da Silvia Potenza
ex dipendente IAL
riceviamo e pubblichiamo
Quanti sono gli Antonio Peluffo che si aggirano, ancor oggi, per i corridoi della pubblica amministrazione? Sempliciotti ma convincenti, pronti ad annusare l’occasione buona e a rifilare la truffa ardita, quasi impossibile ma lesta e sagace. La storia della truffa è storia d’Italia, della sua unificazione, del patrimonio ereditato da Regni e Chiesa, custodito dallo Stato liberale prima e ampliato, poi, dal fascismo. In ultimo patrimonio frutto del sistema pentapartitico e delle sue opere pubbliche: ma mettiamoci pure un po’ di veleno, frutto del welfare state, dello Stato assistenziale e dei suoi enti di beneficenza. La storia della truffa ha un posto d’onore tra gli argomenti della filmografia italiana degli anni ’60: il tema dell’italiano o del burocrate truffaldino è stato caro a tanti registi e attori che rivediamo spesso con piacere e senza stancarci. Manfredi, Sordi, Gassman, i più grandi, prima o poi si son cimentati nel ruolo proposto loro di truffaldini da grandi registi che non abdicarono al ruolo di castigatori di questo malcostume italico: la truffa.
Toto’ truffa del 1961 è il capostipite di questo filone cinematografico. Totò nei panni di Antonio Peluffo si cimenta nella vendita della Fontana di Trevi e gli basta semplicemente la bella presenza di Camillo, interpretato da Nino Taranto, per far abboccare all’amo l’impacciato, rubicondo, riccone americano. Castigare mores ridendo! Richiamare le massime latine a volte fa bene: punire il malcostume con la risata! La truffa, come soggetto d’arte e letteratura, è cara a tanti artisti e non solamente a Camillo Mastrocinque che diresse Totò truffa: Camilleri ci ha scritto pagine epiche al punto che rischiò egli stesso di esserne vittima in una vicenda tanto carina con una certa fabbrica di biciclette di un suo stimato amico. Peccato che non si possa sempre ridere ma che si debba difendere la dignità dello Stato e degli individui truffati: lo spettatore ride ma il truffato, oltre la beffa e lo sberleffo e la vergogna che ne consegue, subisce il danno, la perdita, lo strozzo. La leggerezza della risata non mitiga i singulti del pianto.
Facciamola breve, disegniamo, tracciamo tra risata e pianto la storia di chi vuole emulare Antonio Peluffo e vendere la Fontana di Trevi.
Era l’1 giugno del 1971 e ancora gli italiani avevano contezza della bella scrittura e della chiarezza delle parole. Non solo, avevano il dono della sintesi e della brevità. I ministri, “segretari di Stato”, come piaceva dirsi allora, Ferrari Aggradi e Donat Catten, rispettivamente Ministro al Tesoro e Ministro al Lavoro, decretavano la concessione di un contributo di centodiciotto milioni delle belle vecchie lire all’Istituto Addestramento Lavoratori IAL con sede in Roma per la costruzione di un centro di Formazione professionale con sede in Termini Imerese. Lungimiranti, all’art. 2 del decreto vollero specificare che l’immobile non potesse essere alienato, né destinato a scopi diversi da quello per cui il contributo veniva concesso. Non solo, ma trattandosi di vecchie volpi democristiane che ben conoscevano i loro polli, aggiunsero che, in caso di estinzione, dell’attività istituzionale dell’Ente beneficiario, l’immobile dovesse essere devoluto all’Ente Regione nel cui territorio l’immobile veniva costruito.
Orbene, trascorrono anni di onorevole utilizzo di tale immobile e si giunge ai nostri giorni. L’immobile assurge alla cronaca quando appare tra i beni ammessi alla vendita senza incanto relativa al fallimento dello IAL Sicilia, dichiarato tale dal Tribunale di Palermo con sentenza n.175 del 2015. Lo IAL Sicilia aveva sostituito “in corsa” il vecchio Ial CISL Sicilia: un brutto epilogo fatto di debiti, di stipendi non onorati ai lavoratori della Formazione, di Cassa integrazione utilizzata nello stesso frangente in cui la Regione versava il proprio dovuto, di venditori creditori e tante altre cose ormai note ai più grazie alla cronaca giornalistica. La vendita senza incanto pare sia da poco, a Maggio, andata deserta e forse sospesa. Un gruppo di lavoratori però non si è arreso a dover esser menato per il naso e ha portato la faccenda a conoscenza dei giudici evidenziando circostanze penosamente gravi della vicenda. E’ possibile mettere in vendita un immobile che avrebbe dovuto essere restituito all’Ente Regione siciliana in caso di cessazione dell’attività istituzionale per cui era stato costruito come il decreto del 1971 aveva previsto? Chi è l’oftalmologo che cura gli organi della vista dei funzionari della Regione siciliana che non si accorgono della vicenda e non tutelano un bene della Regione, un interesse patrimoniale regionale, che non controllano fatti tanto importanti ? Sarà forse lo stesso oculista che cura gli occhi di chi non riesce a leggere il decreto di Ferrari Aggradi e Donat Cattin? Se ci fosse Mastrocinque potrebbe girare il prosieguo di Totò truffa: stavolta non si vende la fontana di Trevi ma immobili della Regione siciliana. Antonio Peluffo è redivido e ha ancora con sé lo scaltro Camillo. Povera terra mia! Perdona il sorriso! Qui non accade nulla, sia che non si paghino gli stipendi a centinaia di lavoratori, sia che si sciolgano bambini nell’acido! Non voler vedere è la malattia oftalmica più diffusa. Qui non truffiamo gli americani, qui truffiamo il nostro onore.
Foto tratta da Napolipiù.com