Carlo III (VII a Napoli) fu, a giudizio unanime, un sovrano illuminato. Ereditò due regni
bisognosi di riforme e non le fece certo mancare. Seppe pure farlo rispettando le tradizioni
costituzionali diverse dei due stati, il che forse rallentò un po’ il cammino delle riforme in
Sicilia, ma non impedì che questa camminasse al pari delle altre nazioni europee verso
una progressiva modernizzazione. Sul piano costituzionale cambiò pochissimo. In pratica era dall’inizio del Governo viceregio
che la Sicilia, pur avendo attraversato alcune riforme amministrative significative, era
amministrata più o meno allo stesso modo. C’era ormai una “costituzione vivente” che
integrava i Capitoli di Catania del 1296, la cui forza veniva considerata indiscussa.
Le legislature parlamentari videro ampliare, sotto i Borbone, la propria durata da 3 a 4
anni. Il mandato viceregio formalmente resta triennale, ma in pratica è esteso a tempo
indeterminato con continui rinnovi. Il castigliano, come lingua della corte viceregia, fu
progressivamente abbandonato, entro gli anni ’40 del secolo, a favore del toscano, che
ormai aveva fatto regredire definitivamente il siciliano a lingua letteraria, ancorché
considerata “nazionale”, e insidiando e restringendo sempre più l’uso del latino in ambito
accademico, forense e canonico (nel 1741 la prima convocazione del Parlamento in lingua
italiana). Il Settecento vide nascere la prima timida rete di scuole pubbliche, ma si trattava
ancora di interventi frammentari. La legislazione, anche su impulso del governo viceregio
(dietro il quale c’era la Corona, che riprendeva a occuparsi attivamente della Sicilia), sale
di livello, rispetto all’evidente scadimento della seconda metà del Seicento, ma sempre
secondo la gerarchia delle fonti sicule: al vertice, immutabili, il Corpus Juris di Giustinano e
le antiche Costituzioni del Regno, poi le legislazioni capitolari approvate dai Parlamenti
con il placet regio, poi le prammatiche viceregie (e raramente regie), infine i dispacci regi e
viceregi.
Lo Stato riesce anche a riprendere il controllo dei principali Comuni demaniali (e a
concedere la demanialità ad alcuni feudi che si compravano l’emancipazione), pur nel
formale rispetto dell’autonomia dei Consigli civici. La Corona ora controlla direttamente la
nomina dei “sindaci” (cioè dei rappresentanti) delle Città demaniali al Parlamento
(formalmente acclamati dal Consiglio Civico), in modo da avere una voce certamente
governativa al suo interno. Nei Comuni maggiori questa sarà comunque espressione di
una aristocrazia legata alla Corona (solo a Palermo il “Pretore” apparteneva in genere alla
prima nobiltà), mentre in quelli minori, che lo Stato controllava meno, il ruolo di
rappresentante veniva dato ad avvocati, già paghi di essere gli unici senza quarti di nobiltà
ad essere rappresentati in Parlamento, e quindi ancor più ligi degli altri ai dettami del
Viceré. Il Parlamento votava stabilmente per Bracci. Spesso la nobiltà faceva quadrato nei
Bracci militare ed ecclesiastico e poteva anche mettere in minoranza il Governo che
controllava solo quello demaniale. Qualche volta il Governo riusciva a tirare dalla propria parte
l’Ecclesiastico e strappare ai nobili qualche privilegio. E qualche volta, infine, lo Stato
poteva portare avanti anche un processo di timida laicizzazione coalizzando Braccio
militare e demaniale contro quello ecclesiastico.
Sul piano religioso, dopo secoli di stentata tolleranza, finalmente si legittima la presenza
dei greco-cattolici di origine albanese in Sicilia: nel 1734 apre il Seminario Italo-Albanese
ad opera di Padre Guzzetta, nel 1784 si istituì un “vescovo ordinante”, competente solo
per il rito e per le ordinazioni, ma senza una vera e propria diocesi. Il processo sarebbe
stato completato solo due secoli dopo, con l’Istituzione dell’Eparchia di Piana nel 1937,
per le forti resistenze e limitazioni che la Chiesa latina non cessò di esercitare su questi
fedeli considerati in odore di “ortodossia”, e quindi potenzialmente eretici. Nel frattempo,
però, la Chiesa greca originaria di Sicilia, costituita da una serie di monasteri basiliani
siciliani e calabresi, e soggetta all’Archimandrita di Messina, andò progressivamente in
declino già nel Settecento, e finì per essere assorbita dalla Chiesa latina messinese, ma
per tutto il secolo, seppure sotto prelati latini, ancora sopravvisse. Solo nell’Ottocento si
sarebbe progressivamente scardinata, lasciata vacante dapprima, sotto le Due Sicilie,
colpita poi dalle soppressioni degli ordini monastici dopo l’Unità d’Italia, dall’accorpamento
con la Diocesi latina di Messina nel 1883 e infine dal terremoto del 1908, con la quale fu
chiusa l’ultima parrocchia di rito greco, per riaprire simbolicamente solo nel 2011.
Altra apertura religiosa di re Carlo fu la revoca dell’espulsione degli ebrei di fine
Quattrocento (1741) nella speranza che questa comunità desse impulso alle attività
economiche. Ma non per questo si sarebbe mai più ricostituita una comunità ebraico-
sicula degna di nota, e – visto l’insuccesso dell’iniziativa – la nuova norma finì per essere
revocata qualche anno più tardi.
La “religione” di Malta, cioè i Cavalieri di S. Giovanni, nei secoli aveva perso gran parte
della sua funzione militare, ed era ormai una sorta di porto franco famoso per il suo
ospedale all’avanguardia. I Cavalieri provarono anche a sfidare l’autorità del Regno di
Sicilia su di loro, considerando l’omaggio annuale del falcone solo un atto di alta sovranità,
ma nell’ambito di una sostanziale indipendenza. Nel 1754 impedirono la visita del vescovo
di Siracusa, determinando una ferma reazione di re Carlo con un blocco commerciale
durato un anno. Un arbitrato internazionale, comunque, avrebbe riportato le Isole Maltesi
all’ordine all’interno del Regno di Sicilia.
Tra le altre riforme del periodo l’istituzione del Supremo magistrato di commercio (1739),
per le cause di diritto commerciale, fino ad allora regolate dai giudici ordinari. È da
ricordare che allora la Sicilia aveva un diritto civile romano antico, e un diritto commerciale
dato dagli Usatges di Barcellona, introdotti in Sicilia con ogni probabilità ai tempi del
Vespro, oltre a numerosi usi locali sulle diverse piazze commerciali. Al di sotto del
Tribunale erano corti minori, i cosiddetti “Consolati di mare”, nei singoli porti. Ma la
corruzione che questi magistrati, e i conflitti di competenza con le altre magistrature,
furono tali che il Parlamento finì per chiederne la soppressione. Il Re accolse la supplica, lasciando
sopravvivere solo i consolati delle due “metropoli”, Palermo e Messina, e
limitando i poteri della magistratura commerciale ai soli rapporti tra mercanti o con gli
stranieri. Anche il vertice del Tribunale fu riformato, abolendo il “Supremo magistrato”, e
facendolo presiedere direttamente dal Presidente del Tribunale del Concistoro, che era –
ricordiamo – la più alta magistratura costituzionale e amministrativa del Regno, una sorta
di Consiglio di Stato o Corte Costituzionale ante litteram.
Carlo riordina anche la sanità, estendendo su tutta la Sicilia l’ufficio, prima municipale
palermitano, della Suprema deputazione generale di Salute Pubblica (1743). Impossibile
ricordare le tante piccole e continue innovazioni del secolo. Ne ricordiamo una tra tutte: la
fondazione a Messina della prima società anonima (una sorta di piccola “Compagnia
siciliana delle Indie” sul modello di analoga società formata anni prima a Napoli per il
regno continentale), con 350.000 scudi (140.000 onze) di capitale sociale (1752). Anche la
Sicilia si avviava quindi alla modernizzazione in senso capitalistico. Gli stessi aristocratici
cominciavano a mal sopportare gli orpelli di diritto pubblico legati alla loro carica, ed erano
più interessati ad uno sfruttamento di diritto privato dei beni feudali, così come a
un’appropriazione delle terre comuni, non diversamente da come in parallelo avveniva in
Inghilterra nelle enclosures. L’aristocrazia siciliana, e intorno ad essa tutte le classi
emergenti, comprese le borghesie delle grandi città orientali, sviluppava sempre più un
forte sentimento nazionale isolano, tenuto d’occhio con sospetto dalla monarchia
borbonica, ma sempre incanalato nel quadro costituzionale.
In quest’ottica i Siciliani andavano scoprendo e rivalutando l’origine normanna del loro
Stato, e la stretta parentela istituzionale che li legava agli Inglesi, data dalla presenza di un
Parlamento assai simile (i due Bracci militare ed ecclesiastico corrispondevano quasi
esattamente ai pari temporali e spirituali della Camera dei Lords, mentre il Braccio
demaniale corrispondeva alla grossa alla Camera dei Comuni).
Ci furono varie riforme dell’amministrazione, anche in senso sociale. Se non riuscì subito il
decollo di un’istruzione pubblica per i “civili” (il ceto medio), maggior successo ebbe la
“deputazione de’ projetti” per prendersi cura dei neonati abbandonati, sotto il viceré
Laviefuille. Sotto lo stesso governo troviamo le prime testimonianze di logge massoniche
in Sicilia.
Dal punto di vista dei governi viceregi, nei primi tempi, dopo la conquista/liberazione,
questo fu affidato provvisoriamente alla presidenza di Pietro di Castro, marchese di
“Grazia Reale”, ma già nel 1737 si riprese con la nomina di un viceré regolare, Bartolomeo
Corsini, principe di Gismano. Quella di Carlo fu l’epoca d’oro delle riconquiste di sovranità
da parte del Parlamento. Il Parlamento del 1738, ottenne che tutte le cariche
ecclesiastiche, tranne l’arcivescovato di Palermo, fossero riservate a regnicoli siciliani.
Sotto il Corsini fu istituito il citato Tribunale di Commercio, e fu stipulato uno storico trattato
di pace tra i due “regni” (che ora gestivano una politica estera praticamente congiunta) e
l’Impero Ottomano, e poi con il suo stato vassallo della Tripolitania. Sempre sotto il Corsini
si ebbe la revoca dell’espulsione degli Ebrei di cui si è detto. Era ancora viceré il Corsini
quando l’illuminazione pubblica notturna, per la prima volta nella storia, nel 1744, rischiarò
le tenebre delle due principali arterie della capitale. La società si modernizzava lentamente
ma tangibilmente. E l’amministrazione pubblica diventava più complessa, costringendo lo
Stato a creare nuovi uffici e tribunali, come ad esempio la “Giunta dei Contrabbandi”, per
sgravare il Tribunale del Real Patrimonio, delle continue cause relative alle sfilacciate
dogane esterne dell’Isola.
Nel 1747 al Corsini successe Eustachio duca di Lavieufuille, un militare, che sulle prime
pensava di poter amministrare il Regno come una caserma ma che, dopo una pioggia di
ricorsi a Napoli, dovette anche lui piegarsi al rispetto delle “Costituzioni e Capitoli” del
Regno. Anche lui dovette espandere l’amministrazione statale, istituendo la “Giunta
frumentaria”, per mettere ordine nel vitale traffico dei grani. A lui si devono particolari
attenzioni sulla città di Messina, per farla rinascere come polo commerciale e marittimo
siciliano, tra cui la sopra menzionata fondazione della prima società anonima siciliana.
Con il Lavieufuille, ancora, la Sicilia si dota di un esercito regolare proprio. Fino ad allora
aveva sempre avuto una flotta propria, un sistema di fortezze costiere, una milizia
territoriale di difesa, le truppe baronali all’occorrenza, le difese cittadine, ma la presenza
stanziale di truppe ordinate in senso moderno, era stata affidata a potenze esterne,
dapprima alla Spagna, poi alle varie corone con cui si era stati in unione. Adesso, senza
venir meno del tutto la difesa “napoletana”, la Sicilia si dota di cinque reggimenti propri,
fatti da soldati di cittadinanza siciliana: due di cavalleria e tre di fanteria.
Al Lavieufuille, dopo una breve presidenza, successe il Marchese di Fogliani, nel 1755, già
Primo Ministro a Napoli. Questi sarebbe stato il viceré più longevo, nel suo mandato, di
tutti: ben 18 anni, tra continui rinnovi, fino al 1773. Il suo governo, fino al 1759, in parallelo
a quello del Tanucci a Napoli, guidava il Paese in modo equilibrato e pacifico. Nel 1759 Carlo succede
nel Regno di Spagna, con il titolo di Carlo III. Napoli e Sicilia sono
lasciate al figlio minore Ferdinando (IV di Napoli, III di Sicilia), sotto la correggenza di un
“triumvirato” di due “napoletani” e un “siciliano”, il Presidente della Giunta di Sicilia, Pietro
Bologna Beccadelli, principe di Camporeale.
Fine 34esima puntata/ Continua
Foto tratta da La Sicilia in Rete