Pochi giornali hanno ricordato un anniversario particolare per la Sicilia: la comparsa, 190 anni fa, dell’Isola Ferdinandea nel tratto di mare che va da Sciacca a Pantelleria. L’ha fatto il quotidiano La Sicilia e ha scritto che “Verso la fine di Giugno del 1831 nel mare tra Sciacca, Menfi e Pantelleria si verificarono alcune scosse di terremoto anche di forte intensità”. Il quotidiano catanese ha ‘infilato’ anche Menfi, che si trova ad occidente di Sciacca. Solo che Menfi – la vecchia Menfi, la cittadina quasi distrutta dal terremoto del 1968 – con il mare non ha nulla a che spartire. Porto Palo – la contrada a mare di Menfi – fino a quarant’anni fa faceva storia a sé. Menfi è un’altra storia rispetto a Porto Palo. Quando il 12 Luglio del 1831, a poco meno miglia marine da Sciacca, dopo una serie di scosse di terremoto e dopo un’eruzione vulcanica sottomarina, comparve l’isola Ferdinandea, la partita era tra Sciacca e Pantelleria. I primi a scoprire l’isola venuta fuori dal mare furono i pescatori di Sciacca. Poi arrivarono gli scienziati e, in terza battuta, la politica del tempo.
Nel 1831 gli inglesi erano i padroni del Mediterraneo. La Sicilia, per i figli di Albione – l’antico nome della Gran Bretagna – era il luogo dove derubavano lo zolfo per fare sparare i cannoni delle loro navi da guerra. Gli inglesi, che allora pensavano di essere i padroni del mondo, creavano ripetute tensioni nel regno delle Due Sicilie perché Fernando di Borbone, ai loro occhi, aveva il grande torto di non chinare la testa al loro cospetto. L’isola Ferdinandea era siciliana, o meglio, era del Regno delle Due Sicilie. Ma siccome gli inglesi erano i padroni del mare, così come qualche sera fa pensavano che la Coppa Europa di calcio era cosa loro, anche allora pensavano che l’isola sputata dal mare era sempre cosa loro. E la chiamarono l’isola di Graham. Ma era solo un atto di prepotenza, perché l’isola si chiamava Ferdinandea, in onore di Ferdinando di Borbone. In questa storia di ‘infilarono’ anche i francesi, che con le loro navi solcavano il Mediterraneo, e forse con qualche ragione in più rispetto agli inglesi – ma sempre con ragioni in meno rispetto al regno delle Due Sicilia – chiamarono la neo nata isola Julia. E siccome qualche volta il diavolo ci mette la coda, successe che il poeta di Sciacca del ‘900 per antonomasia, Vincenzo Licata, che era innamorato della letteratura francese, decise – da poeta – che l’isola Ferdinandea si sarebbe chiamata Julia: il tutto immortalato in un’opera che prende spunto dall’isola chiamata alla francese: Lu gigghiu russo di l’isola Julia. E a Sciacca, quando parlava e scriveva il poeta Licata, c’era poco da contestare.
L’unico nome che non c’entrava proprio niente con l’isola ferdinandea o isola Julia era quello inglese. E invece, ancora oggi, la certe nautiche indicano la zona dove emerse l’isola dal mare come Banco di Graham. E sarebbe, il nome di questo banco, da cambiare, per ripristinare giustizia e verità della storia. Ma alla fine cosa fu quest’isola per la cui ‘conquista’ scoppiò una guerra diplomatica? Era alta una settantina di metri, circa 300 metri di larghezza e poco più di un chilometro di circonferenza. Nulla, volendo, rispetto ad altre isole vulcaniche sorte attorno alla Sicilia, dalle Eolie a Ustica, fino a Linosa. Cosa rimane oggi dell’isola Ferdinandea? Quarant’anni fa e forse più, per i pescatori di Sciacca e di Licata era un punto dove pescare. Facendo anche attenzione, perché ancora oggi la cima dell’isola Ferdinandea (o Julia) si trova a una decina di metri. Un po’ come la secca che si trova a qualche miglio di fronte Capo San Marco, sempre a Sciacca, luogo di mare dove, nelle notti di luna, si vanno a pescare le occhiate.
A noi l’isola Ferdinandea ha fatto sempre un po’ di paura. Chi scrive ha ancora i ricordi dei vecchi pescatori di Sciacca degli anni ’70 del secolo passato, che raccontavano le storia che si tramandavano di generazione in generazione: il mare che ‘bolliva’ i rumori strani: un luogo da dove tenersi alla larga. Nei mesi scorsi abbiamo conosciuto e intervistato Domenico ‘Mimmo Macaluso‘, uno dei più grandi conoscitori dei fondali marini del Mediterraneo. E gli abbiamo chiesto: dobbiamo avere paura di questo tratto di mare? “Come abbiamo riportato nel Rapporto INGV n° 125 del 2010, relativo al primo monitoraggio dei resti dell’isola Ferdinandea – ci ha risposto – quest’area è sismicamente attiva ed ‘… esiste la possibilità di una ripresa dell’attività vulcanica in una zona relativamente prossima alle coste meridionali della Sicilia, entro un raggio di alcune decine di chilometri da Capo San Marco e da Sciacca’. Queste considerazioni hanno chiare implicazioni sulla valutazione del rischio vulcanico e sismico ma, allo stato attuale, non sono sufficienti ad indicare un problema pressante ed a disegnare uno scenario di rischio imminente. Per quanto ne sappiamo, attualmente siamo in un caso di ‘normale’ convivenza con un vulcano attivo, come avviene con l’Etna, sulle cui pendici vive una popolazione di mezzo milione di abitanti. Anche se ci sono importanti differenze”.
Già, le differenza tra l’Etna, vulcano attivo che da qualche tempo fa i capricci (anche se non spaventa come dovrebbe, forse perché i catanesi con quella che chiamano “‘a Muntagna” ci convivono), e il vulcano attivo che giace sotto il mare. “In primo luogo – ci ha detto Macaluso – conosciamo bene e bene sorvegliamo il vulcano di Catania, ma sappiamo poco del Ferdinandea e degli altri numerosi vulcani impiantati sul grande rilievo sottomarino. In secondo luogo, nei vulcani sottomarini non viene condotto alcun genere di monitoraggio. In terzo luogo, anche se non eruttano regolarmente come l’Etna, tuttavia essi possono in qualsiasi momento dare luogo a eruzioni sottomarine di tipo esplosivo le quali, a loro volta, potrebbero generare tsunami e devastare una costa densamente popolata con possibili ripercussioni sull’opposta sponda del Mediterraneo… faccio ancora riferimento al rapporto che abbiamo redatto nel 2010: ‘Nel Canale di Sicilia, inoltre, pericolose onde anomale possono avere origine anche da fenomeni gravitativi in quanto l’insieme del contesto descritto costituisce un sistema tendenzialmente instabile, con possibilità di cedimenti dei fianchi e/o collassi di settore, comuni nei rilievi vulcanici sottomarini, nelle isole vulcaniche e nei vulcani prospicienti le coste’. Ed a fronte dei negazionisti, ecco cosa è successo a Sciacca, non nel 1908, ma il 12 Novembre del 1951, quando, dopo un forte boato, il mare si ritirò improvvisamente, lasciando scoperti i fondali del porto e determinando la rottura degli ormeggi delle imbarcazioni; l’onda anomala con la quale le acque riaffluirono, danneggiò le strutture portuali, alcune case e diversi magazzini, comportando la dispersione di parte della flottiglia peschereccia di Sciacca, con danni stimati da una Commissione parlamentare superiori ai 40 milioni di lire (stiamo parlando del 1951)”.
Chiudiamo con un ricordo personale. correva l’anno 1968, fine di Gennaio. C’era stato il terremoto e noi – noi sta per la famiglia alla quale appartengo – ci eravamo trasferiti a Sciacca, nella contrada Stazzone, il cui vero nome è alla siciliana, ‘u Stazzuni. Ci siamo ricordati di questo particolare quando Macaluso ci raccontò dell’onda anomala di Sciacca nel 1951. Erano passati, sì e no, una decina di giorni dal terremoto. La Sicilia era ancora scossa e nei paesi della Valle del Belìce erano in corso i soccorsi e proprio allo Stazzone era in corso di realizzazione una baraccopoli per i terremotati. Nel mare di fronte al centro dello Stazzone c’è una secca che è sempre stato chiamato ‘u Siccu. Quella mattina di Gennaio ci trovavamo in riva al mare quando, improvvisamente, il mare cominciò a ritirarsi. La parte della secca dove l’acqua era alta venti, trenta, quaranta centimetri era diventata nel giro di qualche minuto una grande distesa verde e bruna (le alghe brune ho scoperto poi che si chiamano Posidonie). In tutta la distesa verde e bruna si vedevano i pesci – per lo più cefali – dimenarsi. Ci precipitammo sulla secca priva di acqua contenti dell’insolita pesca. Ebbi anche il tempo di andare a casa a prendere un quato (secchio) dove mettere i pesci. La festa – per noi bambini era una festa – durò sì e no mezz’ora. Improvvisamente abbiamo visto l’acqua del mare tornare. Non ritornava velocemente, ma tornava. Riguadagnammo la riva e l’acqua del mare invase tutta la spiaggia, là dove l’acqua non era mai arrivata. Provammo paura? All’inizio, no. Ma quando l’acqua cominciò a invadere la spiaggia, salendo piano piano di livello un po’ di paura arrivò. Non durò molto, la paura, circa dieci minuti. Poi l’acqua, che aveva invaso le fondamenta della costruzione di un ristorante che si trovava a ridosso della spiaggia, cominciò a ritirarsi. Solo dopo aver ascoltato il racconto di quanto avvenne a Sciacca nel 1951 abbiamo capito cosa stava succedendo…
Foto tratta da Nautica Report
Visualizza commenti