di Saretta D’Angelo
Una lettera da leggere come un romanzo. Oscar Wilde allo specchio. Le
grate del carcere di Reading sono testimoni della sua anima dilatata
fino all’inevitabile esplosione. Attraverso getti d’inchiostro
rovesciato su fogli il giovane Wilde accusa e perdona il suo amante
Bosie (Lord Alfred Douglas) un giovane nobile irlandese, ombra ingrata e
presenza umana oppressiva di Wilde per quattro anni, fedele segugio di
ogni suo passo per ricevere e mai dare, come pianta urticante
avvinghiata alla debolezza per succhiarne la sua linfa generosa e dal
suo passaggio seminare spine. Una grande gioia ridimensiona la sua mole se viene condivisa con ripetuti comportamenti d’ indifferenza. L’amore di Wilde chiede ascolto,
l’ingrato Bosie non sente. Una relazione durata quattro anni, dal 1891
al 1895. L’elevato rigore dei costumi sessuali della società vittoriana imposero
il provvedimento della giustizia per condannare quella passione, motivo
di offesa alla morale pubblica.
Durante il processo, alla domanda “Cos’è l’amore che non osa
pronunciare il proprio nome?” Lo scrittore rispose: “L’Amore, che non
osa dire il suo nome in questo secolo, è il grande affetto di un uomo
anziano nei confronti di un giovane, lo stesso che esisteva tra Davide e
Gionata, e che Platone mise alla base stessa della sua filosofia, lo
stesso che si può trovare nei sonetti di Michelangelo e di Shakespeare.
Non c’è nulla di innaturale in ciò”. Il processo per il reato di sodomia ebbe un solo imputato, lo scrittore, poeta e drammaturgo Oscar Wilde accusato di omosessualità,
sarà condannato il 24 maggio del 1895 a due anni di carcere e ai lavori
forzati. “La tragedia più orribile di tutta la storia della letteratura”. Fu
definito così il processo e la condanna al famoso scrittore. La cella di Wilde è troppo stretta per contenere tutto il suo dolore. La lettera rappresenta il foro da cui far sgorgare a fiotti tutta la sua sofferenza.
Wilde e Bosie, l’elegante e il grezzo, il diamante e il sasso sordo
alle sofferenze dell’elemento di valore. L’intellettuale costretto ai
lavori forzati, il dito puntato contro di lui, quello del padre di
Bosie, da sempre in guerra col figlio e per questo deciso a colpire il
suo amante. Il processo e il carcere come espiazione di una colpa di due
peccatori, la condanna a uno soltanto. La lunga lettera di Wilde è uno spartito in bianco e nero, lunghi spazi vuoti ospitano il cuore freddo di Bosie e si alternano a un pentagramma musicale armonioso, scaldato dalle note poetiche dello scrittore
irlandese. Il giovane Bosie, giardiniere maldestro di una primavera fin troppo
clemente con lui, coglie indegnamente il fiore dell’artista Wilde, i
petali intellettuali della sua ispirazione, il sentimento dato in pasto
al vuoto esistenziale di Bosie, un essere infimo e capriccioso, indegno
depositario di tanta bellezza.
La prigione non distrugge il futuro occultato alla vista, quando le
catene saranno sciolte nuovi orizzonti saranno visibili. Il male
sviluppato in cella cambia colore se lo sguardo supera l’ostacolo della
grata per raggiungere la fresca libertà di un prato fertile di respiro,
nuovo da calpestare. Il passaggio a tale identità conquistata richiede
una processione di giorni e di notti immersi nella più cupa sofferenza,
un dolore di anima e di membra malmenati ma ancora intatti,
l’ingiustizia avvelena il corpo come e più di una pozione assassina.
L’amore malato non s’interroga, l’azione crudele è il suo comandamento.
La lunga lettera di Oscar Wilde è necessaria a se stesso, il
destinatario è un nudo analfabeta dei profumi puri dell’amore. Tra
virgole e affanni la cella dello scrittore diventa laboratorio di
verità, tantissime le citazioni filosofiche, letterarie e religiose
contenute nel De Profundis, l’intimità dei suoi tormenti è un grido al
pubblico di una superiore conoscenza segregata dietro le sbarre.
Appassire o fiorire, solo due le alternative divise da un profondo odio.
Il dolore è il più intimo compagno di cella di tutti i carcerati, ne è
consapevole l’illustre autore della lettera, la voragine del silenzio
imposto dalla solitudine lo induce a dettagliare una lunga analisi della
figura di Cristo.
“Cristo è il supremo individualista”. L’anima dell’uomo è il suo tesoro
ma affinché mantenga la sua preziosità deve liberarsi da ogni forma di
possesso, dalla schiavitù delle cose. Il Piacere è una disgrazia più
grande della Miseria e del Dolore. Il dolore, prima del carcere considerato forma di vita imperfetta, ora segreto della vita senza maschera, fonte di emozione.
L’umanità del peccatore è riconosciuta da Cristo e per questo
profondamente amata. La perfezione divina appartiene ai santi, la
perfezione umana è sofferente, il pentimento è necessario per godere
della vera Luce, il regno dell’Amore. L’Arte è immaginazione e l’immensa opera di Cristo è quella di un artista della creazione. Cristo è quindi un poeta. L’immaginazione è lo strumento essenziale dell’artista, la meraviglia dell’umanità è poesia.
Il poeta regna sull’Amore dal suo trono visionario, Cristo carica su di
sé il fardello del peccatore per far fiorire la vocazione del perdono.
La lettera del carcerato sta per concludere il suo destino, eppure la
penna accusatoria si sdraia ancora un po’ sulla “fatale amicizia” che ha
portato il mittente alla disgrazia più grande. Il delirio di un idillio
interrotto chiede ancora un incontro al termine della prigionia, lo
scambio di lettere appare un pretesto per ritrovare la conferma di una
passione lacerata ma non completamente soppressa. “Niente è impossibile
all’Umiltà e all’Amore tutto è facile. Venisti a me per imparare il
Piacere della Vita e il Piacere dell’Arte. Forse sono stato scelto per
insegnarti qualcosa di più splendido: il significato del Dolore, e la
sua bellezza”.
Foto tratta da Storie di Napoli