E’ proprio vero: la stori la scrivono i vincitori. Nel caso della Conquista del Sud da parte dei piemontesi la vera storia è stata nascosta. Ma piano piano sta venendo fuori grazie a scrittori e giornalisti del Sud e della Sicilia. Noi cerchiamo di dare spazio a tutti i protagonisti di questa faticosa ricerca della verità. E se Giuseppe Scianò ha chiarito tanti aspetti di quel grande imbroglio che è stata la cosiddetta impresa dei mille di Garibaldi in Sicilia – che in realtà non è altro che l’inizio della trattativa tra Stato italiano e mafia, che non è mai stata interrotta – molto importante è il volume Briganti di Gigi Di Fiore (che, detto per inciso, ci piacerebbe, con il consenso dell’autore, pubblicare a puntate). In meno di dieci righe l’autore ci racconta le gesta eroiche di grandi patrioti del Sud Italia che si battevano per la libertà, contro gli oppressori piemontesi. Patrioti che solo i disonesti possono definire “briganti”, dal momento che i veri briganti erano i generali e i militari savoiardi, che oltre che invasori erano anche assassini. Uno di questi è stato l’immenso Carmine Crocco, che ha suscitato la simpatia anche di un italiano ‘unionista’ convinto come Indro Montanelli. La storia ufficiale – quella che ancora oggi si studia a scuola – non solo definisce “briganti” i patrioti del Sud che si battevano contro gli invasori, ma nasconde – per esempio – che per tre anni Basilicata, Puglia e Campania vennero strappate ai piemontesi. Ma diamo la parola a Gigi Di Fiore:
“Nel luglio 1863, tra Venosa e Melfi, Crocco e altri capi affrontarono con i loro uomini un’altra colonna di cavalleggeri di Saluzzo, stavolta al comando del tenente Enrico Borromeo. Ci fu ancora una soffiata sul plotone in perlustrazione. Crocco, Tortora, Caruso, Teodoro decisero l’assalto. I briganti, nascosti, attesero e , quando i soldati furono a tiro, partì l’inferno delle fucilate. Ancora una volta, i feriti vennero finiti a coltellate e revolverate. Morirono in ventuno. I corpi furono mutilati e spogliati di ogni cosa. Un prete di Trevico, che faceva parte della banda Crocco, li benedisse tutti, il tenete Borromeo si salvò, dopo una affannosa corsa a cavallo verso Venosa. Qualche anno dopo, Giuseppe Caruso raccontò durante il suo processo: ‘Avrei potuto benissimo uccidere il tenente Borromeo, inseguendolo, perché i miei colpi non falliscono. Non lo feci, perché ne ebbi pietà’. Tre anni di controllo assoluto del territorio, tra Basilicata, Puglia, Campania”.
Articolo tratto da Regno delle Due Sicilie.eu