di Massimo Costa
Una vera monarchia costituzionale in pieno ‘500?
Carlo rispettò la Costituzione siciliana del Vespro e giurò fedeltà alle Costituzioni e Capitoli del Regno, come tutti i suoi predecessori. Durante il suo regno, con regolarità, ogni 3 anni, si teneva il General Parlamento, e veniva o accordata la proroga triennale al viceré o ne veniva nominato uno nuovo. Venivano donati gli ordinari 300.000 fiorini allo Stato (formalmente al re) e 5.000 fiorini al Viceré. Ricordiamo che un fiorino era un quinto di onza siciliana (l’unità di conto del Regno), e quindi il donativo che si stabilizzò su quella cifra, e che intorno agli anni ’30 divenne ordinario, era pari alla cifra, invero modesta, di 60.000 onze (più le 1.000 per il viceré). L’inflazione dovuta all’afflusso di argento dalle Americhe rendeva nel tempo sempre più irrisoria questa somma. Le finanze del Regno, sotto Carlo imperatore, furono sempre al limite delle forze della società siciliana, anche per il continuo e sovrumano sforzo difensivo che lo Stato doveva sostenere. In più di un’occasione, non bastando i donativi, i parlamenti operarono su rafforzamenti transitori delle gabelle di esportazione, o di loro vendita transitoria ad appaltatori in cambio di denaro fresco. La funzione del Parlamento non fu peraltro simbolica. Le richieste, ordinarie o straordinarie, erano davvero negoziate tra il Viceré e le tre Camere, e qualche volta, sia pure tra molte scuse ufficiali, queste ricusarono il contributo se insostenibile. Per contro il re accordava quasi tutte le “grazie” concesse, sotto forma di leggi capitolari; in realtà era una negoziazione positiva, giacché la difesa del Regno era un interesse comune reale tra Corona e Regno e, dopo i torbidi iniziali di cui si è detto, Carlo non ebbe nulla a temere dalla Sicilia.
Il regno di Carlo I fu segnato da tre lunghi viceregni: del Pignatelli, di cui abbiamo segnalato i torbidi politici; del Gonzaga, abile, attento, ma spesso assente dal Regno per motivi diplomatici, cui si deve l’avere riportato la sede viceregia nell’antico Palazzo Reale, lasciando lo Steri al Santo Uffizio; e del De Vega, attento a ripristinare l’autorità regia, e quindi inevitabilmente considerato “tirannico”, sebbene si sia mosso in realtà sempre nei binari della costituzionalità, giacché i donativi straordinari furono chiesti sempre previa approvazione del Parlamento. Dei tre l’ultimo fu forse il migliore: a lui si debbono cure sugli ospedali del Regno, il miglioramento delle strade e ponti interni, la fondazione della “Tavola di Palermo”, primo banco pubblico siciliano e terzo al mondo, dopo il Monte S. Giorgio di Genova e la “Taula de Canvi” di Barcellona, cure sull’amministrazione della giustizia, l’apertura dei Collegi dei Gesuiti nelle principali città, veri “licei” del tempo (ma quello “maggiore” di Palermo rilasciava lauree in teologia e filosofia, quindi assimilabile a un’istituzione universitaria), la fondazione dell’Università degli studi di Messina. Abusò però della tortura e della pena capitale, rendendosi odioso.
Nel 1551, vista l’insufficienza delle milizie baronali, con una prammatica, creò la “Milizia territoriale”, che si andava a sommare agli altri sistemi difensivi del Regno: la piccola milizia spagnola al seguito del Viceré, le truppe spagnole nelle principali città, le milizie baronali, il sistema di castelli e fortezze. Questa milizia era una sorta di “Guardia nazionale” ante litteram, fatta da borgesi di tutte le città e terre, demaniali e baronali (tranne otto grandi città portuali che provvedevano da sole alla propria difesa, spesso per mezzo delle corporazioni di arti e mestieri cui erano affidate le artiglierie nei bastioni). Chi aveva più di 300 onze di patrimonio poteva arruolarsi in compagnie di cavalieri e non di fanti. La milizia era divisa in una decina di “Sergenzie maggiori”, affidate in genere a comandanti spagnoli, e una cinquantina di compagnie, affidate a capitani siciliani, tra fanteria, cavalleria e corpi speciali. Questo corpo borghese di soldati-lavoratori era malvisto dai baroni, che spesso e inutilmente ne chiesero l’abolizione in Parlamento, perché si contrapponeva alle loro milizie, condotte da aristocratici con al seguito i loro villani, come era stato sin dal Medio Evo, diminuendone il peso politico. Ma vi è anche da dire che molti nobili, ormai disavvezzi al servizio militare, preferivano pagare il cd. “addoamento”, cioè l’equivalente in denaro delle truppe da loro dovute al re, istituzione che risaliva ai Normanni, ma che ora era sempre più in uso. Dal 1528 al 1636 il Regno avrebbe avuto anche un corpo scelto: la “Cavalleria leggera” di 200/300 componenti, per rapidi spostamenti da una parte all’altra dell’Isola, anch’essa osteggiata dal Parlamento, non ultimo per il suo costo, e infine abolita. Nel complesso, quindi, la Sicilia asburgica si era dotata di un sistema militare piuttosto forte, anche se esclusivamente di tipo difensivo (al sistema di truppe, torrette e fortezze, va infatti aggiunta la flotta delle “Galere del Regno”), ma che si rivelò ottimo deterrente per qualsiasi invasione, che fosse ottomana, o di potenze europee nemiche. La Sicilia, come Malta in piccolo, era diventata fortezza inespugnabile.
Come noto, nel 1556 Carlo abdicò, separando i domini austriaci (con l’Ungheria) e il Sacro Romano Impero, affidati al fratello Ferdinando, da cui sarebbero discesi gli Asburgo d’Austria, dalla Spagna, con tutte le sue dipendenze borgognone, italiane e coloniali, attribuite al figlio Filippo II. Filippo II di Spagna fu il campione della Controriforma cattolica durante le Guerre di religione del XVI secolo europeo. Dal 1581 fu anche re del Portogallo, ereditando così anche l’altro grande impero coloniale e diventando le “Spagne” (un tentativo, poi non durato a lungo, di creare un’unica formazione politica per l’intera Penisola) la principale potenza mondiale. Pure dovette subire la perdita dei Paesi Bassi settentrionali (l’Olanda), che presto sarebbero diventati una potenza navale e commerciale, in competizione soprattutto con l’impero coloniale portoghese, mal difeso dagli Spagnoli. Nel complesso le sue guerre non furono vittoriose: non contro l’Inghilterra elisabettiana, che affondò la sua “Invencible Armada”, non nelle guerre civili di Francia, dove sui suoi “Guisa” prevalsero i “Borbone”, pur dovendo questi accettare il cattolicesimo, non sul Mediterraneo, dove non riuscì a sconfiggere in maniera definitiva gli Ottomani. Lo Stato di Sicilia era inserito in questo periodo nel grande impero spagnolo e nella sua politica universale, di cui possiamo trascurare ancora una volta i singoli eventi perché rilevanti solo in modo indiretto per la Sicilia.
Ancora una volta, scorrendo gli atti parlamentari si trova che talvolta, in mancanza di fondi, si autorizzavano nuove imposte indirette in sostituzione dei donativi. In ogni caso la Sicilia del secondo Cinquecento fu letteralmente spremuta di donativi per partecipare a guerre che non sempre la riguardavano (come quelle nelle Fiandre) e in condizioni economiche rese sempre più critiche dalla chiusura del Mediterraneo ai grandi traffici commerciali. Filippo nella sostanza recise il legame che doveva essere “perpetuo” della Sicilia con l’Aragona, traslandolo però alla Castiglia, e inserì il Regno all’interno del “Supremo Consiglio d’Italia”, insieme a Napoli, Milano e i Presidi toscani (la Sardegna era invece restata nel Supremo Consiglio d’Aragona, con l’Aragona, la Catalogna, Valenza e Maiorca). Questo non significò certo che la Sicilia fosse diventata geopoliticamente “Italia”, ma che apparteneva a una delle grandi aree della monarchia plurinazionale (c’erano altri supremi consigli: portoghese, delle indie, aragonese, delle Fiandre, …), per l’appunto a quella “italica”.
Del primo vicerè di Filippo, il della Cerda, Duca di Medinaceli, si ricorda essenzialmente una spedizione disastrosa in Nordafrica nel 1560, contro Tripoli allora tenuta dal corsaro Dragutte, e il fatto che – forse per esigenze militari – risiedette più a Messina che a Palermo. Deviando dall’assalto su Tripoli girò su Gerba che occupò per qualche tempo, tentando di costruirvi un castello, sconsigliato tanto dal Gran Maestro dell’Ordine di Malta quanto dall’ammiraglio genovese Doria. In sua assenza il Presidente del Regno, timoroso di un assalto ottomano mentre gran parte di flotta e milizia si trovavano inutilmente a Gerba, ricorse ad una grande mobilitazione “medievale” delle milizie baronali, non essendo più sufficienti le difese stabili del Regno. L’avvicinarsi della flotta ottomana determinò il panico e la fuga dall’isola nordafricana, affidata ad un presidio di 5.000 uomini condannati allo sterminio, mentre a stento poche navi riuscirono a mettersi in salvo, prima a Malta e poi in Sicilia. Ci vollero due parlamenti, e nel mezzo un saccheggio ottomano ad Augusta, per ricostruire una flotta di 16 galere del Regno: non più una grande potenza navale mediterranea come ai tempi di re Ruggero, ma certo la più grande di cui la Sicilia avesse disposto da almeno due secoli. Le ristrettezze economiche costrinsero il Senato palermitano a tentare di ridurre il peso del pane, fermo il prezzo, ma questo determinò una rivolta della plebe, sebbene presto sedata. Sotto il suo viceregno, cessata almeno momentaneamente l’ondata delle invasioni, si alleggerì quindi il carico tributario e il Parlamento diede delega al Governo per riformare i tribunali, la cui struttura era ancora quella obsoleta normanno-sveva, con le poche riforme di dinastia Aragona. Ne fu incaricato un esperto spagnolo consigliere del re, ma le relative “prammatiche” (oggi diremmo i “decreti delegati”) sarebbero arrivate anni dopo. Forse non essendo buon militare fu sostituito dal De Toledo nel 1565.
Appena insediato il nuovo viceré, il nuovo assalto ottomano giunse con il grande assedio di Malta dello stesso 1565, forse il culmine della minaccia turca sulla Sicilia. Assedio che, dopo quattro mesi, vide vittoriose le armi cristiane pur in numero inferiore per il valore militare del Gran Maestro de la Vallette. Nell’assedio morì lo stesso corsaro ottomano Dragutte. Resta inspiegabile tutt’oggi perché il viceré de Toledo tardò moltissimo a inviare la flotta siciliana a difendere quello che in fondo era un suo feudo; di fatto arrivò quando ormai i Turchi erano disperati, i capi già fuggiti, accelerandone soltanto la rotta. Gli Ottomani da allora si sarebbero limitati alla guerra da corsa e ai saccheggi, ma non avrebbero più osato pensare a una conquista della Sicilia. Per fortificare meglio la costa dell’Isola fu costruita la nuova capitale “La Valletta”, in onore dell’eroico difensore, al posto della vecchia città nel cuore di Malta.
Filippo II (I in Sicilia) interessò infine la Sicilia, sempre attraverso le richieste del Parlamento, di una serie di riforme che ne modernizzarono lo Stato in modo significativo, aumentando in genere l’efficienza dell’amministrazione. Tre antiche cariche erano rimaste vuote di contenuto, decadute, e non furono rinnovate: il Grande Ammiraglio, visto che tutta la flotta dipendeva da tempo dal viceré nella qualità di Capitano Generale; il Gran Conestabile, spesso associata alla prima, per la medesima ragione sulle truppe di terra; il Gran Siniscalco, o ministro della real casa, inutile per non essere presente il re nel Regno da secoli. Filippo sapeva che la Sicilia non poteva essere trattata come un possedimento e concesse anche l’amministrazione delle imposte indirette alla potente aristocrazia siciliana, vera arbitra dell’Isola, attraverso il “Tribunale del Real Patrimonio” (1569), che aboliva la vecchia “Curia dei Maestri Razionali”, semplice organo di revisione, e che ora assommava in sé anche l’amministrazione finanziaria attiva, sottraendola del tutto al Viceré (che già non controllava le imposte dirette, attribuite invece alla Deputazione del Regno). Il Presidente del Tribunale del Real Patrimonio sostituì quindi definitivamente la vecchia carica di Gran Camerario, che fu soppressa, o nominalmente attribuita al Presidente del Tribunale del Real Patrimonio. Così come fu soppressa la carica di Gran Cancelliere, sopravvivendo la cancelleria come ufficio amministrativo, ma privo di rilevanza politica, e assunta nominalmente ora dal Presidente del “Tribunale del Concistoro e della Sacra Regia Coscienza”, massima autorità giuridico-amministrativa del Regno. E similmente fu riformata la Gran Corte Civile e Criminale, il cui Presidente sostituì il Gran Giustiziere, di cui però ereditò la funzione di capo provvisorio dello Stato (come “Presidente”) quando il viceré fosse venuto a mancare, e né lui né il re avessero esplicitamente nominato un Presidente del Regno (di solito un alto prelato, quasi sempre l’arcivescovo di Palermo). Queste grandi riforme avvennero tutte nel breve viceregno del De Aquino, e cancellarono ciò che restava delle antiche magistrature dell’epoca normanno-sveva all’infuori soltanto del “Protonotaro e logoteta”, che sarebbe rimasto fino alla fine del Regno. Da notare che ora queste massime autorità giudiziarie erano ricoperte da veri giurisperiti, e non più da aristocratici del tutto digiuni di diritto, come era stato per il passato.
Con lui, purtroppo, la Sicilia dovette subire nuove pressioni da parte del papato che non aveva mai digerito l’autonomia ecclesiastica della Sicilia. Pio V tentò di mandare in Sicilia un nunzio apostolico per regolare gli affari della Chiesa siciliana. Re Filippo, pur non potendo attaccare frontalmente il papato di cui era alleato, fece finta di togliere qualche abuso, ma non cedette sui privilegi della corona in materia e non fece pubblicare in Sicilia la bolla pontificia In coena domini. Ne seguì una situazione di grande confusione: il clero secolare (le diocesi) obbediva alla Corona da cui dipendeva, mentre quello regolare (gli ordini monastici) prendeva ordini dai propri superiori a Roma. La questione sarebbe andata avanti per anni, con la sostanziale elusione delle pretese papali. La successiva caduta del Governo “fantoccio” di Tunisi, filospagnolo, rese la fortezza della Goletta esposta all’avanzata ottomana; benché teoricamente spagnola, toccò alla Sicilia dover dare rinforzi a questo avamposto cristiano al di là dello Stretto di Sicilia.
Dobbiamo infine al De Aquino una certa stabilizzazione nell’amministrazione finanziaria, con l’istituzione dei tre Percettori, uno per ogni Vallo, incaricati di raccogliere i donativi negli ambiti territoriali di competenza e di trasmetterli al Regio erario.
Poco dopo la morte di questo viceré, invece, abbiamo la stabile organizzazione del Tribunale della Regia Monarchia e dell’Apostolica Legazia (1571) per sovrintendere alle responsabilità del re in quanto capo della Chiesa siciliana, ma anche per tentare di ribattere alle pretese papali. Questo istituto sarebbe vissuto ben trecento anni, fino alla soppressione del privilegio di Chiesa autocefala per la Sicilia con la legge italiana delle guarentigie (1871).
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Foto tratta da Parliamo Tedesco – Altervista