, già nel 1811. Naturalmente lo strappo non passò inosservato e ci fu una
rimostranza da parte di 43 baroni parlamentari, perché mai da secoli si era imposta una tassa senza
ricorrere al Parlamento. La Deputazione del Regno, ormai controllata dal governo in maniera
poliziesca, interpellata, diede servilmente ragione alla Corona. La risposta del Re fu la deportazione dei
capi del partito parlamentare nelle piccole isole. In pratica era la revoca della Costituzione del Vespro.
Sotto la veste dei Borbone, gli Angioini sembravano tornati in Sicilia.
Fine 36esima puntata/ continua
Foto tratta da CS Cademia Siciliana