- Un’incoronazione senza re
- Il Viceré Fogliani, su ordine regio, espelle i Gesuiti
- Dal Collegio Maggiore dei Gesuiti all’Accademia Nazionale e da questa all’Università degli Studi di Palermo
- Si “colonizzano” le piccole isole
- Il Vicario Principe di Trabia ripulisce il Regno dai briganti
- Re Ferdinando, uscito di tutela, scopre che in Sicilia c’è un Parlamento che chiede sempre maggiori poteri sovrani
- Una rivolta, nel 1773, travolge il Viceré Fogliani: a Napoli si accorgono che qualcosa in Sicilia “non va”
- Arriva, dritto da Parigi, l’illuminista napoletano Caracciolo che fa riforme liberiste
- Abolita la Santa Inquisizione, le dogane interne, ripristinata l’autonomia dei Comuni, garantita dal Vespro, ma oggetto di abusi feudali
- Gli errori tattici del Caracciolo e il rinforzarsi del ruolo politico del Parlamento
- Dopo Caracciolo, il viceré Caramanico cambia strategia: le riforme antifeudali continuano, ma in modo pienamente costituzionale
- Un servizio di posta pubblico
- Il tentativo del giurista napoletano Simonetti di ridurre la Sicilia a “provincia” del Regno di Napoli fallisce, ma rompe definitivamente il “feeling” tra Corona e Parlamento
- Nel frattempo in Sicilia si scopre lo zolfo…
di Massimo Costa
Un’incoronazione senza re
Appare altrettanto significativo della crescita del nazionalismo isolano che a Palermo si sia fatta una
vera e propria cerimonia dell’incoronazione (senza far partire da Napoli il piccolo Ferdinando che allora
aveva solo 9 anni), celebrata un po’ freddamente dal viceré Fogliani, e non si siano fatti solo i
“festeggiamenti” come si sarebbe fatto all’epoca degli Asburgo di Spagna. Questo viceré, in carica da
alcuni anni, lo sarebbe rimasto per tutta la minore età di Ferdinando III e anche per i primi anni della
sua maggiore età: con i suoi diciotto anni e più di governo, Fogliani – come si è detto – è stato il
viceré più longevo della storia di Sicilia.
Il Viceré Fogliani, su ordine regio, espelle i Gesuiti
Agli inizi nulla sembrava cambiare: Tanucci continuava a Napoli le riforme da assolutismo illuminato,
Fogliani continuava a Palermo, insieme ai Parlamenti, in maniera sostanzialmente indipendente. Il vero
re sembra ancora Carlo III di Spagna, che riesce a dare indirizzi anche alle due monarchie “siciliane”.
Provvedimento emblematico di questo periodo è l’espulsione dei Gesuiti nel 1767, voluta dalla Spagna,
e prontamente eseguita anche a Napoli e in Sicilia, teoricamente in modo autonomo. L’espulsione dei
Gesuiti ebbe un grande effetto per l’economia siciliana, perché mise in commercio l’immenso
patrimonio accumulato in secoli dalla loro Società, ora amministrato e messo in vendita da una
“Giunta degli abusi”. Ma significò anche la perdita degli storici collegi, malamente secolarizzati o
sostituiti da altri istituti di formazione. Il viceré Fogliani aprì a Palermo una sorta di liceo, le
“pubbliche scuole di grammatica e di rettorica”, e poi altre, poco a poco, si aprirono nel resto del
Regno, sia pure meno capillarmente della vecchia rete di collegi gesuitici. Alla fine del processo,
nonostante il danno immediato, l’istruzione divenne quindi più popolare e nelle mani dello Stato, ma ci
vollero alcuni decenni. Nel 1786, quasi vent’anni dopo quindi, furono aperte in Sicilia le “Scuole
normali”, per formare i maestri delle prime scuole elementari.
Dal Collegio Maggiore dei Gesuiti all’Accademia Nazionale e da questa all’Università degli Studi di Palermo
A Palermo chiuse anche il Collegio Maggiore dei gesuiti, che aveva avuto funzioni universitarie. La sua
riapertura come “Accademia Nazionale”, e quindi laica e statale, iniziata due anni dopo, prese due
decenni per andare a regime, ma fu anche un bene, perché oltre alle tradizionali lauree in filosofia e
teologia, questa avrebbe rilasciato anche lauree di ogni tipo, nel clima di risveglio nazionale siciliano di
fine secolo. Quell’Accademia poi si sarebbe trasformata nell’Università degli studi di Palermo soltanto
nel 1806, in piena epoca napoleonica, nonostante i Gesuiti, allora appena riammessi, pretendessero
inutilmente la restituzione del Collegio.
Si “colonizzano” le piccole isole
Nel 1760, scacciati i pirati barbareschi che ne avevano fatto un covo, fu colonizzata l’isola di Ustica.
Ciò che però non avrebbe salvato la piccola colonia da successive incursioni di algerini, fino a che
questa non fu stabilmente fortificata. Furono fatti progetti di colonizzazione anche dell’isola di
Lampedusa, ma questa sarebbe stata completata solo tra gli anni ’80 del 1700 e gli inizi del successivo
secolo. Durante il viceregno del Fogliani, questo seppe ingraziarsi i ceti dirigenti dell’Isola che sistematicamente
ne chiedevano e ottenevano il rinnovo nella carica. Ciò non significa che non ebbe i suoi grattacapi, tra
qualche carestia e l’endemico brigantaggio, che però ricevette un notevole ridimensionamento
dall’azione di polizia svolta dal Principe Giuseppe Lanza di Trabia, nominato Vicario del Viceré, con
poteri speciali.
Re Ferdinando, uscito di tutela, scopre che in Sicilia c’è un Parlamento che chiede sempre maggiori poteri sovrani
Quando Ferdinando cresce ed esce di tutela apprende con disappunto che “al di là del Faro” non è re
assoluto come a Napoli, e che deve tenere conto di una “rappresentanza della Nazione”. I rapporti
sono tesi sin dall’inizio, e non fanno che peggiorare nel tempo. Il Parlamento del 1770 chiede che le truppe mercenarie
degli svizzeri siano sostituite con un reggimento di fanteria siciliana, segno anche questo di una progressiva
presa di coscienza nazionale. Chiede anche che, oltre alla Giunta di Sicilia, la Deputazione di Sicilia potesse mandare
un agente “eletto” per rappresentare direttamente a Corte la volontà della Nazione.
Una rivolta, nel 1773, travolge il Viceré Fogliani: a Napoli si accorgono che qualcosa in Sicilia “non va”
Una rivolta popolare, dettata da normali condizioni di malcontento e di alto prezzo dei beni di prima
necessità, costringe il Fogliani alla fuga da Palermo nel 1773. Il viceré ripara a Messina. L’ordine è
riportato a Palermo, si dovette concedere un generale indulto, per qualche tempo le funzioni di ordine
pubblico nella capitale sono lasciate nelle mani delle corporazioni, ma si comprende che in Sicilia c’è
un problema. Il cardinal Filangeri è “Presidente del Regno”, per la prima volta, senza essere “Capitano
Generale”, cioè capo delle Forze Armate. Il viceregno è poi restaurato nella vecchia forma, ma
comincia una sottile tensione tra Napoli e Palermo. La Sicilia è infatti un vero e proprio Stato, che mal
sopporta l’autorità del re napoletano concepito come “straniero” non meno dei predecessori. Si sceglie
di inviare viceré che favoriscano una maggiore integrazione tra le due parti del dominio borbonico,
senza voler urtare troppo la suscettibilità dei grandi di Sicilia. La carica di viceré è ora sottoposta ad
alcune limitazioni e a un controllo più stretto da Napoli.
Arriva, dritto da Parigi, l’illuminista napoletano Caracciolo che fa riforme liberiste
Poco dopo Fogliani, anche il Tanucci, padre delle riforme illuministe, è licenziato e il governo inizia a
prendere una piega più reazionaria. Dopo un breve governo tutto sommato accomodante coi Siciliani
come quello del Colonna, viene spedito a Palermo l’illuminista Caracciolo, già ambasciatore a Parigi, a
“mettere ordine” tra i riottosi siciliani, nel 1781. Si devono al Caracciolo una serie di importanti riforme,
ormai ineludibili in una Sicilia immobile da secoli. Alcune di queste avevano un orientamento liberale, come la liberalizzazione della tratta dei grani o l’abolizione delle “mete” (prezzi e pesi fissi del pane). Altra riforma fu quella di liberalizzare il lavoro
salariato dei vassalli, anche fuori dal feudo del barone, senza il permesso di quest’ultimo. Queste
riforme da un lato liberavano lo Stato dalle “bardature mercantilistiche”, ma dall’altro non tenevano
conto del significato sociale della calmierazione dei prezzi, e resero inviso il nuovo governo ai ceti più
umili, dai quali avrebbe forse dovuto cercare il consenso. Tentativo, fallito, del viceré Caracciolo di ridimensionare
la Costituzione del Vespro Caracciolo letteralmente “sopportava” il Parlamento, ma se avesse potuto lo avrebbe abolito. Quando
lo convocò per la prima volta interruppe la tradizione di far leggere il discorso al protonotaro e lo lesse
lui direttamente (il successore, il Caramanico, sarebbe tornato all’antica tradizione). E fu da subito
sprezzante nei confronti delle istituzioni siciliane. Tra le altre proposte quella di cambiarne il nome: il
Parlamento doveva diventare un più modesto “Congresso” e i “donativi” più coercitivi “contributi”. Il
re, però, non accettò questi cambi costituzionali, ritenendoli pericolosi per la stabilità politica del
Regno.
Abolita la Santa Inquisizione, le dogane interne, ripristinata l’autonomia dei Comuni, garantita dal Vespro, ma oggetto di abusi feudali
Caracciolo, ad onor del vero, ha intenzione di mettere un po’ d’ordine nel Regno di Sicilia, e introdurre
sane innovazioni, ma lo fa commettendo innumerevoli errori tattici, ferendo ripetutamente l’orgoglio e
la dignità dei Siciliani, come ad esempio nel vano tentativo di ridurre i festeggiamenti di S. Rosalia a
Palermo. I tentativi di accentrare le decisioni a Napoli gli alienarono pure i ceti medi, già intrisi di un
vago nazionalismo siciliano, che pure dovevano essere i migliori suoi alleati nel ridurre i privilegi
dell’aristocrazia. Fra le più importanti riforme la chiusura dell’Inquisizione Spagnola (1782), con la
distruzione di tutte le sue carte, perdita questa incolmabile per la memoria storica. Vi è da dire che
ormai da tempo questa si era trasformata più che altro in una struttura assistenziale pubblica, la cui
finalità vera era di dare lavoro ad alcune persone; alla chiusura, nelle celle furono trovate solo alcune
vecchine, fatte passare per streghe e che ora non sapevano neanche dove andare. Furono abolite tutte le
linee doganali interne tra gli stati feudali. A parte i dazi comunali, quindi, veniva introdotto il libero
commercio all’interno del Regno di Sicilia. All’esterno naturalmente continuava il regime doganale,
anche tra Napoli e Sicilia. Furono aboliti gli abusi del mero e misto imperio nelle terre baronali, come
l’incarceramento “per ragioni ben note al barone” (1784). Importantissimo colpo alla feudalità fu,
infine, quello dato nel 1785, nel quale, richiamando in vigore Capitoli di re Federico III e Ferdinando I,
diede interpretazione estensiva di applicarli alle città feudali, come forse in teoria era già all’origine, le
quali di fatto si videro ora eleggere sindaco e giurati dai rispettivi consigli civici, cioè dalle assemblee
dei “civili” dei rispettivi paesi. Era in pratica l’abolizione del feudalesimo per cui la Sicilia era ancora una
vera somma di stati feudali. Restavano al barone ancora molti diritti: l’amministrazione dei beni feudali
nel comune, le funzioni giudiziarie (sia pure temperate), il servizio militare, la rappresentanza
parlamentare, nonché una serie di tributi locali, diritti, angarie, perangarie e simili, sempre che fossero
stati concessi dal re. Ma i Comuni feudali, che in teoria erano sempre stati autonomi, adesso
cominciavano ad esserlo anche in pratica. Ciò a sua volta apriva a una sorta di democrazia (di questo
l’assolutista Caracciolo forse si avvide poco) anche nelle città demaniali, che continuavano ad
acclamare i magistrati proposti dalla corte viceregia, ma finché a loro fosse piaciuto e ad eleggere alcuni
magistrati municipali con i cosiddetti “squittini” (scrutini). Le autonomie civiche, in verità, erano state
una delle più importanti conquiste del Vespro; conquiste mai del tutto revocate che Caracciolo rimise
semplicemente in piedi dopo secoli di abusi.
Gli errori tattici del Caracciolo e il rinforzarsi del ruolo politico del Parlamento
Altro effetto involontario delle riforme di Caracciolo fu che l’avversato Parlamento cominciò ad avere
una natura politica in senso moderno, con un vero dibattito al suo interno. Nei tempi gloriosi del
Vespro, e anche prima, era stata la forza del Regno, e così anche dopo, sotto i re aragonesi e poi
spagnoli. Poi, poco a poco, si era come atrofizzato, limitandosi a votare i donativi e a chiedere grazie,
spesso su interessi assai particolari. Ma non si era mai spento del tutto. Ora il Braccio demaniale,
incoraggiato dal Caracciolo, cominciava ad alzare la testa, in quanto rappresentante delle popolazioni
delle maggiori città del Regno. Nel Parlamento del 1786 questo chiede e ottiene una ripartizione più
equa dei tributi tra città demaniali e baronali. Caracciolo, con vero abuso, nomina da sé la
Deputazione del Regno, limitando i baroni a un terzo. Dopo di lui il Parlamento avrebbe ripreso ad
eleggere la propria Deputazione, ma la limitazione di potere ai baroni sarebbe rimasta. Lo stesso anno,
forse anche per il troppo malcontento generato dalla sua azione, venne richiamato a Napoli. I successori dovettero venire a più miti consigli con il Parlamento, perché i tempi si facevano duri per le monarchie, con l’approssimarsi della Rivoluzione francese.
Dopo Caracciolo, il viceré Caramanico cambia strategia: le riforme antifeudali continuano, ma in modo pienamente costituzionale
Il Caramanico, con molto più tatto del predecessore, ne continuò comunque l’opera di riforma. Con
una prammatica del 1788 (che riprendeva altre analoghe, ma meno efficaci, del 1766 e del 1776), diede
un altro colpo formidabile al feudalesimo: erano aboliti di colpo tutti i diritti feudali di cui non si poteva
dimostrare una esplicita concessione regia, in pratica istituiti dall’abuso dei baroni stessi: si trattava di
molteplici gabelle, servitù, angarie, perangarie, usi esclusivi di mulini, frantoi e forni. Ciò equivaleva, in
pratica, ad abolire quasi tutto il regime feudale dal Regno. Nel frattempo lo Stato di Sicilia si accresceva piano piano nelle funzioni che andava esercitando. Sebbene fosse ancora anacronisticamente diviso nei Tre Valli ereditati dai Saraceni, e
nell’organizzazione feudale e municipale, si andavano costituendo nuove branche della pubblica
amministrazione, alcune delle quali sotto il controllo del Parlamento stesso, come ad esempio la
Deputazione delle Strade, che si poneva moderni problemi di miglioramento della viabilità. Altre
branche, invece, erano presenti da secoli, come il “protomedicato” (sorta di ministero della salute), ed
ora ingrandito nelle funzioni. Nel 1787 fu riformata la vecchia procedura civile e criminale, ereditata
ancora da Alfonso il Magnanimo, con la quale le cause feudali potevano durare anche più di 100 anni.
Un servizio di posta pubblico
Di interesse anche la storia della posta. Nel Medio Evo non esisteva alcun servizio regolare
paragonabile a quelli moderni. Poi, poco per volta, il servizio postale regio per la divulgazione di ordini
e norme dal centro alla periferia, da sempre esistito in qualche modo, tra 1400 e primi del 1600
comincia a diventare più stabile e organizzato. Per le urgenze finanziarie dello Stato, a un certo punto,
nel 1624, questo servizio viene appaltato ai privati, passando di mano in mano. Ed è qui che, poco a
poco, diventa quello che è un servizio pubblico postale regolare. Sotto il Caramanico lo Stato riscatta
questo servizio, avocandolo al pubblico: un secolo e mezzo prima aveva privatizzato un abbozzo di
servizio, prevalentemente per usi di diritto pubblico, ed ora si ritrovava quella che chiameremmo oggi
una public utility, cioè un servizio di pubblico interesse, ma con utenti in massima parte privati.
Il tentativo del giurista napoletano Simonetti di ridurre la Sicilia a “provincia” del Regno di Napoli fallisce, ma rompe definitivamente il “feeling” tra Corona e Parlamento
La lotta tra Corona e Aristocrazia in questi anni fu comunque particolarmente feroce, anche se ancora
sotterranea. L’aristocrazia ebbe buon gioco a mostrarsi all’intera Nazione come tutrice delle libertà del
Regno, contro la rapacità e tirannia del governo napoletano. La mancanza di una dinastia siciliana si
faceva ancora una volta sentire come il più grande limite. Le necessarie riforme che il governo voleva
introdurre erano percepite come “riforme straniere”, e facilmente neutralizzate da una classe dirigente
che, più che ogni altra in Europa, si irrigidiva nella difesa di privilegi anacronistici. Da canto suo il
Governo non faceva che commettere errori, come quello di tentare di introdurre, per mezzo di suoi
avvocati, interpretazioni costituzionali restrittive e mortificanti. I baroni si stringevano al contrario su
un’interpretazione che era stata vincente in sede giudiziaria ai tempi del viceregnato di Laviefuille, sotto
Carlo III: quella dell’avvocato Di Napoli (1744) che sosteneva che i baroni siciliani erano stati
“commilitoni” di Ruggero I, e quindi che la sovranità apparteneva congiuntamente a loro e al re. Per
contro, le teorie del Simonetti, “napoletano”, erano talmente riduttive da concepire il Regno di Sicilia come
una mera provincia, e tutti i diritti vigenti come graziose concessioni regie. Fu imposta al Senato
palermitano la rimozione della statua del Di Napoli dal consiglio civico. Il clima era teso, e ancora una
volta gran parte della società siciliana, legata all’aristocrazia da concretissimi interessi economici, non
stava dalla parte del re. Re e viceré, finché potevano, facevano riforme per mezzo di prammatiche e
dispacci, non consultando il Parlamento, mentre le richieste dello stesso raramente si traducevano in
veri e propri Capitoli, riservandosi quasi sempre la Corona il diritto di esaminare le grazie richieste dal
Parlamento e dilazionandole di anni. Le tensioni tra Sicilia e Borbone, inevitabilmente, crescevano, ma
erano da entrambe le parti tenute a freno per evitare una rottura drammatica, che poi comunque
sarebbe avvenuta.
Nel frattempo in Sicilia si scopre lo zolfo…
Ad ogni modo la Sicilia si avviava ad una trasformazione economica profonda, non solo per effetto
delle riforme legislative, ma per processi interni di trasformazione più strutturali. Negli anni ’60-’70
inizia – ad esempio – l’estrazione dello zolfo, il vero petrolio della rivoluzione industriale, ciò che
avrebbe trasformato la piccola Sicilia in un teatro strategico dello scacchiere internazionale.
Foto tratta da Il Confronto Quotidiano
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