I Garibaldini, più numerosi dei Duosiciliani, puntano sull’attacco alla baionetta. Non la spuntano affatto nemmeno questa volta. La loro bandiera viene presa in consegna dal gruppo formato da Elia, Schiaffino e Menotti Garibaldi (11) i quali, agitandola a loro volta dall’alto, invitano i Garibaldini rimasti più lontani ad avvicinarsi ed a partecipare all’assalto. Rincuorano, altresì quanti sono già in prima linea; più confusi che persuasi… Dove sono i picciotti del Barone Sant’Anna e del cavaliere Giuseppe Coppola? Li cercheremo fra poco; ma è certo che non stanno combattendo. Sono in campo, sia pure marginalmente, solo alcuni di loro che sanno come stare lontani dai pericoli…L’assalto dei Garibaldini non riesce. L’eccessivo avvicinamento alle linee Duosiciliane fa nascere una mischia furibonda. Ma nessuna delle due parti può dirsi vincente.
I Duosiciliani hanno pressoché esaurito le munizioni. La loro posizione diventa difficile anche se tengono ancora in pugno il combattimento. A questo punto il Generale Landi, anziché mandare gli invocati soccorsi, manda ordini perentori di ritirata. A nulla valgono le proteste dei soldati rimasti nell’accampamento che chiedono a gran voce di andare anch’essi a combattere per aiutare i loro commilitoni. Il Landi sa bene cosa un soldato non dovrebbe fare. E lo fa: tradisce platealmente il proprio Paese ed i suoi soldati. Insiste nell’ordinare allo Sforza la ritirata. Ma i Cacciatori non mollano e faranno ricorso anche ai sassi, non avendo più munizioni sufficienti. Resistono con una tenacia incredibile. Lo stesso Garibaldi viene colpito da una violenta sassata, non però in parti vitali. Si riprende abbastanza agevolmente (12) Il suo morale, tuttavia, è a pezzi. Il gruppo della Guardia alla bandiera dei Garibaldini viene coinvolto nella mischia. Lo Schiaffino viene ucciso da un colpo sparatogli a bruciapelo. L’Elia viene colpito in bocca da un colpo sparato a poca distanza (ma sopravviverà a lungo e accamperà diritti alla pensione e al risarcimento).
Il coraggioso soldato Duosiciliano che se ne impossessa si chiama Angelo De Vito. Per Garibaldi non è una bella notizia. La giornata, insomma, non scorre così come lui l’aveva immaginata. Se lo avesse saputo, all’alba, non avrebbe cantato a squarciagola, né avrebbe avuto motivo di stare allegro. Non può, ora, accettare di essere sconfitto da un gruppo di soldati del vituperato Regno delle Due Sicilie. Sa bene che questi soldati sono meno numerosi dei Mille, poco dotati di munizioni. E, soprattutto, boicottati dal loro Generale. Ma sa ancora meglio che si tratta di uomini decisi, motivati, coraggiosi. Cosa diranno ora gli Inglesi, i cui giornali hanno già esaltato ogni suo passo? Gli stessi ammiratori postumi del Nizzardo, Montanelli e Nozza, così valuteranno quella battaglia, che pure nell’insieme continueranno a vedere, a raccontare da unitari convinti: «E da allora in poi, cioè dal momento stesso in cui cominciò, Garibaldi perse ogni controllo della battaglia, che nessuno è mai riuscito a raccontare per il semplice motivo che non ebbe né capo né coda e si risolse in un polverone di attacchi e di contrattacchi isolati e di disperati corpo a corpo. A un certo momento le cose si erano messe in modo tale che perfino l’intrepido Bixio consigliò a Garibaldi di ordinare la ritirata.»
«“Dove? Qui si fa l’Italia o si muore”, rispose il Generale, e pare che questa frase l’abbia pronunciata davvero. Poi l’incredibile avvenne. I Napoletani erano sul punto di schiacciare il nemico con la loro superiorità numerica, quando la ritirata la fece suonare Landi. Pare che fosse rimasto a corto di munizioni perché non aveva previsto una resistenza così accanita da parte degli straccioni, carognoni, malandrini» (13). Neppure Montanelli e Nozza – da buoni risorgimentalisti – parlano del fatto che il Landi aveva bloccato il grosso della sua colonna a pochi chilometri dal luogo dei combattimenti. Ed è peregrina anche la scusa che si vuole offrire al Landi dicendo che questi era rimasto a corto di munizioni, quando invece proprio il Landi non aveva fatto sparare neppure un colpo ai 2400 soldati, a sua disposizione che aveva sottratto alla battaglia per favorire la vittoria e la sopravvivenza stessa di Garibaldi. Va anche sottolineato che la superiorità numerica, a Pianto Romano, dobbiamo darla ai Garibaldini, perché è dei Garibaldini. Per quanto riguarda la resistenza dei Soldati Duosiciliani, dobbiamo ricordare, ancora una volta, che questa non era stata affatto prevista da Garibaldi e dai suoi uomini… E non viceversa. Ed è triste dovere fare queste osservazioni sul contenuto del libro di G. Cesare Abba, Da Quarto al Volturno, un best seller, sul quale molti Siciliani e Meridionali hanno imparato o credono di aver imparato la storia d’Italia e quella di Garibaldi. Dobbiamo però dire che altri scrittori e storici fanno di peggio. Alcuni, addirittura, neppure fanno il nome e tanto meno parlano del ruolo determinante del Generale Landi. Cioè: del ruolo di traditore! Tanto vale tornare quindi al Bandi, dichiaratamente garibaldino. Apologeta anch’egli, senza troppi sotterfugi. E capace, tuttavia, di fare quelle battutacce, dalle quali fa trasparire alcune verità, delle quali i suoi colleghi, allora non gradirono che se ne facesse un seppur minimo accenno. Esempio oggi seguito dalla cultura ufficiale.
Dopo aver raccontato di essere stato ferito nel tentativo di assalire il sergente Duosiciliano che aveva, poco prima, ucciso lo Schiaffino, Giuseppe Bandi ci descrive una scena drammatica. Sente gridare da tantissime voci: «“Salviamo il Generale!” Tutti si serravano intorno a lui, e conobbi che il momento era terribile, e le palle fischiavano e miagolavano da tutti i lati. Sirtori giunse proprio allora galoppando su di un cavalluccio e si fermò accanto a noi, chiamando a gran voce i soldati che aveva dietro, e che erano le ultime carte che si giuocavano in quella incerta partita, e chiese al Generale: “Generale, che dobbiamo fare?”. Garibaldi guardò intorno, e con voce tonante gridò: “Italiani, qui bisogna morire”». Ci preme evidenziare come la frase realmente pronunziata da Garibaldi, quando credeva – e non a torto – di essere stato sconfitto, sia stata appunto: «Italiani, qui bisogna morire». La retorica risorgimentalista, però, non l’avrebbe considerata troppo entusiasmante e l’avrebbe trasformata in quella ormai scolpita su tante lapidi e tanti monumenti oltre che su tanti libri: «Qui si fa l’Italia o si muore». Proprio in quell’istante il povero Bandi viene ferito da un’altra pallottola e, questa volta, cade a terra. Non senza però avere appreso la notizia che si sparge immediatamente fra le schiere garibaldine già convinte di essere in piena disfatta:
Poco dopo il Bandi ricoverato nell’ospedaletto di campo (una casetta di campagna), sente un altro urlo ancora più forte: «Vittoria! Vittoria!». E «Vittoria! Vittoria!» gridano anche alcuni dei prudenti Siciliani che dai monti circostanti seguono a distanza i combattimenti e che hanno capi-o molto bene quale delle due parti dovrà vincere la guerra. Fingendo di compiacersene. E, quel che è peggio, lo hanno capito pure i picciotti ed i gentiluomini che li guidano. Cosa è avvenuto? Perché questa ritirata? Il Generale Landi è passato dalle parole ai fatti. Ha visto che lo Sforza ed i suoi uomini non intendono ritirarsi. Dà quindi le necessarie disposizioni per levare il campo, per smobilitare e tornare a Palermo. Non si cura delle proteste e degli atti di insubordinazione dei molti soldati che cominciano ad avviarsi a piedi e spontaneamente verso il campo di battaglia per aiutare lo Sforza. Vedutosi, ancora una volta, disubbidito, il Landi dà l’ordine deciso ai trombettieri di suonare la ritirata, sia pure dall’accampamento, ma in modo che i combattenti la sentano. Avverrà così che lo Sforza con i suoi uomini saranno costretti a ritirarsi. D’altra parte hanno già terminato le munizioni. Proprio in questa ritirata (che pure non è affatto una fuga e che è molto ordinata), gli uomini dello Sforza hanno le maggiori perdite, perché i Garibaldini avranno modo di puntare i cannoni contro di loro e di sparare a mi- traglia. Mentre i Borbonici non hanno più munizioni né le necessarie armi pesanti per coprire la propria ritirata. Ed il Landi si guarda bene dall’inviare rinforzi o di usare i cannoni, a sua volta. Quando lo Sforza arriva al campo avvengono scene indicibili. I soldati Napoletani pretendono che si passi, tutti assieme, al contrattacco. Sono furenti, esasperati.
A questo punto il Landi si dà da fare, giocando il tutto per tutto. Fa capire che in fin dei conti quella dello Sforza è già una vittoria, come dimostra il fatto che la bandiera del nemico è stata conquistata. Si avvicina, inoltre, la sera. Esiste, altresì, l’esigenza di tenere consiglio per vedere quale apporto in termini di sostentamento potrà essere dato alle truppe e via dicendo. Il Landi, insomma, argina il pericolo di ammutinamento, da un lato, e dall’altro regala la vittoria ai Garibaldini ancora increduli e duramente provati. Torniamo intanto nel campo di battaglia rimasto fortunosamente in mano ai Garibaldini. I morti ed i feriti piuttosto gravi – fra i Garibaldini – a giudizio del Bandi sono circa centodieci ed altrettanti sarebbero quelli Duosiciliani. Non pochi feriti moriranno in seguito, per l’impossibilità di cure adeguate e per le conseguenze di infezioni, di cancrene e di altro. Pochissimi i prigionieri: una decina di soldati sorpresi dall’imprevedibile ordine di ritirata. Il Bandi preferisce, cioè, esagerare. E scrive testualmente, con quel pizzico di cattiveria e di interesse propagandistico, dai quali non è certamente immune: «Restò Garibaldi padrone del campo, su cui giacevano centodieci Napoletani morti o feriti e prese alcune munizioni e qualche decina di prigionieri. […] Le perdite dei Garibaldini furono eguali presso a poco a quelle dei Borbonici, ma ognuno dei nostri morti valeva per dieci (sic)» (16). Bandi ha mentito due volte, sia perché il numero di morti era di gran lunga minore, sia perché inventava una enorme superiorità militare dei Garibaldini, che nella realtà non si era affatto manifestata. Eppure sapeva bene che ogni Duosiciliano aveva lottato contro due o tre Garibaldini. O presunti tali. Anche perché se è vero, com’è vero, che i picciotti di mafia non erano intervenuti quasi mai negli scontri, è pure vero che il loro schieramento alle ali e la loro stessa presenza, nell’area dei combattimenti, imponevano ai soldati Duosiciliani una minore libertà di manovra ed alcune cautele per impedire di essere accerchiati o presi alle spalle dai picciotti stessi. Nel caso in cui questi avessero deciso di intervenire con maggiore impegno.
Giuseppe Scianò E nel mese di Maggio del 1860 la Sicilia diventò colonia!
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