di Massimo Costa
La morte di Ferdinando II segnò l’inserimento della Sicilia, con i suoi ordinamenti interni praticamente immutati, in una formazione politica universale dai confini sterminati. Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia, infatti, avevano avuto come erede soltanto la figlia Giovanna, detta “La Pazza”, sposata con Filippo d’Asburgo (che, essendo arrivato a regnare per breve tempo sulla sola Castiglia, passerà alla storia come Filippo I di Spagna), detto “Il Bello”. Filippo apparteneva ad una dinastia tedesca, gli Asburgo, che poco a poco aveva acquistato una serie di domini feudali dinastici complessivamente conosciuti come Austria (in realtà l’arciducato d’Austria era solo il nucleo centrale di questi possedimenti) e la corona di Sacro Romano Imperatore, nel tempo molto indebolita e ridotta a una sorta di confederazione tra gli stati tedeschi, e quindi a una “presidenza elettiva” tra questi. Ma, nondimeno, ancora il potere centrale dell’Impero non era del tutto svanito, e Filippo il Bello per parte di padre ereditava la corona imperiale con l’Austria e i suoi possedimenti dinastici, tra cui Boemia e Ungheria, per parte di madre l’eredità “borgognona”, cioè un gruppo di altri ricchissimi stati dell’Ovest dell’Impero, comprendenti gli odierni Paesi Bassi, Belgio, Lussemburgo e la Franca Contea un po’ più a sud. Filippo il Bello però morì prima del suocero, e lasciò tutti i suoi possedimenti, oltre alla Castiglia, con le colonie americane, al figlio Carlo il quale, alla morte di nonno Ferdinando, ereditò pure le corone catalane, la Sicilia, la Sardegna e il Regno di Napoli, cui si sarebbero aggiunti il Ducato di Milano, acquisito nel 1535, e il piccolo stato toscano detto “dei Presìdi”, nato dallo smembramento, tra Spagnoli e i Medici di Firenze, dell’antica Repubblica di Siena, nel 1557.
Carlo V (come Sacro Romano Imperatore) si trovava quindi non solo ad ereditare la Corona ormai molto indebolita che era stata dei Cesari e poi di Carlo Magno, ma di fatto ad essere signore di un impero universale che arrivava al Cile e che includeva mezza Europa. In suo nome la spedizione di Magellano fece la prima circumnavigazione del mondo. Fu un imperatore itinerante, il quarto imperatore d’Occidente a regnare “anche” sul Regno di Sicilia (dopo i tre Hohenstaufen Enrico VI, Federico II e Corrado IV), molto attento a tenere conto delle specificità infinite dei suoi molteplici domini. La storia dell’Impero di Carlo, “su cui non tramontava mai il sole”, non è riprendibile in questa sede. Basti dire che, sotto il suo dominio, fu costruito il grande impero coloniale nelle Americhe, sulle rovine degli imperi Azteco e Inca, e che, in Europa, fu preso da continue guerre su tre fronti: il Mediterraneo e l’Ungheria, dove doveva arrestare l’avanzata ottomana; la Germania, dove dovette barcamenarsi con la Riforma protestante di Lutero e la rivolta dei principi che aderirono alla stessa; la Francia di Francesco I, che costituì sempre il suo principale nemico. In questo quadro la piccola Sicilia, a parte mai dome pulsioni indipendentiste nelle sue élite, finisce per inquadrarsi con lealtà alla nuova dinastia nel ruolo di “antemurale” della Cristianità contro il “turco”, in una vera lotta per la sopravvivenza, e infine nel ruolo di provincia del grande “impero cattolico”, contro le nuove “eresie” protestanti che pure non mancarono di penetrare in Sicilia.
Per quanto possa sembrare incredibile re Carlo I (come re di Sicilia) trovò il tempo di occuparsi anche del piccolo stato insulare. Gli inizi del suo regno furono segnati da una generalizzata rivolta, chiamata un po’ esageratamente “I Nuovi Vespri”, in cui il Viceré Moncada fu cacciato in malo modo da Palermo e dovette rifugiarsi a Messina, mentre la Sicilia si dotava di un governo provvisorio. L’occasione era dovuta al fatto che ancora l’ordinamento costituzionale della Sicilia non stabiliva chiaramente la prosecuzione in continuità del mandato viceregio alla morte del re, e al fatto che il Moncada simulò un vero e proprio falso ideologico con una falsa cedola di investitura. Ma nella sostanza c’era un conflitto reale tra la società siciliana nel suo complesso, non solo nelle componenti aristocratiche, e il malvisto Viceré. Tant’è che dopo essere fuggito dallo Steri (ancora Palazzo Viceregio), tutte le città della Sicilia seguirono il governo rivoluzionario di Palermo, che affidò a due nobili la “Presidenza del Regno”. Solo Messina, in odio a Palermo, lo accolse con tutti gli onori, ma la sua autorità non arrivava neanche a Milazzo o Taormina. Durante questa fuga avvenne una rivolta a Messina, che costrinse il Comune ad aprire il Senato municipale, prima del tutto ristretto alla classe nobiliare (in gran parte il ceto mercantile nobilitato di quella “repubblica marinara”), a due “cittadini”, cioè esponenti della borghesia benestante. La riforma fu permanente.
Temendo lo spirito ribelle dei Siciliani, il giovane Carlo venne loro incontro, convocò a Bruxelles tanto il Moncada quanto i “Presidenti” (i marchesi di Licodia e di Geraci), e li depose entrambi, annullando tutti gli atti compiuti da questi ultimi come illegittimi, ma senza punirli, e annullando tutte le esenzioni da gabelle e donativi che, nei torbidi, tanto loro quanto il viceré avevano concesso danneggiando l’erario regio. A Carlo riuscì abbastanza facilmente a ristabilire l’ordine con un nuovo governatore, non avendo al momento la piccola Sicilia alcuna reale alternativa di dotarsi di re proprio, e accontentandosi che almeno finisse l’arbitrio e l’estremo malgoverno del cessato viceré. Da notare che, per qualche tempo, non ristabilì la carica piena di “Viceré” proprietario ma si limitò a nominare Ettore Pignatelli, conte di Monteleone come Luogotenente (un po’ come i primi viceré alfonsini), quindi con minori poteri, ma poi tornò all’antico, dopo che questi sedò la rivolta dello Squarcialupo di cui diremo più sotto. Curiosamente sarebbe stato proprio il Moncada, dopo la cacciata, a rendere tributaria della Sicilia, almeno per qualche tempo, l’Isola di Gerba, con una spedizione fortunata del 1521.
Il regno di Carlo fu segnato all’inizio da una serie di rivolte e congiure dal cuore separatista, sebbene celate sotto il pretesto di restare fedeli alla corona ma pretendendo la rimozione dei viceré o di leggi inique. Il Cinquecento fu nel complesso un secolo di risveglio del nazionalismo siciliano, anche se piuttosto confuso nell’organizzazione politica. Dopo i “Nuovi Vespri” contro il Moncada fu la volta della congiura di Giovan Luca Squarcialupo (1517), più che altro una vendetta nei confronti del “partito” del cessato viceré, con venature libertarie e democratiche, nata dal sospetto che i due “ex” Presidenti, trattenuti dal re a Napoli, fossero stati incarcerati o addirittura uccisi. La rivolta fu di per sé assai contraddittoria. Oggetto della rivolta, non potendo toccare il re, e neanche il “Luogotenente”, che si limitò ad abbandonare lo Steri e ad essere accompagnato nel più dimesso (allora) vecchio Palazzo Reale, e poi a Messina, fu il massacro quasi integrale dei componenti del Sacro Regio Consiglio, inutile sacrificio di persone dotte ed esperte che tenevano le redini dello Stato, e foriero in ultimo di disordini che spaventarono la popolazione. La rivolta comunque dilagò in altri centri dell’Isola e questo diede allo Squarcialupo l’illusione di potere realizzare una non ben chiara riforma costituzionale. Fu attirato in un’imboscata e ucciso, ma questo non bastava di per sé a sedare il malcontento. Re Carlo fece tornare in Sicilia i due marchesi da Napoli in segno di pacificazione, e riattribuì al Pignatelli il vecchio titolo di “Vicerè proprietario”, con delega quindi totale da capo di stato per l’ordinaria e straordinaria amministrazione. Con l’occasione il Parlamento del 1518 stabilì che alla morte del re il viceré continuasse nelle sue funzioni, perché non si ripetessero i disordini occorsi alla morte di re Ferdinando.
Ciò non bastò a tranquillizzare la Sicilia che assistette di lì a poco ad una vera e propria congiura, apertamente antispagnola, da parte dei Fratelli Imperatore, che per liberare la Sicilia dalla corona di Spagna erano pronti a darla a Francesco I di Francia. La Francia non sembrava molto interessata, ma gli stessi comunque continuarono l’impresa (1523), che comunque fu scoperta, sventata e severamente punita. La Sicilia accettava il re straniero ma, quasi in modo schizofrenico, al contempo non aveva rinunciato ad averne uno proprio o comunque ad avere ordinamenti più liberi. Sarebbe toccato al viceré Pignatelli, nei suoi lunghi diciotto anni di governo, svincolarsi tra queste agitazioni, alle quali si sommarono i secondi “casi di Sciacca” (1529), ma questi – ancora una volta – semplici faide baronali tra i Perollo e i De Luna. I secondi casi però segnano una svolta. Fino ad allora, infatti, i Perollo si erano comportati da veri e propri signori della città demaniale di Sciacca, un po’ come sarebbe accaduto in pieno Trecento. A parte la punizione di entrambe le fazioni, l’intervento del governo valse a ristabilire la legge e l’ordinamento regio nella contrada del Regno più resistente al nuovo ordine dello stato moderno.
Durante il regno di Carlo la Sicilia divenne l’avamposto mediterraneo nella guerra contro gli Ottomani, la cui avanzata nel Nordafrica e nei Balcani sembrava inarrestabile. La costa della Sicilia, nel frattempo, sarebbe stata guarnita di torrette di avvistamento dei pirati barbareschi, soprattutto sotto il viceregnato del Vega (dopo il 1547, ma già il predecessore Gonzaga aveva rifatto molte fortificazioni urbane, almeno dal 1530) ed è notevole che i Parlamenti non lesinarono risorse per questa esigenza vitale del Regno, nonostante le ridotte disponibilità economiche del Paese. Nel 1530 Malta (e l’avamposto di Tripoli, difficile da mantenere per le esangui casse dello Stato siciliano) furono date in feudo all’Ordine Ospitaliero Gerosolimitano di S. Giovanni (quelli che poi sarebbero rimasti noti come i “Cavalieri di Malta”). Questi erano approdati nel 1523 a Messina, dopo essere stati scacciati da Rodi dagli Ottomani. La concessione di Malta ai Cavalieri formalmente non cambiava la natura di feudo a quella che per secoli era stata una delle tante contee (ora marchesato) del Regno di Sicilia. Di fatto, però, i Cavalieri, avendo personalità di diritto internazionale, si comportarono quasi come un paese indipendente, limitandosi a riconoscere le leggi e gli stretti obblighi feudali nei confronti del Regno di Sicilia. Furono esentati dal versare tributi al Regno, sdebitandosi – per così dire – con la difesa militare dei mari siciliani. Ma questo fece uscire Malta dal Parlamento di Sicilia e allentò oggettivamente i legami con la Sicilia stessa. Anche se ne mantennero l’unità monetaria, i Cavalieri coniavano tarì e grani (la stessa moneta in circolazione in Sicilia) in maniera autonoma, unico stato feudale in Sicilia ad avere questo privilegio. Con il senno di poi, questo avrebbe determinato la progressiva perdita di Malta per la Sicilia, ma allora tutto ciò non era affatto chiaro. Già nella seconda metà del Seicento ci sarebbero stati scontri diplomatici tra la Sicilia e Malta, quasi come se fossero due stati separati. Il Viceré, ad ogni modo, riceveva ogni anno un falcone dall’Ordine di Malta, in segno di vassallaggio, e inviava un “Uomo del Re”, a metà tra l’ambasciatore e il commissario regio nell’Isola. C’è anche da dire che l’affidamento di Tripoli ai Cavalieri di Malta non impedì che nel 1551 gli Ottomani non li cacciassero da questa città. Nel 1532 si dovette tenere un Parlamento straordinario per il timore che Solimano il Magnifico stesse per invadere la Sicilia, la cui flotta contava allora soltanto quattro galee. E altri ne seguirono, con alcuni donativi straordinari, per l’altrettanto straordinaria difesa del Regno.
Carlo espugnò la Tunisia (1535), da cui scacciò il corsaro ottomano Barbarossa, anche con l’aiuto della flotta siciliana, e la trasformò per un certo tempo (fino al 1575) in un protettorato tributario della Spagna, mentre Tripoli restò una fortezza avanzata affidata alla difesa del Regno di Sicilia (“subappaltata” – come visto – ai Cavalieri di Malta). Di ritorno dalla Tunisia Carlo tenne personalmente Parlamento in Sicilia, facendosi incoronare a Palermo, lusingando così l’antica aspirazione dei Siciliani di avere tra loro un re. C’è da notare che in quel Parlamento, per la prima volta nella storia, il discorso del re (tenuto per bocca del protonotaro) fu tenuto in “Lingua toscana”, resa necessaria per la semplificazione richiesta dalla cancelleria imperiale. Da allora la Sicilia “amministrativa” volse rapidamente verso l’italiano, e la letteratura stessa si fece trilingue, con un lento regresso del siciliano e del latino da un lato, e un lento progresso della lingua italiana, che sarebbe durato tre secoli. L’italiano scritto in Sicilia, tuttavia, fino alla fine del XVI secolo sarebbe stato assai incerto ed approssimativo.
Alcune innovazioni amministrative
Sotto il re-imperatore Carlo la Camera reginale cessò di appartenere per davvero alle regine, e tornò all’erario, che però ne mantenne un’amministrazione separata, che – come tutte le altre istituzioni del Regno – sarebbe durata fino al 1819, quando fu sciolta dalla nuova legislazione delle Due Sicilie. Altra innovazione, dovuta al viceré Gonzaga in uno dei suoi brevi ritorni dalle tante assenze dal Regno, fu la costituzione delle Compagnie d’Arme a cavallo per mantenere l’ordine nelle campagne, che sotto la debole presidenza del Cardona avevano preso a infestare la Sicilia. Questa polizia rurale sarebbe stata destinata a sopravvivere secoli, ben oltre l’Unità d’Italia.
Foto tratta da L’Identità di Clio
Fine 25esima puntata/ Continua
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