di Massimo Costa
L’effetto congiunto della perdita dell’indipendenza e della riforma di re Giovanni sarebbe stato quindi nel complesso deleterio per la Nazione siciliana, lentamente regredita in un provincialismo autoreferenziale. In questo contesto si rilevano sempre più frequenti episodi di intolleranza verso l’unica minoranza ancora presente in Sicilia: gli ebrei. Nel 1474 si scatena il primo barbaro pogrom contro di loro, anche se già un dispaccio viceregio del 1460 aveva vietato loro di vendere carne ai cristiani. I viceré aragonesi si portavano dietro una strettezza di vedute religiosa che ai Siciliani era sconosciuta. Durante il regno di Giovanni, tuttavia, la loro sopravvivenza non sembra minacciata e nel complesso i Siciliani, a parte alcuni specifici episodi, restano molto legati a questa componente etnica che viveva in pace in Sicilia praticamente da sempre. Per gran parte del Regno di Giovanni fu viceré sempre lo Ximenes de Urrea che già lo era stato con Alfonso. Questi godeva davvero di un’ampia delega anche di poteri di rappresentanza estera da parte di re Giovanni e, negli ultimi anni di vita di questo, quando già cieco si era affiancato al figlio Ferdinando, anche da quest’ultimo (dal 1474 re, ma già associato di fatto dal 1468). La Sicilia aveva quindi allora una sua piccola politica estera, sia nei rapporti con gli Stati italiani, sia nelle guerre contro l’Impero Ottomano, che avanzava minacciosamente, sia nella lotta contro i pirati magrebini, che infestavano le coste della Sicilia già sin dall’inizio del secolo, alternate a tregue e trattati con il sovrano di Tunisi, stipulati proprio dalla Sicilia e non dall’Aragona. In tutto questo il viceré si muoveva perciò come capo di un vero Stato sovrano, sia pure all’interno di un quadro di direttive ricevute dal re d’Aragona. Ricordiamo dello Ximenes di Urrea, ancora, la centralizzazione a Palermo negli uffici del Protonotaro di tutti i documenti regi sparsi per la Sicilia, e persino a Napoli, di epoca sveva o aragonese.
Con tutto ciò il lungo viceregno dell’Urrea lo aveva reso troppo legato agli interessi delle classi dirigenti isolane e troppo morbido nell’esigere i diritti tributari che spettavano alla Corona. Benché vecchio e cieco, re Giovanni manda una coppia di viceré per riparare il danno, ma questi, il Pujades e il Peralta, sono così privi di tatto nel raccogliere i tributi che il re è costretto a destituirli con un pretesto per paura di una rivolta che avrebbe potuto perdere la Sicilia: Giovanni non dimenticava mai la lezione giovanile in cui i Siciliani avevano mostrato di aspirare ad un re proprio, e intravedeva sempre questo pericolo, o anche temeva che acclamassero per re Ferdinando, il re di Napoli, figlio di Alfonso il Magnanimo. Mise un po’ d’ordine il nuovo viceré, Giovanni Cardona, ma fino a un certo punto. Le forze armate siciliane erano sguarnite e l’erario esausto, mentre gli Ottomani avanzavano nella Penisola Balcanica. Tentò un Parlamento straordinario, nel 1478, per imporre un donativo straordinario del 10% su tutte le rendite, una vera rapina per i modesti redditi di sussistenza dei tempi. L’opposizione dei Siciliani fece naufragare miseramente il tentativo. Ci furono disordini; tentò di sciogliere il Parlamento a Catania e di continuare le sessioni a Palermo per ottenere il proprio scopo, ma gli fu consigliato di non provare più neanche a convocarlo. L’episodio è a suo modo significativo del fatto che le istituzioni parlamentari, sotto la dinastia dei Trastàmara, erano davvero robuste e tenevano testa al potere regio, soprattutto per le componenti urbane delle tre maggiori città del Regno. Il feudalesimo, ormai incardinato nell’ordinamento costituzionale, ora non è più un pericolo per l’unità del Regno, ma resta potentissimo e sempre potenzialmente anarchico. Rispetto alla sua introduzione, in epoca normanna, ormai era praticamente tutto ridotto ad un livello solo: feudi popolati (stati feudali) e non popolati o scarsamente popolati (terre feudali) erano infatti tutte concessioni dirette regie. Gli stati feudali erano peraltro ormai delle dimensioni di un solo comune, anche se molte famiglie disponevano, senza continuità territoriale, di città e terre sparse qua e là per l’Isola. Solo la potente Contea di Modica mantenne una dimensione provinciale e continuò a godere al suo interno di un’ampia e sostanziale autonomia. Già roccaforte dei Chiaramonte, era poi passata a Bernardo Cabrera con la restaurazione dei Martini insieme ad altri feudi minori. Ora, sotto il regno di Giovanni, la nipote ed erede del Cabrera sposava un castigliano, portando al di là del mare la titolarità del potentissimo (e anomalo) “Stato nello Stato”. Curioso destino quello del distretto di Modica: stava per essere il principale nucleo di una signoria nazionale siciliana che ambiva alla corona, i Chiaramonte, e finì per essere il presidio dell’egemonia iberica sulla Sicilia.
Alla morte di Giovanni, nel 1479, succede Ferdinando II, detto il Cattolico. Ferdinando II, già da tempo associato al trono, regnò da solo (anche) in Sicilia dal 1479 al 1516. In questa fase stiamo parlando ormai della trasformazione della vecchia monarchia aragonese in una nuova potenza universale. Ferdinando sposò Isabella di Castiglia, ed insieme cacciarono gli arabi dall’ultimo lembo di terra posseduto in Andalusia, il Regno di Granada (1481-1492). Aragona e Castiglia si sarebbero lentamente integrate in una nuova grande potenza mondiale: la Spagna. Ma la vera svolta sarebbe stata la scoperta dell’America (1492) e l’apertura delle rotte oceaniche, oltre alla conquista del Nuovo Mondo, sancita dalla spartizione con il Portogallo nel Trattato di Tordesillas (1494). Certamente, alla morte di Ferdinando, tutto questo processo era soltanto alle sue fasi iniziali. Ma tanto bastava perché la piccola Sicilia, trattata sempre con il riguardo di una Nazione parlamentare che spontaneamente si era aggregata alla Spagna, era “socia” sì di questo grande impero, ma socia di minima minoranza: una piccola terra in uno smisurato impero. Ben vero che gli scudi del Regno di Sicilia figurassero nelle mitiche tre caravelle di Cristoforo Colombo, ma il dividendo della Sicilia da queste scoperte fu praticamente nullo. Normale che re Ferdinando considerasse la Sicilia soltanto una retroguardia i cui baroni dovevano essere sempre ben trattati, per non aver noie, ma poi se ne disinteressò quasi del tutto.
Ferdinando continuò la politica di pressione contro le coste barbaresche, cui si aggregò la Sicilia. Approfittò infine della crisi finale del Regno di Napoli, prima per progettare una spartizione con i Francesi nel Trattato di Granada (1500), e poi per impossessarsene del tutto, trasformandolo in un viceregno, come già erano Sicilia e Sardegna (1504). È interessante notare come, per la prima volta, nel Trattato di Granada, i Francesi, nell’accettare un Regno di Napoli ridotto (il Ducato di Puglia e Calabria sarebbe dovuto tornare appendice della Sicilia), lo definirono proprio “di Napoli” in modo ufficiale, e non più “Regno di Sicilia citra pharum” (anche perché ormai questo regno sarebbe finito ben prima del “Faro”). Così Luigi XII si fece coronare “Re di Napoli”, dando compimento a un processo che già era iniziato con Carlo d’Angiò. Quando poco dopo gli Aragonesi si impossessarono di Napoli non cambiarono nome, restando da allora in poi soltanto “Re di Napoli”, ed usando i sovrani spagnoli il vecchio titolo alfonsino di rex utriusque Siciliae solo per qualche solenne iscrizione od occasione. Notevole, in questo periodo, la nascita a Palermo (1500) del primo Monte di Pietà, con finalità specificamente sociali e umanitarie. Con Ferdinando la stabilizzazione monetaria, nonostante l’inflazione incombente per effetto della scoperta dell’America, viene a compimento dopo tanto tempo di relativo disordine. Si cominciano ad esempio a coniare di nuovo, dopo secoli di pura moneta di computo, i tarì, mentre i vecchi “pierreali” si erano svalutati fino al valore di solo mezzo tarì. Lo stesso tarì svalutato ormai è argenteo (e non più aureo come ai tempi di Ruggero II). Il viceré Moncada avrebbe fatto una grande opera di pulizia, ritirando e fondendo le troppe monete false in circolazione che rendevano precari gli scambi commerciali.
L’unico intervento personale del re sulla Sicilia riguardò la politica religiosa. I Siciliani, nel loro Stato, avrebbero potuto fare ciò che volevano, ma dovettero introdurre l’Inquisizione Spagnola, con i suoi truci “autos da fé”, ed espellere gli Ebrei (1493), allora più di 100.000 in Sicilia, con l’esproprio di tutti i loro beni e crediti, salvi pochissimi effetti personali. Su questo, nonostante l’opposizione coraggiosa del Senato del Comune di Palermo, e la generale integrazione che caratterizzava gli ebreo-siculi, la volontà del re fu inamovibile. L’espulsione degli Ebrei diede un colpo formidabile all’economia siciliana. Siciliani da sempre, gli Ebrei tenevano gran parte del commercio indigeno, dopo di loro sequestrato dalle “nazioni italiane” del Centro-Nord Italia. Vi è pure da dire che un numero imprecisato, ma certamente molto numeroso, di ebrei, riuscì a restare facendosi o fingendosi cristiano, e mescolandosi con la popolazione locale, anche se per una generazione almeno dovettero tenere un abito verde con su cucita una croce rossa in segno di riconoscimento. Fino all’epoca dei tumulti del Viceré Moncada, nella seconda decade del 1500, sono attestati pogrom persino contro di loro da parte della popolazione comune, e particolari “attenzioni” da parte della Santa Inquisizione perché sospettati – molto probabilmente a ragione – di essersi convertiti soltanto in apparenza. L’abolizione dei segni esteriori di riconoscimento, con la motivazione di considerare “blasfema” la Croce cucita sopra a questi sostanziali miscredenti, contribuì alla loro definitiva mescolanza con la restante parte del popolo siciliano; resta il fatto che dal 1517 circa le cronache non parlano più di loro. L’Inquisizione Spagnola era stata già introdotta nel 1487; nel 1506 i palermitani attoniti dovettero assistere al primo rogo pubblico; la sua amministrazione con un tribunale stabile si sarebbe compiuta solo nel 1513. Questo tribunale aveva un’amministrazione “mostruosa” da un punto di vista giuridico, fuori dall’ordinamento giuridico del Regno, soggetta a sue leggi e in condizioni di immunità sovranazionale, ma soprattutto introduceva un clima retrivo di terrore e di conformismo in tutto il Paese. Agli inizi sede del tribunale fu il Palazzo Reale, poi avrebbero fatto “cambio” con i viceré, stabilendosi allo Steri, mentre quelli sarebbero ritornati all’antica regia di Ruggero II.
Per un popolo che va uno che viene. La Sicilia del secondo Quattrocento accoglie migliaia di Albanesi e Greci dell’Epiro in fuga dall’avanzata ottomana. Dal 1448 al 1534 questi si installano in diversi centri dell’interno, e fondano comunità, alle quali è consentito di mantenere il rito ortodosso (ma non la confessione) sotto la supervisione della ancora florida Chiesa greca basiliana del Valdemone, guidata dall’Archimandrita di Messina, peraltro con seggio di diritto in Parlamento alla pari degli altri vescovi (tutti latini) dell’Isola. In alcuni centri, dove la concentrazione di albanesi era massima, la comunità ha conservato la lingua sino ai giorni nostri.
A Giovanni Cardona seguì un viceregnato relativamente lungo di Gaspare de Spes, al quale si deve l’interruzione della pirateria della Repubblica di Genova, con uno specifico trattato, e una spedizione navale, guidata dall’Ammiraglio Abbatellis che mise a freno la pirateria islamica e a ferro e fuoco alcune città del Nordafrica. Lo Spes, però, si comportò dispoticamente, favorendo i suoi sodali ed arricchendosi personalmente. Famosa la sua spoliazione del Gran Giustiziere conte di Adernò, che era la carica istituzionale di maggior peso dopo la sua, e la prima “indigena”. Era l’unico viceré che addirittura era stato nominato a vita, ma le proteste dei Siciliani valsero a farlo deporre, mentre era in Catalogna, ed arrestarlo. Dopo di lui, dal De Acuña in poi, il mandato fu rigorosamente triennale, con possibilità di rinnovo alla scadenza. Sarebbe toccato a questi gestire la complessa espulsione degli Ebrei di cui si è detto e al suo successore, il La Nuza, le complesse fasi dell’appoggio siciliano alla riconquista aragonese del Regno di Napoli, sottratto alle mire francesi, nonché una effimera (1497) occupazione di Gerba.
Un tentativo del procuratore fiscale di verificare la legittimità dei titoli con cui i baroni detenevano i loro feudi, sotto il viceregno di Raimondo Cardona (1508), soltanto omonimo del viceré dei tempi di re Giovanni, ebbe come unico esito una rivolta baronale e, alla fine, la rimozione e sostituzione dello stesso viceré. Non essendo un re siciliano, alla fine, Ferdinando finiva per sconfessare, almeno in parte, i suoi stessi ufficiali che volenterosamente avrebbero inteso ristabilire i diritti dello Stato, della legge, rispetto ad abusi che risalivano alle terribili guerre civili di fine Trecento. Del resto sulla questione lo stesso Alfonso il Magnanimo aveva dapprima tentato di porre ordine e poi concesso, con una sorta di “colpo di spugna”, che i diritti acquisiti e non ripresi dall’erario durante la restaurazione dei Martini, restassero ai baroni. Ancora una volta la mancanza di una dinastia propria si rivelava un ostacolo ad un normale sviluppo della Nazione, che pure, tra alti e bassi, si avviava lentamente ad entrare nell’era moderna.
Al posto del Cardona fu inviato Ugo Moncada (1509), il quale, primo tra i viceré, assunse anche il titolo di “Capitano generale del Regno”, mentre le cariche di Gran Conestabile e Grand’Ammiraglio cadevano in disuso. La concentrazione del potere militare, oltre che di quello civile, direttamente nelle mani del viceré si rendeva indispensabile giacché la Sicilia ormai era diventata un avamposto nella lotta contro gli Ottomani. Già la Sicilia aveva aiutato, inutilmente in verità, la Repubblica di Venezia nella difesa di “Negroponte” (l’odierna isola di Eubea in Grecia), e poi Napoli durante la breve occupazione turca di Otranto (1480/81). Ora aiutava l’Aragona nel tentativo di “reconquista” del Nordafrica. Nel 1510 è espugnata Tripoli, che Ferdinando assegna proprio al Regno di Sicilia. Lo stesso Moncada si trasferisce per qualche tempo a Tripoli per fortificarla. I suoi metodi dispotici, tuttavia, non risultarono graditi all’interno di un Regno ormai abituato alla forza delle leggi nazionali e del Parlamento.
Fin della 25esima puntata/ Continua
Cronologia politica sotto la dinastia aragonese dei “Trastamara”:
1412-1416 Ferdinando I (vicaria la regina Bianca di Navarra fino al 1415, Giovanni Trastàmara, il futuro re, dal 1415)
1416-1458 Alfonso (vicario Giovanni Trastàmara fino al 1416)
Viceré:
1416-1419 Domenico Ram e Antonio Cardona
1419-1421 Antonio Cardona, Ferdinando Velasti e Martino de Turribus
1421 Governo diretto di re Alfonso in Sicilia
1421-1422 Giovanni de Podio Nuchi, Arnaldo Ruggiero de Pallas e Niccolò Castagna
1422-1423 Giovanni de Podio Nuchi, Arnaldo Ruggiero de Pallas e Ferdinando Velasti
1423-1424 Niccolò Speciale
1424-1425 Pietro Trastàmara, “vicario” (fratello di Alfonso, non viceré)
1425-1429 Niccolò Speciale
1429-1430 Niccolò Speciale e Guglielmo Moncada
1430-1432 Giovanni Ventimiglia, Niccolò Speciale e Guglielmo Moncada
1432-1435 Pietro Felice e Adamo de Asmundo, “Presidenti del regno” (presente re Alfonso in Sicilia)
1435 Pietro Trastàmara, vicario
1435 Ruggiero Paruta
1435 Antonio de Cardona, Adam de Asmundo, Leonardo di Bartolomeo e Battista Platamone, presidenti del Regno
1435 Pietro Trastàmara, vicario
1435-1438 Ruggiero Paruta e Battista Platamone
1438-1439 Ruggiero Paruta
1439-1440 Bernardo Requesens
1440-1441 Gilberto Centelles e Battista Platamone
1441-1443 Raimondo Perellos
1443-1445 Ximen de Urrea
1445-1458 Lopez o Lupo Ximenes de Urrea, sostituito talvolta dai seguenti “presidenti”:
1446-1447 Antonio Rosso e Spadafora, presidente del Regno
1449 Collegio di 12 magistrati, congiuntamente presidenti
1450 Simone Bologna, presidente
1452 Antonio Rosso e Spadafora, presidente
1453-1455 Simone Bologna, presidente
1456-1457 Antonio Rosso e Spadafora, presidente
1458-1479 Giovanni
Viceré:
1458-1459 Lupo Ximenes de Urrea (in continuità)
1459-1462 Giovanni de Moncayo
1462-1463 Guglielmo Raimondo Moncada, presidente
1463-1465 Bernardo Requesens
1465-1475 Lupo Ximenes de Urrea (di nuovo)
1475 Giovanni Tommaso Moncada, presidente
1475-1477 Guglielmo Pujades e Guglielmo Peralta
1477-1479 Giovanni Cardona
1479-1516 Ferdinando II (associato al trono dal 1474)
Viceré:
1479 Giovanni Tommaso Moncada, presidente
1479-1484 Gaspare de Spes
1484-1485 Raimondo Santapau e Giovanni Valguarnera, presidenti
1485-1487 Gaspare de Spes
1487 Raimondo Santapau e Giuliano Centelles, presidenti
1487-1489 Giuliano Centelles, presidente
1489-1494 Ferdinando de Acuña
1494-1495 Giovanni Tommaso Moncada, presidente
1495-1506 Giovanni La Nuza
1506-1507 Giovanni Paternò, presidente
1507-1509 Raimondo de Cardona
1509 Giovanni Paternò e Guglielmo Raimondo Moncada, presidenti
1509-1512 Ugo de Moncada
1512-1513 Bernardino Bologna, presidente, vicepresidente Pietro Sanchez de Calatayud
1513-1516 Ugo de Moncada
Foto tratta da Termometro Politico
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