di Massimo Costa
Si apriva in Sicilia un terribile vuoto di potere, giacché re Ludovico aveva ancora soltanto dieci anni. Giovanni lasciava il Ducato d’Atene e Neopatria e i feudi siciliani al piccolo figlio Federico (che comunque sarebbe morto nel 1355, lasciando il Ducato al cugino omonimo Federico, fratello minore di Ludovico). Per la Costituzione siciliana, la tutela del re, oltre alla regina madre Elisabetta, andava ora al Gran Giustiziere Blasco Alagona, di fatto signore di Catania. Ma questo era solo l’inizio della totale dissoluzione del potere centrale, dell’appropriazione dei diritti dello Stato da parte di feudatari grandi e piccoli che non riconoscevano all’Alagona una dignità superiore alla loro. L’errore fatale fu fatto dalla regina madre Elisabetta, che aveva sempre parteggiato per i Palizzi, poi esiliati. Ora richiama il superstite Matteo Palizzi, che il Gran Giustiziere Blasco Alagona non vuole fare approdare in Sicilia. Ma la regina fa il doppio gioco, lascia Catania, lo fa sbarcare a Messina, dove è accolto dalla sua fazione. Palizzi si mette d’accordo con l’ormai potentissimo clan familiare dei Chiaramonte, che possiedono più di mezza Sicilia. Insieme, impadronitisi della famiglia reale, che non fa ben capire da che parte sta, mentre il potere centrale collassa, attaccano il legittimo governo del Regno del giustiziere Alagona. Per farlo si appellano a una sorta di patriottismo dei “Latini” (cioè gli oriundi siciliani) contro i “Catalani”, colpevoli di essersi preso il Regno, dimenticando che re Ludovico era catalano pure lui, e che molti feudatari minori, paurosi dell’ambizione dei Chiaramonte, ancorché “latini”, si buttano dalla parte catalana. È guerra civile, con due governi che entrambi si richiamano al piccolo Ludovico; una guerra a bassa intensità, con colpi di mano, devastazioni di campi, cambi di casacca frequenti tra i contendenti. La Sicilia era dilaniata da povertà e carestie. Il Governo di Messina, a sua volta, aveva scelto un alleato troppo forte, i Chiaramonte, che da Palermo si consideravano i veri signori dell’Isola. Stranamente papato e Napoli, teoricamente in guerra con la Sicilia, non approfittarono di questo momento di debolezza, il primo perché troppo lontano, nell’esilio avignonese, il secondo perché dilaniato dalle sue guerre civili e con l’Ungheria. Anche l’Aragona in questi anni si disinteressa della Sicilia avendo altre priorità, soprattutto impegnata nella difficile conquista della Sardegna, mandando solo deboli soccorsi al governo alleato di Catania; la Sicilia è in questi anni come ripiegata su se stessa e quasi sequestrata dal mondo.
Alla fine (1350) si arrivò a una “pace” che in realtà era solo una tregua, in cui tutti i contendenti mantenevano lo statu quo e i rispettivi titoli, ma questi erano efficaci solo nelle zone rispettivamente controllate. E tutte le usurpazioni baronali erano provvisoriamente mantenute fino alla maggiore età di Ludovico. Non mancarono piccole violazioni della tregua. Ma non tutti gradivano il caos. Una rivolta contro i Chiaramonte nel Comune di Palermo (1351), condotta al grido di “Viva lu re e lupòpulu” fu soffocata dai potenti baroni. La Sicilia non era divisa nettamente tra le due parti, ma letteralmente a macchia di leopardo. Il partito “catalano” controllava il castello di Vicari, a due passi da Palermo, mentre i Chiaramonte amministravano “per conto” della regina la camera reginale, e quindi controllavano Siracusa, non troppo lontano da Catania. Nella tregua Blasco Alagona manteneva la carica di giustiziere (non poteva però emettere giudizi sulla parte controllata dai Latini), ma rinunciò alla carica di reggente, che, alla morte della regina Elisabetta (1352) fu presa dalla badessa Costanza, sorella maggiore di Ludovico.
Dal 1352 Ludovico, quattordicenne, comincia a compiere atti da sovrano, e dà segni di volersi emancipare dalla pesante tutela di Matteo Palizzi. Fa firmare una pace ai tre principali contendenti, che ora gestiscono congiuntamente la carica di “Vicario” nelle principali città del Regno, ma non può entrare nel pieno delle sue funzioni prima della maggiore età. Comunque comincia a girare il regno, a fare sentire la sua autorità. Nel frattempo muore anche un fratello minore del re, Giovanni (1353): una specie di maledizione sembrava perseguitare la casa Aragona, sterminando, uno ad uno i suoi componenti. Aizzando in Messina una rivolta contro Matteo Palizzi, il conte Manfredi Chiaramonte (cui presto sarebbe succeduto il figlio Simone), lo fa massacrare insieme alla famiglia dalla folla messinese (1353), ma il re ripara sotto la protezione degli Alagona a Catania, temendo il troppo potere della famiglia palermitana. Nel frattempo anche la sorella maggiore, la vicaria Badessa Costanza, muore; il vicariato passa alla minore Eufemia, mentre ancora Ludovico non è maggiorenne. Si arriva quindi ad una nuova guerra civile, in cui Simone Chiaramonte, pur di conservare il suo potere, si allea con i nemici di sempre, gli Angioini di Napoli, contro il legittimo governo di Sicilia, rinserrato a Catania. In cambio, però, chiede per l’Isola di Sicilia una semi-indipendenza: al re di Napoli sarebbe stato sì riconosciuto in esclusiva il titolo di “Re di Sicilia”, ma questi aveva l’obbligo di farsi coronare a Palermo, di visitare la capitale dell’Isola ogni tre anni, di affidare tutta l’amministrazione dell’Isola a Siciliani, di lasciare indiscussi i poteri semi-sovrani che ormai avevano acquisito i feudatari, nessun siciliano sarebbe stato giudicabile fuori dall’Isola. Insomma una specie di “statuto speciale” ante litteram che sarebbe valso alla Sicilia la semi-indipendenza dentro il Regno di Napoli. Questa alleanza però rese odiosi i Chiaramonte, che anno dopo anno persero posizioni a favore del governo legittimo. Re Ludovico reintegrò i Ventimiglia nei loro possedimenti delle Madonie, condusse personalmente (era giovanissimo, non ancora maggiorenne) una campagna di successo in Val di Mazara, il popolo di Siracusa buttò fuori la guarnigione chiaramontana al grido di “Viva lu re di Sicilia e lupòpulu”.
Stava quasi per rassodarsi l’autorità regia, Ludovico preparava matrimoni, quando, nel 1355 la sventura si abbatteva di nuovo sulla casa reale: moriva a 17 anni, poco dopo il cugino Federico duca d’Atene e marchese di Randazzo, prima ancora di essere entrato nel pieno delle sue funzioni. La Sicilia, sgomenta, era colpita di nuovo da una sfortuna incommensurabile; della casa reale restava ora solo, come maschio, il fratello più piccolo, di 12 anni, Federico (considerato IV, ma – come si è visto – in realtà solo il terzo re di Sicilia a portare questo nome), oltre alla vicaria Eufemia. Il Gran Giustiziere Blasco Alagona, che pur essendo uno dei tanti signori che usurpavano i poteri regi nelle città demaniali non lo aveva mai abbandonato, né tradito, lo seguì pochi giorni dopo nella tomba, lasciando i suoi possedimenti, il giustizierato e la signoria di fatto su Catania al figlio Artale.
Federico IV fu affidato alla tutela della sorella maggiore, Eufemia, con un governo debolissimo, nelle mani dei feudatari “fedeli” alla corona, e in condizioni interne di guerra civile, anzi di anarchia vera e propria. Sarebbe inutile seguire le innumerevoli tregue, riprese di ostilità, devastazioni di questi tristissimi anni. Il giovane re, dopo essere stato “controllato” a Messina dal conte Enrico Rosso (o della fazione “russa” come dicevano i Siciliani di allora) passa poi a Catania, sotto la protezione di Artale Alagona. Federico, ancorché minorenne e sotto la tutela della sorella, interveniva come poteva, più come mediatore tra i grandi feudatari che non come vero sovrano. La defezione dei Chiaramonte chiama in Sicilia gli Angioini di Napoli, che occupano Messina nel 1356, e poi si lanciano in una spedizione di “riconquista” dell’Isola, guidati dai re Luigi e Giovanna di Napoli in persona. Eppure ormai erano cessati i tempi della “crociata” contro la Sicilia; Papa Innocenzo VI nel frattempo aveva infatti tolto l’interdetto che risaliva ai tempi del Vespro, non sapendo più per quale ragione ancora fosse mantenuto, anche se una vera pace con il papato non si era ancora stipulata. Dopo una serie di successi dei Napoletani-Provenzali, questi assediano Catania, e a quel punto il regno sembrava perduto. Ma, a questo punto, i feudatari che avevano sempre ignorato gli ordini del governo e del re, sentono il pericolo del ritorno della mala signorìa e si sveglia di nuovo un sentimento nazionale, soprattutto quando arrivarono le notizie del brutale saccheggio di Aci. Da tutta la Sicilia accorsero soccorsi a Catania. Persino i Chiaramonte, timorosi di aver invitato un nuovo tiranno, abbandonano di fatto i Napoletani al loro destino. Anche un paio di navi arrivate dalla Catalogna, e mandate in soccorso da Eleonora (regina d’Aragona e sorella maggiore di Federico IV), aiutano nell’impresa. Gli Angioini sono sconfitti (1357) e devono ritirarsi, mantenendo però Messina, Milazzo e e le Eolie. Come segno di buona volontà e di riconciliazione nazionale, Federico si trasferì nei possedimenti di Francesco Ventimiglia (a Cefalù), ma questi lo tenne più prigioniero (con la vicaria Eufemia) che ospite. Continuò comunque il caos, la “confederazione” di Signorie baronali debolmente presieduta dalla Corona, l’usurpazione dei diritti demaniali. In questo frangente (1359) moriva pure la Vicaria Eufemia, che debolmente era riuscita a non far rompere gli Alagona con i Ventimiglia, e a ottenere alcune tregue con i Chiaramonte (formalmente fedeli ancora a Napoli), mentre Federico non era ancora maggiorenne. Senza alcuna base giuridica i Ventimiglia, che erano soltanto “Gran camerari” a vita ed ereditari, si proclamarono tutori di Federico IV, stringendo la vigilanza sullo stesso.
All’esterno l’oligarchia baronale sapeva bene o male compattarsi per difendere l’autonomia del Regno, e per questo aveva bisogno di un re, anche solamente simbolico. Ma all’interno, pur rispettando la forma degli ordinamenti dei precedenti sovrani, li stravolse usurpando praticamente tutti i diritti della Corona. Federico IV riesce però a fuggire dalla prigione dorata dei Ventimiglia (1361), ormai quasi diciottenne e quindi a emanciparsi da ogni tutela, se non quella di fatto degli Alagona che, tra tutti i grandi del Regno, erano quelli che mostravano più senso dello stato e rispetto per la corona. Riesce a concludere un matrimonio vantaggioso con Costanza d’Aragona, sua consanguinea (tra regine vere e consorti sarebbe quindi la quarta con questo nome) e a convincere Ventimiglia e Chiaramonte a fare atto di sottomissione al re, a un re per ora quasi senza alcuna risorsa economica o potere. Federico IV ora pensava di andare a Palermo a incoronarsi, ma una fazione avversa gli impedì il passaggio nel centro della Sicilia. Con le truppe a lui fedeli il debole re tentò la prova di forza, ma la battaglia che ne seguì (a Caltanissetta) non fu decisiva per nessuna delle due parti. Dovette accettare patti umilianti per continuare a regnare, più da “arbitro” che da vero signore. In cambio i suoi vassalli lo insultavano, chiamandolo “asino”, tranne i sempre fedeli Alagona, che pure non mancavano di usurpare i diritti regi nei territori da loro controllati. E tuttavia questa “pace” del 1362 mise termine a una guerra civile endemica che era iniziata nel 1348 alla morte del duca Giovanni, ma questo avrebbe rappresentato una modifica costituzionale radicale del Regno. Nel 1348 c’era ancora un’autorità centrale salda; nel 1362 i pochi organi centrali funzionanti, come la Magna Curia, vedevano una rappresentanza paritetica dei grandi del Regno. Oppure, nel caso della flotta, questa era data dalla somma di quelle cittadine.
Non tutti gli storici però danno una valutazione negativa di questa apparente anarchia. Probabilmente la Sicilia si stava avviando a un regime di “signorìe” sovrane come quelle dell’Italia centro-settentrionale, debolmente confederate tra loro, ma garantendo tranquillità e ordine all’interno dei rispettivi confini. Insomma, l’unico vero danno sembrava essere la perdita dell’unità politica, che durava almeno dalla conquista normanna. Nel 1363 la drammatica esistenza di Federico IV fu allietata dalla nascita di una figlia, la futura regina Maria. Affinché non fosse troppo felice, però, tre giorni dopo il destino gli tolse la moglie Costanza per una recrudescenza della peste. Nel 1364 l’ultimo barone ribelle, Manfredi Chiaramonte, di uno dei tanti rami della potente famiglia, abbandona gli Angioini e rientra nella più comoda “confederazione anarchica” che allegramente governava la Sicilia di allora e per premio viene fatto Ammiraglio del Regno, per una flotta in verità tutta da ricostruire. Nello stesso anno una rivolta spontanea cacciava i Francesi/Napoletani da Messina. Federico IV in qualche modo regnava: riuscì ad entrare a Palermo, si spostava liberamente. Spostò infine la sua residenza da Catania a Messina quando questa fu liberata. Ormai i pontefici avevano compreso che la divisione tra i due regni di Sicilia era irreversibile e spingevano per una soluzione diplomatica, ma le trattative con Napoli andavano per le lunghe. Il re, poco a poco, tentava di recuperare pezzi di sovranità. Quasi sempre non ci riusciva, anche per sua debolezza di carattere. Ma pure qualche piccolo risultato dovette dare fastidio, se nel 1371 sfuggì a Messina a un attentato di origine baronale.
Si deve a questo debolissimo re però un grande risultato: la pace definitiva con Napoli nel 1372. Finalmente, dopo 90 anni, si poneva termine alla Guerra del Vespro, con tanto di benedizione da parte di Papa Gregorio XI. L’indipendenza dei due regni era garantita. Il Regno di Napoli era l’unico che si sarebbe chiamato ufficialmente “Regno di Sicilia” (ma nei fatti tutti lo chiamavano “Regno di Napoli”), mentre l’Isola doveva essere solo “Regno di Trinacria” (ma questo nome fu usato solo per la corrispondenza con Napoli e il papa, per il resto si riprese a usare il titolo di “Re di Sicilia”). I due regni erano nominalmente feudi papali e, per la sola vita della Regina Giovanna, il re di Trinacria era feudatario anche del re di Sicilia (Napoli). Napoli lasciava Milazzo e le altre fortezze ancora tenute in Sicilia ma teneva le Isole Eolie solo per la vita della regina Giovanna (in realtà non le avrebbero più restituite per secoli). Alcune limitazioni erano poste persino all’apostolica legazìa che però non fu revocata. Non era il migliore trattato per la Sicilia, ma un regno debolissimo, esausto da 90 anni di guerre interne ed esterne, otteneva finalmente il riconoscimento internazionale per la propria indipendenza. La Guerra del Vespro era stata sostanzialmente vinta. La Sicilia manteneva i Ducati di Atene e Neopatria, dove forse l’autorità regia era più in onore che in Sicilia. Federico IV, comunque, preferì non incoronarsi mai a Palermo, forse per non dover fare omaggio feudale a Giovanna di Napoli e, incidentalmente, per questo non lo fece nemmeno alla Chiesa. Il tributo alla Chiesa, poi, fu pagato poco e male, e terminò con una sorta di sanatoria. Federico si imparentò, quindi, con la nobiltà meridionale, sposando Antonia Del Balzo (1373) e riprendendo i suoi tentativi di lento recupero della sovranità.
La morte accidentale anche della seconda moglie (1375) lo condusse letteralmente a una malattia psicologica da cui non riuscì più a venire fuori, cui seguì la morte, nel 1377, a soli 34 anni, secondo alcuni per tumore. Lasciò erede universale della Sicilia e dei possedimenti greci la figlia Maria, sotto la tutela di Artale Alagona, Gran Giustiziere come il padre Blasco, e lasciando a un figlio naturale, Guglielmo, solo la contea di Malta e Gozo.
Fine 21esima puntata / Continua
QUI TROVATE LE PUNTATE PRECEDENTI
Foto tratta da Wikipedia
Visualizza commenti