- Ferdinando IV di Borbone tenta una riforma agraria con prammatica XXIV De Administratione Universitatum del 1792
- Il ruolo dei Comuni che devono censire le terre e assegnarle in enfiteusi a braccianti, contadini, coloni, massari di
campo, a compenso della perdita dell’esercizio degli usi civici - Per la prima volta i ceti poveri del mondo agricolo prendono coscienza dei propri diritti
- Ma i baroni si difendono e difendono i loro privilegi
- Francesco Mario Pagano, lucano di Brienza
- Il ritorno a Napoli
- Ironia della sorte e fine di un’epoca
di Michele Eugenio di Carlo
Ferdinando IV di Borbone tenta una riforma agraria con prammatica XXIV De Administratione Universitatum del 1792
Nell’ambito del florido dibattito illuministico di fine Settecento favorito da Ferdinando IV (nella foto tratta da Wikipedia) di
Borbone si faceva sempre più pressante la richiesta di riformare il sistema agro-pastorale migliorando
la distribuzione della proprietà attraverso l’incameramento dei beni feudali ed ecclesiastici e la loro
vendita frazionata in unità colturali economicamente valide, liberate dal gravame degli usi civici.
Ferdinando IV, educato alle «lezioni» di Bernardo Tanucci e non dimentico dei suggerimenti del
padre Carlo di Borbone, aveva ormai acquisito la fondata convinzione che l’agricoltura andava
rilanciata, riducendo drasticamente il latifondo e assegnando i terreni feudali incolti ad una
moltitudine di braccianti, contadini, piccoli coloni, «massari di campo», che da salariati precari
avrebbero dovuto convertirsi in piccoli e medi coltivatori diretti. Il 23 febbraio 1792 veniva emanata
la prammatica XXIV De Administratione Universitatum, data la «scarsa utilità proveniente dai terreni
demaniali di varia specie, de’ quali abonda il Regno […] per fare ovunque fiorire la meglio intesa
agricoltura, sorgente primordiale delle ricchezze, in quanto fosse compatibile collo stato delle
popolazioni […] In tale considerazione ha voluto S. M. prescrivere il modo di rendere attiva
l’industria dei suoi sudditi; indicando le regole generali da eseguire una tanto benefica operazione
[…]. Col presente editto, adunque, in forma d’istruzione si permette di censire i terreni demaniali di
qualunque specie, giusta il prescritto in esso, ed a tenore della norma data in seguito di questo, e
l’emolumento che ciascuna Università ne ritrarrà, sarà principalmente impiegato in disgravio della
classe più bisognosa con approvazione di S. M.».
Il ruolo dei Comuni che devono censire le terre e assegnarle in enfiteusi a braccianti, contadini, coloni, massari di
campo, a compenso della perdita dell’esercizio degli usi civici
La prammatica stabilisce all’art. 4 che nella «censuazione» (enfiteusi di terreni coltivati) dei
demani universali «si preferiranno i bracciali nei terreni più vicini alle popolazioni; dandone loro
nella misura, che possano coltivarli colla propria opera, ed in quelli più lontani a’ cittadini coltivatori
più facoltosi da esercitarne una più estesa coltura»; all’art. 5 ribadisce che «fatta la scelta de’ meno
provveduti di terreni, quei, che rimangono, saranno assoggettati alla sorte»; all’art. 6, relativamente
ai demani universali adibiti al pascolo, si legge che «saranno ripartiti tra i possessori degli armenti, e
per la piccola industria de’ cittadini non possidenti, qualora sia richiesto, si lascerà qualche porzione
per loro uso solamente, pagandone discreta fida», a beneficio della Comunità. Non manca, nell’art.
10 della prammatica, l’attenzione verso corrette pratiche ambientali tali da prevenire erosioni del
suolo, frane e smottamenti, riguardo a territori scoscesi attraversati da fiumi e da torrenti dove «si
dovrà pattuire di doversi soltanto piantare, e non coltivarli».
Riguardo ai demani feudali, l’art. 12 sancisce che al barone deve essere attribuita la quarta parte
del demanio «per uso de’ suoi animali e cultura, e l’altre tre parti si dovranno censuare colle regole
di sopra prescritte per le diverse qualità de’ terreni». Quindi, le tre parti restanti devono andare ai
Comuni che devono censirle ed assegnarle in enfiteusi a braccianti, contadini, coloni, massari di
campo, a compenso della perdita dell’esercizio degli usi civici.
Per la prima volta i ceti poveri del mondo agricolo prendono coscienza dei propri diritti
La prammatica non consegue i risultati tanto attesi dal popolo quanto temuti dai baroni, non ha
effetti pratici nella realtà socio-economica del Regno, né tantomeno nella realtà, ben più complessa e
intricata, che la Regia Dogana con la transumanza ha intessuto nella Capitanata. Ma determina negli
strati bassi del ceto rurale, per la prima volta presi in seria considerazione, la corretta convinzione che
rivendicare condizioni migliori di vita, ottenendo un pezzo di terra incolta da coltivare, sottratto al
dominio assoluto del barone, senza più vincoli e pesi feudali da sopportare, senza abusi e angherie
umilianti e degradanti di ogni sorta da subire, non solo è del tutto legittimo e naturale, ma è condizione
essenziale per uscire dai secoli bui del feudalesimo e per superare quell’economia chiusa e limitata
che da secoli li relega nel «limbo della Storia». I baroni non vedono di buon occhio la fine di un sistema che li ha visti
padroni assoluti non solo dei beni patrimoniali, ma anche degli esseri umani ridotti a semplici «giumenti», soggetti a una
giurisdizione civile e penale iniqua, asfittica e immorale.
Ma i baroni si difendono e difendono i loro privilegi
I baroni hanno bisogno di tempo per maturare e realizzare come trasformare a loro vantaggio la
perdita dei vecchi privilegi feudali con l’acquisizione di nuovi privilegi: quelli dell’alta borghesia
agraria, classe nella quale confluiranno, approfittando delle leggi eversive napoleoniche, per
continuare a gestire con incuria estesi latifondi in gran parte usurpati grazie alla complicità e al tacito
consenso della nuova classe borghese emergente al potere. Il nuovo gruppo sociale che si approprierà
illecitamente delle terre che avrebbero dovuto essere assegnate in quote a braccianti e contadini, per
favorire la piccola e media proprietà coltivatrice. Il fallimento del tentativo riformistico di rinnovare la società e lo Stato, di dare impulso
all’economia favorendo la «pubblica felicità», segna la rottura di gran parte della cultura illuminista
con il riformismo assolutistico dei Borbone. Nel 1793, all’indomani della prammatica e alla scadenza del contratto
sessennale dei pascoli regi, si prospettano due soluzioni al governo e all’amministrazione della Regia Dogana di Foggia:
rinnovare il contratto di affitto o concedere la censuazione. I locati, riuniti in assemblea generale, si
pronunciano a maggioranza a favore dell’affitto e il governo si adegua a tale volontà.
Francesco Mario Pagano, lucano di Brienza
Il 23 gennaio 1799 le truppe del generale Jean Étienne Championnet entrano a Napoli dando vita
alla Repubblica partenopea. Francesco Mario Pagano (foto tratta da Wikipedia) , lucano di Brienza, uno dei “cervelli migliori d’Europa”, noto per le idee liberali di sostegno alle fasce deboli, viene subito inserito tra i venticinque membri del Governo e, attivissimo nel Comitato di legislazione, fa celermente approvare leggi che aboliscono i fedecommessi, le primogeniture, la tortura, importanti diritti feudali, secondo il suo «progetto» di repubblica, sintetizzato in queste frasi ispirate a nobili principi:
«La libertà, la facoltà di opinare, di servirsi delle sue forze fisiche, di estrinsecare i suoi pensieri, la
resistenza all’oppressione sono modificazioni tutte del primitivo diritto dell’uomo di conservarsi quale
la natura l’ha fatto e di migliorarsi come la medesima lo sprona. La libertà è la facoltà dell’uomo di
valersi di tutte le sue forze morali e fisiche come gli piace, colla sola limitazione di non impedire agli
altri di far lo stesso4». I “Saggi Politici”, costituiscono l’opera principale di Pagano, pubblicati tra il 1783 e il 1785, quando il grande giurista aveva ancora piena fiducia nella monarchia illuminata, convinto che
Ferdinando IV avrebbe utilizzato i suoi studi sulla riforma del diritto penale per compiere passi avanti contro i privilegi di una società ancora feudale. Ma la rivoluzione francese e l’esecuzione capitale in Francia di Maria Antonietta, sorella della sovrana del Regno di Napoli, comporta una svolta repressiva e autoritaria della monarchia borbonica che conduce Pagano, nella seconda edizione dei Saggi del 1795, ad una decisa presa di posizione antimonarchica. Imprigionato nel 1796 per cospirazione e rilasciato per mancanza di prove, nel 1798 lascia Napoli per Roma.
Il ritorno a Napoli
Tornato a Napoli durante la rivoluzione, la difende con le armi in pugno. Con grande forza morale,
nella piena facoltà di esprimere con libertà idee e pensieri, Francesco Mario Pagano sale impavido e
distaccato sul patibolo il 29 ottobre del 1799, lo stesso giorno e nella stessa piazza del Mercato in cui
nel lontano 1268 era stato giustiziato Corradino, che nel 1789 gli aveva ispirato un’opera teatrale.
Ironia della sorte e fine di un’epoca
Non poteva prevedere Pagano che un popolo intero si sarebbe schierato a difesa del proprio
sovrano e che la successiva occupazione militare francese del 1806 del regno di Napoli avrebbe
comportato l’uccisione di circa 60 mila conterranei. Non avrebbe mai potuto immaginare che nel 1802
Napoleone Bonaparte avrebbe rispristinato lo schiavismo abolito dalla Rivoluzione francese
e che sul finire del 1804 si sarebbe fatto incoronare Imperatore portando guerre, carestie e morte in tutta Europa
e insediando, nei nuovi regni conquistati, amici e parenti. Ci avrebbe pensato più tardi Vincenzo Cuoco a spiegare che nessuna rivoluzione è possibile contro e senza il popolo.
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