di Massimo Costa
La Sicilia agricola conosce in questo secolo e nel successivo una continua espansione. I re spagnoli ottengono fondi dall’aristocrazia siciliana attraverso due canali: la concessione di titoli più alti e le licentiae populandi (cioè le concessioni di costituire nuovi comuni feudali di popolazione). Ormai quasi tutti i feudatari, almeno nei primi livelli di giudizio, detenevano il “mero e misto imperio” (cioè il diritto di esercitare la giustizia civile e criminale), erano i supremi arbitri delle loro “università” (cioè dei Comuni insistenti nel loro feudo). I “militi”, antico primo livello della feudalità al tempo dei Normanni, subfeudatari di terre senza autonomia comunale, nel corso del ‘400 erano scomparsi, sostituiti da una pletora di “baroni”, spesso estratti da una piccola borghesia cittadina nobilitata. Molte baronie erano diventate contee (rarissime le viscontee), mentre le contee si andavano trasformando in feudi maggiori (marchesati, ducati, e infine principati). I feudi, però, ormai avevano assunto, come si è già detto per la precedente fase “aragonese”, tutti o quasi la piccola struttura di “Città e terre baronali”, cioè le dimensioni di un Comune. Unica eccezione, vero stato nello stato (oltre al già citato marchesato di Malta, trasformato in Signorìa dei Cavalieri), permaneva la Contea di Modica, composta da circa 7 Comuni dell’attuale Provincia di Ragusa, pur sempre soggetta comunque all’autorità centrale. Nel frattempo la popolazione rurale progressivamente diminuiva, con la concentrazione in borghi agricoli, lontani talvolta dalle terre da coltivare. Ma questi processi si sarebbero irrobustiti nel secolo successivo e ai tempi di Filippo I erano soltanto gli inizi.
Il ‘500, peraltro, aveva fatto conoscere alla Sicilia trasformazioni economiche e culturali di rilievo. Alla “Tavola” di Palermo si aggiunge ora un altro grande banco comunale: la Tavola di Messina. E la prima la troviamo a svolgere funzioni di Tesoreria di Stato per conto del Governo viceregio; entrambe iniziano ad emettere una primitiva moneta cartacea, le cd. “polizze”. Anche la moneta metallica trova la sua definitiva sistemazione: ora anche i grani sono regolarmente coniati e non sono più pura unità di conto. In pratica si stabilizza il rapporto 6 denari o piccioli per un grano, 20 grani per un tarì, 30 tarì per un’onza. Solo l’onza, tuttavia, resta unità di computo teorica, ancora non effettivamente coniata. Sotto Filippo decolla il sistema di istruzione dei Gesuiti, con la loro rete di collegi ormai presente praticamente in tutte le città siciliane di un qualche rilievo.
Con questo re, infine, la Sicilia conobbe l’introduzione della Controriforma e lo stroncamento sul nascere di ogni minima sensibilità nei confronti delle idee protestanti. Con la conclusione del Concilio di Trento (1563), la Sicilia perse il suo rito gallicano di Sicilia, introdotto in epoca normanna, e progressivamente sostituito al precedente rito bizantino (che ancora sopravviveva nella diocesi basiliana dell’Archimandrita di Messina, oltre che nelle comunità siculo-albanesi). Al suo posto venne introdotto rigorosamente il rito romano.
Momento epico sotto questo re quello in cui la flotta ottomana fu definitivamente sconfitta e fermata a Lepanto (1571), cui la flotta siciliana partecipò vittoriosa e da protagonista con le proprie bandiere di Stato, ancora formalmente indipendente.
Una parentesi curiosa, durante la monarchia di Filippo, fu invece la lunga “presidenza” del principe di Castelvetrano: per ben 6 anni la Sicilia, senza viceré spagnolo, fu lasciata alle cure di questo siciliano, quindi in pieno autogoverno. A lui, che passò alla storia come il “magnus siculus”, si deve la prima raccolta a stampa di tutta la normativa in vigore nel Regno: le Siculae Sanctiones del 1574. Con lui, per la prima volta, è un “Presidente del Regno” nazionale che convoca e presiede i Parlamenti. Mai più la Sicilia viceregia avrebbe goduto di tanta autonomia, alle soglie della piena indipendenza, come nel settennio tra il 1571 e il 1577 sotto l’Aragona-Tagliavia. Questi riorganizzò la difesa del Regno, distribuendo la fanteria in tre Armate (quante i Valli), ciascuna sotto un “Vicario generale” (sottinteso vicario dello stesso Presidente, nella sua qualità di Capitano Generale del Regno), più un corpo di Cavalieri a cavallo, mobile, di 400 uomini, affidato al figlio dello stesso Presidente. Nonostante le cure di questo Presidente, in un ordinamento quasi-repubblicano, cadde La Goletta in Tunisia. Per evitare che gli Ottomani si impossessassero del porto di Marsala, lo fece interrare del tutto. Quest’opera difensiva, allora ritenuta vitale, avrebbe però compromesso per sempre le attività marittime dell’importante città siciliana. La sua abilità politica e militare lo fece attrarre alla Corte spagnola, per incarichi sempre più importanti, e quindi fece riprendere l’invio di regolari Viceré.
Dopo di lui infatti fu la volta del Colonna, già comandante della flotta pontificia a Lepanto, sotto il quale, a parte una recrudescenza della feroce disputa proprio contro il papato che tentò ancora una volta inutilmente di revocare l’Apostolica Legazìa, non ci furono eventi politici interni o esteri di gran rilievo. Si dedicò a opere interne, soprattutto di abbellimenti urbanistici nella capitale, ma fu richiamato in Spagna dopo svariate accuse mossegli dall’aristocrazia. Sotto il successore De Guzman, a parte la sfortunata partecipazione della flotta siciliana alla “Invencible Armada”, da cui uscì praticamente annientata, e impreviste carestie, durante le quali commise l’errore di non bloccare le esportazioni di grano, successe un fatto politico di gran momento: per la prima volta della storia, nel 1591, il “Braccio militare” votò contro il donativo ordinario. Fu una specie di “sfiducia” al viceré. La camera dei nobili chiedeva che le prammatiche viceregie non fossero mai più fatte contro le costituzioni e capitoli del regno come condizione per concedere il donativo ordinario. Il viceré, consultatosi con il sacro regio consiglio, deliberò che il voto di due bracci su tre valeva l’approvazione del Parlamento. E questa divenne da allora regola generale. In quell’occasione però non furono fatti doni al viceré, al suo cameriere maggiore, agli ufficiali regi. Il Guzman, sostanzialmente sfiduciato dal Parlamento, fu richiamato in Spagna e sostituito. Il successore, conte di Olivares, dietro ingente donazione della città di Messina, concesse a questa città la privativa dell’esportazione delle sete dal Regno, pur tra le proteste del Parlamento, e favorì il decollo dell’Università di Messina, già autorizzata sotto Carlo I ma non ancora funzionante. Di fatto questa, fortemente opposta dalla città di Catania che si sentiva sino ad allora detentrice del monopolio universitario, si sarebbe realizzata solo qualche anno dopo, durante un’altra “Presidenza” regnicola, questa volta del Ventimiglia, marchese di Geraci. L’episodio testimonia della grande vitalità economica, politica e culturale della seconda città dell’Isola, che mai smetteva di rivaleggiare con Palermo, e ciò nonostante le continue guerre con gli Ottomani e il lento declino delle rotte mediterranee al confronto con quelle oceaniche.
Filippo muore nel 1598, e la dinastia asburgica prosegue, senza eventi storici di particolare rilievo, per tutto il XVII secolo, con Fillippo II (III di Spagna), Filippo III (IV di Spagna), Carlo II. Anche la partecipazione alla Guerra dei Trent’anni (1618-48) non ebbe praticamente alcun effetto sulla Sicilia. Il XVII secolo è un secolo di lenta decadenza per la potenza spagnola, che perse il Portogallo con il suo impero, e poco mancò che non perdesse anche la Catalogna. Anche il Regno di Sicilia, restato aggiogato a questo grande impero, risente di questo declino. I dibattiti parlamentari, e i capitoli richiesti ai sovrani, scendono progressivamente di livello, il malcontento cresce, il funzionamento dello Stato di Sicilia mostra, soprattutto nelle decadi finali, segni di precoce invecchiamento e disfunzioni a tutti i livelli.
All’inizio della monarchia del nostro Filippo II, un viceré si diede alla pirateria, o meglio alla guerra da corsa: il de Cardines duca di Macqueda. Il Macqueda sembra sia stato un viceré efficiente ed energico che, caso più unico che raro, ebbe la percezione della necessità di incrementare il commercio per risollevare le sorti del Regno. Per questo, a proprie spese, armò una flotta di corsari che ripulì i mari siciliani da questa piaga, consentì il risollevarsi dell’economia siciliana, e – incidentalmente – consentì al viceré stesso di arricchirsi personalmente. A lui si deve il famoso taglio in quattro quartieri della città storica di Palermo, con quella via che ancora oggi porta il suo nome, allora “sicilianizzato” in “Macqueda”, e oggi ripristinato, forse antistoricamente, nell’originale spagnolo di “Maqueda”, dopo che il Toledo aveva rettificato il vecchio Cassaro fino alla “Porta di mare” e il Colonna l’aveva prolungato fino al mare, a quella Porta Felice da lui stesso edificata e dedicata alla moglie. Altro provvedimento del nostro è l’istituzione della “Deputazione degli stati”, una sorta di amministrazione controllata dei beni feudali dell’aristocrazia indebitata, che lasciava al nobile un minimo per vivere decorosamente (senza potersi ulteriormente indebitare) mentre, con l’oculata amministrazione dei patrimoni feudali, tentava di soddisfare al meglio le esigenze dei creditori. Una storia, non pienamente confermata nei dettagli, vuole che il Macqueda sia morto nel 1601 a causa dell’apertura di una cassa trovata su una nave ottomana catturata dalle sue guerre da corsa che si pensava dovesse contenere tesori e che invece conteneva il cadavere di un “turco” in avanzato stato di decomposizione. Il viceré, avvicinatosi troppo ai tessuti pregiati che avvolgevano il cadavere, ne avrebbe tratto un’infezione mortale.
Sotto il successore, Lorenzo Suarez de Figueroa, duca di Feria, che certo non aveva alcuna intenzione di armare una flotta privata contro i pirati, il commercio cominciò di nuovo fatalmente a soffrire dell’insicurezza dei mari. Non fu cattivo amministratore, cercò di portare equità nella distribuzione del carico tributario in proporzione all’effettiva ricchezza dei contribuenti, ma i suoi tentativi furono ostacolati dalla rapacità dei ceti privilegiati. Nel 1603, con una prammatica, portò ufficialmente l’inizio dell’anno civile all’1 gennaio togliendo ogni incertezza (c’era prima chi contava da Natale, chi dal 25 marzo, …) nella datazione degli atti notarili e pubblici. Naturalmente l’anno amministrativo e finanziario restava quello indizionale bizantino, con inizio all’1 settembre e termine al 31 agosto, come era sempre stato, dai tempi dell’imperatore Diocleziano nell’Antichità. Con lui si arrivò ad una lunga contesa con la Santa Inquisizione: un dipendente di questa, accusato di un reato comune, invocò l’immunità e si arrivò ad uno scontro armato con i “familiari” di questo tribunale imposto da Madrid ed estraneo al nostro ordinamento. La vicenda – a dire il vero – finì con un compromesso poco onorevole per lo Stato di Sicilia; ancora una volta il re “straniero” si manifestò come un vero problema per la nostra monarchia. Il Feria dovette poi abbandonare la Sicilia per rappresentare la Corona di Spagna nella dieta del Sacro Romano Impero, in Germania (dove la Spagna era rappresentata per essere titolare di alcuni feudi nell’attuale Belgio, Lussemburgo e Franca Contea), dove casualmente morì.
Il successore, il Marchese di Vigliena (incidentalmente famoso per aver completato l’incrocio delle due principali vie palermitane nei cd. Quattro Canti di Città), si trovò a dover razionare il grano a tutti gli abitanti per una grande crisi. Riportiamo la cosa per la modernità amministrativa della soluzione adottata: un “polizza” per famiglia, di fatto una tessera annonaria per ricevere 6 grani a testa di pane giornalieri. Segno della crisi di questi tempi è la cd. tosatura delle monete, con cui venivano limate o raschiate le monete d’argento. La risposta data dal governo, di ordinare il cambio della moneta tosata con quella buona alle due Tavole, anziché correggere il danno lo alimentò, e i due banchi pubblici dovettero interrompere l’esecuzione dell’ordine per evitare di andare in dissesto in breve tempo. La cattiva qualità delle monete nel frattempo rallentava il commercio, perché i venditori volevano essere pagati a peso, e i compratori volevano far valere il titolo nominale delle monete. Con grande sforzo nel raccogliere l’argento necessario, il Vigliena riuscì a introdurre una monetazione nuova, con un contorno “cordonato” delle monete, per evitare future tosature.
Tarlo del Regno era invece il municipalismo, e soprattutto la rivalità tra Palermo e Messina. Per far contenta la seconda città dell’Isola i viceré dovevano spostarsi per parte del loro mandato, e, nel farlo, caricare via terra una processione infinita di carri e muli per spostare gli archivi da Palermo a Messina e viceversa. I trasporti avvenivano via terra, per ragioni di sicurezza. Una volta, per sbrigarsi, si scelse il trasporto via mare. E disgraziatamente nell’occasione affondò l’ammiraglia di Sicilia, il galeone “Arca di Noè”, con danno enorme per l’amministrazione del Regno (1608).
Foto tratta da Fondazione Federico II
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