di Massimo Costa
Lo stallo fu risolto nel 1412, in Spagna, quando i rappresentanti delle tre monarchie confederate (Catalogna, Aragona e Valenza, mentre Maiorca era considerato un regno secondario e la Sardegna nient’altro che un possedimento) decisero di dare la corona ad un ramo della famiglia castigliana dei Trastàmara. Divenne re d’Aragona così Ferdinando I, già reggente della Castiglia per conto del nipote, figlio di Eleonora, sorella maggiore di Martino il Vecchio, e a sua volta figlia di un’altra Eleonora, sua nonna materna quindi, la sorella maggiore di Federico IV e figlia di Pietro II, quindi zia della regina Maria; questi, senza colpo ferire, prese a considerarsi erede anche della Sicilia, per il solo fatto che già Martino II il Vecchio lo era stato immediatamente prima di lui, o forse perché figlio di una cugina prima di Maria e discendente di Pietro II. Ma questo avrebbe comportato per la nostra Isola un cambio epocale. La Sicilia non era mai stata una dipendenza politica dell’Aragona, ed aveva avuto in comune con questa il re solo in casi eccezionali, come all’inizio con Pietro d’Aragona, poi per breve tempo sotto Giacomo, e infine, quasi incidentalmente, con Martino II. Ferdinando invece pensava di fare della Sicilia nient’altro che una Sardegna più grande, un’espansione dell’Impero catalano nel Mediterraneo. A rafforzare questa incoronazione se ne fece confermare l’investitura dall’anti-Papa Benedetto XIII, giacché sin quasi agli ultimi tempi dello Scisma d’Occidente, l’Aragona fu fedele ad Avignone, e ne assecondò al momento le pretese, del resto mai riconosciute in Sicilia, di supposta dipendenza feudale dal Papa.
Naturalmente la Sicilia era più potente della Sardegna, con un baronato autorevole e geloso delle proprie prerogative. Ma, proprio per questo, il prezzo da pagare sarebbe stato quello di blandire questo baronato, e intanto assicurarsi la corona di Sicilia, e poi, poco a poco, assorbirla all’interno dei possedimenti iberici. Per facilitare la transizione, magnanimamente, Ferdinando confermò Bianca nel pieno esercizio del Vicariato sulla Sicilia: come a dire, “non cambia nulla”, almeno per il primo momento. Ma in tal modo gettava le basi per la futura stretta. Il Cabrera fu liberato, ma dovette per molti anni restare esiliato in Spagna; in tal modo la Sicilia fu ad ogni modo pacificata.
Bianca dovette assistere impotente a questo declassamento, nel quale manteneva il titolo di regina consorte solo di nome, e di fatto diventava una sorta di viceregina, una funzionaria dell’Aragona. La Sicilia avrebbe avuto allora le energie per resistere a quella che, né più né meno, era la perdita dell’indipendenza, quanto meno di quella esterna. Ma la maggior parte dei baroni, ancora una volta, preferì avere un re debole e lontano, che legittimasse il loro potere interno, piuttosto che uno ingombrante a loro più vicino. In maniera disgiunta, uno dopo l’altro, i più importanti baroni presero la nave e andarono a giurare fedeltà a Barcellona al nuovo signore. A Bianca non restò che accettare il fatto compiuto. Ferdinando però non era contento di essere re soltanto di nome della Sicilia. Per iniziare a “stringere d’assedio” l’ultima sovrana di Sicilia, nel 1414 manda in Sicilia una commissione di quattro “vicegerenti” a rappresentarlo, in pratica per commissariarla e quindi per svuotare il suo ruolo di ogni potere. Dopo aver girato il regno i Vicegerenti pongono sede a Palermo, mentre la vicaria risiedeva più spesso a Messina, da poco ripresa al controllo regio dopo la breve occupazione papalina. Alla fin fine Bianca, che peraltro doveva ereditare il Regno di Navarra, non era stata altro che una regina consorte, e non le restava che riprendere la via per la Spagna. Al suo posto, per placare i sentimenti quanto meno autonomisti dei Siciliani, che ancora non avrebbero accettato di farsi governare da un funzionario qualunque, inviò – sempre come vicario – il secondogenito, Giovanni di Peñafiel, colui che un giorno sarebbe diventato marito di Bianca. Un’ambasceria siciliana, infatti, già all’incoronazione di Ferdinando pose espressamente la domanda, irricevibile dal punto di vista aragonese, che fosse riconosciuto re di Sicilia Federico de Luna, figlio naturale di Martino I; in subordine che Giovanni di Peñafiel fosse riconosciuto come re, in modo che la Sicilia restasse indipendente. La promessa, poi mantenuta, di mandarlo come vicario, in qualche modo placò gli animi e non fece ritenere inutile l’ambasceria, ma in tal modo si ribadiva l’unione personale tra le due corone. Da questo momento in poi, quindi, non seguiremo più, se non per grandi linee e per ciò che riguarda la Sicilia, le vicende personali, familiari, dinastiche, politico-generali, delle corone cui la Sicilia fu legata. Questa storia, infatti, non appartiene più specificamente alla Sicilia e ci condurrebbe troppo lontano.
Ferdinando, intanto, se è vero che ancora non governava direttamente la lontana Sicilia, affidata in tutto e per tutto a suo figlio Giovanni, per un certo verso la attirava più strettamente nell’orbita aragonese. Giovanni era un vicario reale, quasi un re, come ce n’erano stati in passato, come ad esempio Federico III ai tempi di re Giacomo. I Siciliani avevano almeno l’illusione di una piena indipendenza. L’unica riforma legislativa duratura di Ferdinando I, a tutela dei cespiti del patrimonio regio, più volte nel passato oggetto di usurpazioni, fu la creazione di un ministero speciale, chiamato “Conservatoria del Real Patrimonio”. Di tutti gli uffici del Regno di Sicilia, questo sarebbe stato il più longevo, giacché arrivò sino al 1844, quando la sua importanza era però già decaduta da tempo. I Siciliani, e in particolare i Messinesi, hanno l’ardire di chiedere comunque a Giovanni, già insediato come vicario, di accettare la corona di Sicilia. Richiesta troppo prematura: Giovanni, molto forse, avrebbe potuto insorgere contro il fratello maggiore, come aveva fatto Federico III 120 anni prima circa, ma non certo contro il padre. L’unica cosa che ottennero fu quella di far spaventare gli Aragonesi, che presero sul serio da quel momento in poi l’indipendentismo siciliano e adottarono le dovute contromisure. E comunque i tempi erano cambiati: Giovanni non era Federico, nulla lo legava in particolare a una terra che conosceva da un anno a malapena, l’Aragona non stava certo svendendo la Sicilia agli Angioini come aveva tentato di fare re Giacomo più di 100 anni prima, mettersi contro una potenza ormai consolidata come l’Aragona non era poi così semplice, ma soprattutto lo spirito del Vespro, dopo più di un secolo di peste, guerre civili, anarchia baronale, restaurazione regia, due ondate di feudalizzazione catalana, e tanta delusione accumulata, si era in gran parte spento. Il partito indipendentista rappresentava ormai solo una frazione della classe dirigente. Giovanni non avrebbe avuto in ogni caso alcun vantaggio a macchiarsi di fellonia nei confronti del padre. Nel 1416 Ferdinando I muore, senza ancora avere realmente inglobato la Sicilia tra i possedimenti catalani, ma il processo era avviato, e doveva solo consolidarsi negli anni a venire.
Gli succede il figlio Alfonso, passato alla storia con il nome di “Il Magnanimo”, per il suo orientamento umanistico, il quale avrà per l’Italia un’attrazione tale da fare di lui più un re italiano che iberico. Tra i primi provvedimenti di Alfonso, che non aveva fiducia fino in fondo sul fratello Giovanni, fu quello di richiamarlo a Barcellona, promettendogli la mano di Bianca, già erede del Regno di Navarra.
Decise di inviare al suo posto due suoi rappresentanti (Ram e Cardona) a governare la Sicilia con il nuovo titolo di “Viceré”; era il 1416. Per la Sicilia iniziava la lunga era della semi-indipendenza in unione personale con altre monarchie. Per mano del fratello, poco prima che questo partisse, al fine di indorare la pillola di questa discesa di livello per la Sicilia, Alfonso giurò fedeltà alle Costituzioni, Capitoli, privilegi, libertà, immunità del Regno. Si fece giurare, sempre per mezzo di questo, fedeltà dai principali baroni a uno a uno senza convocare il Parlamento, cui spettava l’acclamazione del nuovo re, vista l’ancora incerta linea di successione per la Sicilia; segno questo che Alfonso temeva che un legittimo Parlamento avrebbe potuto acclamare un altro re. Cominciava la lunga serie di “quasi-incoronazioni”, per corrispondenza, nelle quali l’indipendentismo siciliano valeva almeno a salvare la sovranità interna del Regno. Altro risultato nazionale fu quello di riservare tutti, o quasi, gli uffici del Regno ai regnicoli siciliani. All’inizio, però, il Governo viceregio non era ben istituzionalizzato, sembrava ancora provvisorio. Spesso non era singolo, ma costituito da una coppia, oppure una terna, o addirittura una quaterna di inviati. Non aveva ancora poteri pieni. Doveva consultarsi con il monarca per le decisioni più importanti. I viceré non potevano nominare i più importanti ufficiali del Regno, né concedere beni feudali o “burgensatici” oltre soglie minime di rilevanza. Per qualche breve intervallo, al posto dei viceré, dei cui atti di governo in verità sappiamo poco, si trovò a governare la Sicilia l’infante Pietro, fratello di Alfonso, spesso durante le guerre per la conquista del Regno di Napoli. Ma in ogni caso Alfonso curò in prima persona gli affari del Regno. Alcuni dei viceré di epoca alfonsina erano siciliani, non catalani, tratti da un ceto di piccola nobiltà di toga, borghesi e legulei nobilitati, nucleo di curiali che allora reggeva lo Stato di Sicilia. Insomma, in un certo senso Alfonso potrebbe essere definito l’ultimo vero re di Sicilia, in quanto ultimo a occuparsi direttamente delle questioni del Regno prima del viceregno “vero e proprio”, iniziato in realtà soltanto dopo di lui.
I fatti politici della corona alfonsina riguardano ora la storia di Sicilia solo incidentalmente, per il fatto che la Sicilia partecipò tanto alle guerre quanto all’attività diplomatica del grande sovrano, ma non certo in posizione dominante. Ricordiamo appena che la regina Giovanna II di Napoli, una degli ultimi sovrani angioini, chiede aiuto ad Alfonso per mantenere il trono di Napoli, promettendogli l’adozione (e quindi la successione) e intanto, subito, il Ducato di Calabria che veniva annesso alla Sicilia. Alfonso interviene a favore della regina, ma dopo pochi anni (1423) questa ricusa l’accordo. Ne nasce una lunga guerra in cui l’Aragona-Sicilia lotta per la conquista del regno meridionale italiano. Guerra con fasi alterne, durante la quale Alfonso è preso prigioniero, tradotto nel Ducato di Milano, che però poi si trasforma nel migliore alleato di Alfonso, nell’ottica di spartirsi l’Italia. Nel 1442, infine, Alfonso entra a Napoli, che fa sede della sua corona mediterranea fino alla morte, lasciando il fratello Giovanni vicario nelle corone spagnole, e la Sicilia sempre amministrata dai governi parlamentari e viceregi. Dopo di che si ingerisce, in verità senza troppo successo, nella politica degli stati italiani, pervenendo infine a quella Pace di Lodi (1455) che segnerà per un quarantennio circa pace ed equilibrio nella Penisola. Il Regno di Napoli, in questo frangente, diventa uno dei cinque stati italiani garanti della concordia (insieme al Ducato di Milano, alle Repubbliche di Venezia e Firenze, e allo Stato della Chiesa).
Fine 23esima puntata/ Continua
Foto tratta da itCatania – Italiani.it
Visualizza commenti