A causa di questa condizione di svantaggio rispetto a Napoli, con il Regio decreto del 10 agosto 1824, regnante Ferdinando I^, nell’isola venne istituita la Soprintendenza Generale delle Strade e dei Ponti per la costruzione e la manutenzione delle strade regie. Nel decreto veniva annunciato “che la costruzione delle strade rotabili in Sicilia sarebbe stata di sommo utile al commercio interno ed esterno e di maggior comodo e sicurezza ai viandanti, (…) e rimossi gli ostacoli che ne avevano ritardato lo adempimento”, e si considerava necessario “creare ed organizzare nei domini oltre il Faro, un corpo separato da qualunque altro dell’Ordine Amministrativo”, diretto dal luogotenente generale, che si occupasse esclusivamente della gestione di questo ente, garantendo il corretto “maneggio dei fondi” e il compimento dei lavori necessari, con delle leggi efficaci a “respingere tutto ciò che possa ritardare o indebolire l’energia delle operazioni”. Nel decreto si stabiliva, inoltre, che un soprintendente generale avrebbe presieduto alle opere assumendone la direzione, coadiuvato da un ispettore. Entrambe queste figure sarebbero state nominate dal Ministero per gli Affari Interni, su proposta del luogotenente generale. Gli altri impiegati dell’amministrazione erano eletti direttamente dal luogotenente su proposta dell’ispettore. Al fine di controllare e assicurare il buon andamento dei lavori, si dispose la creazione di deputazioni locali presso i vari comuni dell’isola.
Per la redazione dei progetti si prescriveva che gli incarichi fossero affidati a uno dei quattro architetti preposti (due di prima e due di seconda classe), sotto la guida di un ingegnere capo. Una volta approntati, i progetti sarebbero stati sottoposti al vaglio dell’ingegnere capo e poi nuovamente al sovrintendente, che ne avrebbe discusso con l’ispettore per eventuali correzioni o modifiche. Infine, dopo una nuova valutazione da parte dell’ingegnere in capo o del collegio degli architetti dell’amministrazione (o di altri di sua fiducia), sarebbero passati all’approvazione del luogotenente generale. Questo articolato e un po’ farraginoso sistema di controllo, che derivava dall’impostazione napoletana, era stato appositamente strutturato per rispondere – almeno in line teorica – all’opportunità che all’interno del Corpo vi fossero “continui scambi di conoscenze e aggiornamenti scientifici”. Con lo stesso intento era stato stabilito “che ogni progetto corredato di una memoria giustificativa delle scelte teoriche e tecniche” fosse inviato a tutti gli ispettori per le opportune osservazioni, al fine di evitare, come era successo in passato, che il governo borbonico profondesse enormi capitali per la realizzazione di pessime opere, affidate a singoli ingegneri spesso fra loro concorrenti. Nel decreto si prescriveva infine che le opera da realizzarsi nel Val di Palermo fossero appaltate dal soprintendente, mentre quelle da farsi nelle altre circoscrizioni solane dipendessero dai capoluoghi dei valli o dei distretti, e gli appalti seguissero le regole più convenienti per la concorrenza delle imprese locali. Nel caso in cui non si fossero trovati in quei luoghi appaltatori “abili ed utili”, si sarebbe proceduto ad affidare le opere a imprese di area palermitana…
Al fine di uniformare gli apparati istituzionali e offrire, in qualche modo, medesime opportunità formative ai professionisti isolani, con il decreto del 1839 si stabiliva che tutti i sudditi del Regno fossero indistintamente ammessi a studiare presso la Scuola di Applicazione di Napoli e che, verificandosi vacanze di cariche di ingegnere, potessero concorrere alla loro assegnazione. Alla scuola si accedeva infatti solo per concorso e la selezione era molto rigida, al fine di individuare, con criteri di merito, gli allievi migliori. In tal modo si voleva porre fine ai clientelismi del sistema precedente. I posti a disposizione erano undici, cinque dei quali riservati ad allievi provenienti dalla Sicilia. Per superare il concorso erano richieste specifiche di matematica, statica, lingue (almeno tre: italiano, latino e francese) e abilità nel disegno… Solo i primi sei migliori diplomati venivano direttamente assunti nel Corpo di Ponti e Strade, dapprima come “ingegneri allievi”, poi attraverso vari gradi (ingegnere di I^ e II^ classe), avviati verso una carriera sicura e prestigiosa. In questo modo spariva la figura dell’ingegnere militare, di estrazione per lo più aristocratica e per questo spesso incline a favorire interessi privati, a discapito della qualità e del pubblico beneficio delle opere. Al suo posto nasceva l’ingegnere di Stato, un tecnico – burocrate, generalmente altoborghese che, in quanto stipendiato, era meno vincolato ai sistemi di potere. Dopo il decreto del 1839 alcuni giovani siciliani iniziarono a studiare a Napoli e, come da regolamento, una volta licenziati, ritornarono nelle provincie di origine. Personaggi come Giuseppe Damiani Almeyda e Carlo Giachery, siciliani di adozione, appartennero al Corpo di Ponti e Strade…
La nuova formazione prevedeva infatti una solida base teorica, acquisita attraverso i libri e una nuova attenzione alla pratica, da esercitare anche mediante viaggi in Paesi europei dove si potevano studiare le realizzazioni d’avanguardia. La struttura didattica si basava sul modello della celebre Ecole des ponts et chaussees istituita a Parigi nel 1747 per preparare i tecnici del Corp des ponts et chausees formato nel 1716. Dal momento che a Napoli non esisteva un corso di studi politecnico, propedeutico a quello di applicazione (come invece accadeva a Parigi), ad accedere alla scuola erano essenzialmente gli architetti che avevano poca dimestichezza con le opere idrauliche i ponti e le strade. L’obiettivo che si prefiggeva era pertanto quello di formare una nuova classe di ingegneri civili, attraverso lo studio di materie come il calcolo analitico, la geometria, la stereotomia, la topografia, la chimica e la fisica e un apprendistato da effettuarsi affiancando un ingegnere più anziano nel lavoro sul campo. A questi tecnici, considerati i nuovi depositari del sapere scientifico che, ancor più degli architetti, dovevano possedere specifiche conoscenze tecnologiche e costruttive, era richiesto un alto grado di preparazione e aggiornamento sulle tecniche, i materiali, i macchinari di recente invenzione, divulgati attraverso trattati e annuali. Lo studio avveniva attraverso una serie di riferimenti consolidati e di nuove pubblicazioni. Accanto alle riedizioni dei trattati classici cinque – seicenteschi, da Vitruvio a Serlio, da Viglola a Palladio, i testi a disposizione dei giovani allievi ingegneri erano soprattutto i manuali di architettura redatti per gli alunni dell’Ecole Polytechnique da Jean – Nicolas – Louis Durnd (Prècis des lecons d’architecture, Paris 1802 – 05) e Jean Baptiste Rondelet (Traitè teorique et pratique de l’art de batir, Paris 1802 – 1807), quest’ultimo tradotto in lingua italiana nel 1839. Testi fondamentali erano anche quelli di Gaspard Monge sulla geometria descrittiva e di Bernard Forest de Belidor sulla scienza delle costruzioni, discipline queste che avevano consentito la formulazione di un linguaggio universale comprensibile a tutti gli ingegneri.
Dovendosi occupare insieme alla progettazione di alcune architetture civili, come le carceri, anche di fortificazioni, ponti e canali, ai futuri ingegneri venivano forniti anche testi di architettura idraulica. Cospicua era la produzione manualistica riguardo a i ponti, divenuti il manifesto del progresso tecnico, oggetto di sperimentazioni incalzanti, di soluzioni sempre più avanzate e di sfide, prime fra tutte la “grande luce” e la leggerezza. Un testo di riferimento fondamentale era il Traitè de la construction des ponts di Emiland Claude Marie Gauthey (Paris 1809), che da un lato classificava, con l’ausilio di tavole illustrative, le possibili varianti ad arcate in pietra e in legno, dall’altro promuoveva i po0nti in ferro rintracciandone le origini in opere italiane del XVI secolo. Così come il testo di Gauthey, numerosi altri trattati, scritti per presentare tecniche e materiali “moderni”, continuavano a mantenere ampie sezioni dedicate alle tecniche tradizionali. La dualità tra la codificazione dei saperi antichi da una parte e l’opzione per nuova tecnologie dall’altra, sarà una costante di tutto il XIX secolo. Il primo e unico manuale italiano di carattere generale erano invece le Istituzioni Architettura statica e idraulica (Bologna 1826) di Nicola Cavalieri di San Bertolo, ingegnere superiore del Corpo e professore nell’Archiginnasio Romano della Sapienza. Riccamente illustrato, il testo intendeva costituire un prontuario di facile consultazione per gli allievi ingegneri che si accingevano alla professione. Vi erano analizzati, fra l’altro, ponti in muratura, legno e ferro, questi ultimi considerati la “moda” del momento. Non mancavano di esercitare il loro fascino anche le pubblicazioni specializzate su precise tipologie di nuova sperimentazione, che necessitavano di descrizioni accurate e immagini esplicative. Grade successo ebbe la Memoria sui ponti sospesi a catene di ferro costruiti negli ultimi tempi in Inghilterra e in Russia del Cavaliere Wienbeking (Mantova 1834), tradotto in italiano dall’originale in lingua tedesca.
Strumenti per il costante aggiornamento degli ingegneri, oltre ai trattati e ai manuali, erano le riviste di settore, fra cui spiccavano le francesi “Revue Generale de l’Architecture et des travaux pubblics” e “Annales des Ponts e Chaussees” nonché “The Civil Enginer and Architect’s Journal”, pubblicato in Inghilterra. A questi esempi si ispiravano il “Politecnico, repertorio mensile di studi applicati alla prosperità e coltura sociale” e il “Giornale dell’ingegnere, Architetto e Agronomo” fondati in Italia rispettivamente nel 1839 e nel 1853. Periodici ricchi di notizie erano anche gli “Annali delle Opere Pubbliche e dell’Architettura”, pubblicati per circa un decennio a partire dagli anni Cinquanta dell’Ottocento, con una raccolta delle più importanti memorie ricavate dalle opere tecniche straniere e con articoli originali riguardanti l’arte delle costruzioni, curata da alcuni ingegneri del Corpo di Ponti e Strade. Questa breve sintesi ci mostra come attraverso un iter di studi complesso, basato sull’apprendimento dei testi teorici d’Oltralpe, i viaggi di ricognizione per conoscere quanto e come si costruisse all’estero, nonché le applicazioni sperimentali sul campo al seguito dei colleghi più anziani, anche la nuova classe professionale siciliana avesse potuto acquisire, dopo il Regio decreto del 1839, un bagaglio di conoscenze e competenze specifiche per affrontare la difficile impresa dell’infrastrutturazione della Sicilia…
In linea con le conquiste tecniche degli altri stati europei, quindi, anche i piccoli stati italiani e il Regno delle Due Sicilie potevano vantare con orgoglio opere di ingegneria moderna, merito di una classe professionale, quella del Corpo di Ponti e Strade, che era quasi obbligata ad aggiornarsi e a sperimentare soluzioni d’avanguardia… Nella lunga relazione del luogotenente al ministro per gli Affari di Sicilia si faceva riferimento anche alle perplessità avanzate dall’ispettore Madden, il quale, ritenendo che nel paese non si trovassero opifici abili alla confezione delle parti metalliche di questo sistema di travate e poiché il Governo scoraggiava le commissioni all’estero, dichiarava di accontentarsi delle travate di legname col metodo di Howe, di facile esecuzione (ponte sul Simeto). In realtà, l’ingegnere Zappulla aveva ricordato che la Fonderia Oretea – la quale aveva già realizzato il cavafondo a vapore – avrebbe potuto costruire il ponte per un prezzo vicino a quello richiesto all’estero. Inoltre anche a Napoli esistevano stabilimenti in grado di fabbricare opere simili, fra cui Kupy e Fioren.
Antonella Armetta, dottore di Ricerca in “Storia dell’Architettura e Conservazione dei Beni Architettonici”, Ponti in Sicilia (XVIII – XIX secolo) fra tradizione e innovazione, Edizioni Caracol, pag. 23 – 27, 64, 71.
Tratto da Regno delle Due Sicilie.eu
Foto tratta da Vesuvio Live